13 Gennaio 2021

“Sembra la Versailles del dolore”. Viaggio negli inferi del Salpêtrière

Niente di meglio che avere a disposizione il ‘mostro’, dissezionarlo, studiarlo, ridurlo a norma. Abolirlo, semmai. Oppure, ‘venderlo’. Se poi il mostro è un assedio, carnale, femminile, lo studio diventa ‘messa in scena’ che flirta con la lussuria, la messa dello scienziato/mago che mostra l’opificio dei mostri, lo zoo. È lui, il medico, officiante e sacro cibo, un po’ anchorman, un po’ re taumaturgo.  

Il Salpêtrière era un carnaio, l’Ade degli squilibri: vi si affollavano donne inermi, prostitute, poveracce, ladre. Anche una mistica passeggiò per quei gironi: Louise du Néant, Luisa del Nulla, aristocratica, presa per pazza, gettata lì nel 1677, micidiale nell’umiliazione. “Il giorno del venerdì santo le mie padrone mi tolsero la scodella e la mia porzione, mi lasciarono soltanto qualche rifiuto, ne riempirono i miei abiti, mi caricarono di maledizioni spaventose, Dio mi ha fatto la grazia di ringraziarle”, scrive, lei. Due secoli dopo, al Salpêtrière spadroneggiava Jean-Martin Charcot: infanzia tormentata, talento virile, viso severo, ampio, carismatico, buon gusto nel vestire. Un genio. Un monarca. “Si trattava, tuttavia, di un inferno. Le stampe, di fatto, lo dimostrano; ci furono anche le commiserazioni letterarie degli ammiratori di Charcot, i quali ‘visitavano’ la Salpêtrière e ‘assistevano’ alle celebri lezioni del martedì; come testimonia il testo di Jules Clarétie (membro dell’Accademia francese): ‘Al di là di queste mura vive, pullula e si trascina, nel medesimo tempo, una popolazione particolare: persone anziane, povere donne, riposanti in attesa della morte stese su una panca, dementi in preda al furore o a gemiti di tristezza nella corte delle agitate oppure nella solitudine della cella. Le mura spesse di questa città dolorosa, sembrano aver conservato, nella loro vetusta solennità, il carattere maestoso di un quartiere al tempo di Luigi XIV… Sembra la Versailles del dolore’. Un simile testo (Charcot, le consolateur) non desiderava che mostrare Charcot non solo come un Re Sole e un Cesare, ma altresì come una specie di apostolo che ‘guidò e consolò il suo tempo’. Charcot fu paragonato non da ultimo a Bonaparte” (Georges Didi-Huberman).   

Salpêtrière, in fondo, è un labirinto organizzato: chi ne ha cura è custode e carnefice. La società si libera del ‘mostro’, lo affida a un carismatico custode, affinché lui ce ne offra la rappresentazione. Noi non vogliamo vedere la faccia del folle – in cui risuona la nostra detestabile follia, destinata al frustrato, all’ipocrita che ci anima – ma eccita la sua fotografia, in questo caso l’“Iconographie photographique de la Salpêtrière”. Vedere il folle in fotografia ci pacifica: egli è davvero ‘diverso’, lo dimostrano le stravolte espressioni del corpo; d’altronde, posso riconoscermi a lui simile, senza che alcuno se ne accorga. Vedo la follia, senza toccare il folle: esercizio di mente, fittizio, malsano. Tutto, della presunta follia, infatti, è corpo, cornucopia della carne, crisi e crocefissione: badili di corpi e occhi rovesciati addosso e mani che azzannano.

Il quadro di Tony Robert-Fleury (1837-1911), pittore ‘pompiere’, che ritrae Philippe Pineal alla Salpêtrière, è emblematico. Pineal (1745-1826) è stato direttore dell’ospedale, il primo a ‘curare’ i malati mentali. Al centro del quadro, in piedi, c’è una malata, pallida, dallo sguardo svanito; di fianco, elegante – bastone, cappello, cappotto – il medico, concentrato su di lei. Intorno, una folla di donne; una è riversa, ha gli occhi chiusi, sbava, si strappa la camicia, da cui penzola un seno; un’altra bacia, con venerazione, la mano del medico. Il corpo è ovunque: nella nudità, nel bacio. Le folli sono donne e la loro raffigurazione pare quella, classica, delle Baccanti, delle Erinni. Lo psichiatra, viene da pensare, non si limita a curare: ha ragione delle forze mitiche, dionisiache, della terra, vince le dominatrici dell’ira, della vendetta. Domina le Furie e le Parche. Impera sul caos della mente e sulla natura: conosce l’immortalità.

In ogni caso, la follia deve essere rappresentata: specie di lavacro di ogni colpa, di pittorico condono. Charcot aggiunge un ingrediente. La scienza. Il suo metodo, cioè, si avvale della tecnica fotografica: l’“Iconographie” si fonda sull’alto ingegno della cura. “Charcot fu piuttosto il direttore dell’opera e l’accomandante di un tipo narrativo e iconico che il suo concetto di isteria, così come il suo obiettivo epistemologico, innanzitutto esigevano”, scrive Georges Didi-Huberman in uno studio eccezionale, L’invenzione dell’isteria. Charcot e l’iconografia fotografica della Salpêtrière, riproposto da Marietti 1820 in edizione di pregio (la precedente è del 2008). Il filosofo studia le ‘pose’ delle malate – spesso prodotte artatamente –, il volto evanescente, lo strazio singolare del corpo, per compiere un ragionamento sullo “spettacolo del dolore”. In qualche modo, lo spazio muto della Salpêtrière inizia a gridare, a inglobare la città dei ‘sani’. I ‘sani’, però, assistono allo show ospedaliero, terrifico, come si va a teatro, come si va al circo. Tra il malato e il freak, che intrattiene gli spettatori nelle carovane circensi, la differenza è sottile. Il freak è ‘mostruoso’, mentre il folle è il mostro; il freak è unico – è la sua eccezionalità a rendere lecito il prezzo del biglietto – le folli sono una folla, una falange infinita. La diversità diverte, magari; la malattia turba. Paul Régnard, il medico-fotografo alleato di Charcot, cerca, come tutti i fotografi, la posa ‘ideale’, ‘l’effetto’, perché effettivamente chi vede non ammira il quotidiano ma l’eccezionale. La scienza, dunque, è tutta a servizio dell’eccellenza, dell’eccezione: quella del medico – maestro, capo carismatico, mago – e quella del folle – che dell’uomo più che la deficienza raffigura l’eccedenza. “Le immagini erano senza dubbio coerenti e portatrici di senso… la loro coerenza comportava qualcosa di abusivo, di duplice, di capzioso”, scrive Didi-Huberman.

Si blocca la malattia nell’irripetibile o se ne auspica, per icone, la ripetizione? La simulazione è ingresso nelle icone rovesciate. Lo stravolgimento del corpo fotografato della donna, ripreso in ogni posa, con oltraggio, accende la sottile lussuria. Il piacere di vedere l’altra dominata, placata, malata. Tra il contorcimento dell’isterica e l’estasi della santa, piuttosto, pare futile la differenza: una fotografia del 1876 ha per didascalia Extase. Soltanto: l’isteria pretende una spiegazione, l’estasi precipita nell’inspiegabile. (Curare non è pure curare da Dio?, ricondurre all’umano?).

“Alla Salpêtrière s’impose una forma: l’Isteria. Alcune volte, le donne assunte come semplici ‘inservienti’ diventavano isteriche nel giro appena di qualche giorno, arrivavano perfino a tentare il suicidio come ultima risorsa rispetto a tale forma. Non tutto si risolveva nel consenso. La forma apprezza, testa, infine detesta le immagini, nel momento in cui le immagini diventano fin troppo sconcertanti, ovvero perdono in bellezza. Ma non si cesserà mai di costruire altre immagini, nella perversa speranza di ottenere un’immagine adeguata alla forma”. Che cosa si testimonia fotografando il male se non il proprio male? Vagando per il mondo, cerchiamo chi è uguale all’Io – questo termine disincantato – che abita il nostro corpo, lacerandolo.

Gruppo MAGOG