05 Aprile 2021

“In India, oggi, è tornata la mezzanotte”. Salman Rushdie

Nel 1981 l’editore Jonathan Cape pubblica “I figli della mezzanotte”, romanzo dell’allora pressoché sconosciuto Salman Rushdie. Nato a Bombay nel 1947, cresciuto in Inghilterra, Rushdie ha esordito nel 1975 con “Grimus”, una fiaba pubblicata senza particolari riscontri. “I figli della mezzanotte”, a contrario, fu omaggiato come un capolavoro: vi si racconta la storia di diversi bambini che nascono alla mezzanotte del 15 agosto 1947, il giorno in cui l’India diventa indipendente. Ciascuno di loro ha in dote poteri inauditi, ma più di tutti è Saleem Sinai, genio inquieto e surreale, a tessere le fila di una narrazione polimorfica. Il romanzo ha vinto tutti i premi possibili, compreso il Booker Prize; nel 1999 “Le Monde”, in vena di classifiche, l’ha installato tra i 100 libri del secolo (dei primi 10, 7 sono francesi…), e di questi è il più recente. Quasi a dire: da allora, il nulla. In Italia il romanzo è edito da Mondadori. Da allora, piuttosto, Rushdie, nell’empireo, ha scritto molto, non più con quell’ispirazione. Si è parlato di lui per la fatwa inflittagli da Khomeyni in seguito alla pubblicazione de “I versi satanici”. In questo saggio, Rushdie medita, quarant’anni dopo, intorno al suo libro (la versione integrale dell’intervento la leggete qui).

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Longevità. Questo è il premio per cui gli scrittori si battono e che nessuna giuria è in grado di assegnare. Che un libro resista alla prova del tempo, che si tramandi per generazioni, è cosa assai rara. Non facciamo che questo, d’altronde, realizzare opere d’arte che, se siamo molto fortunati, ci resisteranno, dureranno nel tempo.

Da lettore, ho sempre amato le finzioni ampie, oceaniche, dal cuore generoso: i libri che raccolgono il mondo a larghe bracciate. Quando ho iniziato a scrivere quello che sarebbe diventato I figli della mezzanotte, ho guardato ai grandi romanzi russi del XIX secolo: Delitto e castigo, Anna Karenina, Le anime morte, libri che Henry James ha definito “mostri enormi, e insidiosi”. Ho guardato a Tristram Shandy (selvaggiamente innovativo, per nulla realista), a Vanity Fair (irto dei coltelli affilati della satira), a Little Dorrit (che per certe scene profetizza il realismo magico), a Casa desolata. E quell’immenso precursore francese, Gargantua e Pantagruel, che è pura favola.

Avevo in mente anche le controparti contemporanee di quei capolavori, Il tamburo di latta, Cent’anni di solitudine, Le avventure di Augie March, Catch-22, i mondi straordinariamente ricchi di Iris Murdoch e di Doris Lessing. Pensavo pure all’immensa poesia indiana, al Mahabharata e al Ramayana, alla tradizione fiabesca del Panchatantra e delle Mille e una notte. Mi sono rifatto alle tradizioni narrative orali dell’India, in cui la digressione è il principio fondamentale: il narratore, in una sorta di sortilegio vorticoso, attacca da un brandello mitologico, da un racconto politico, da uno sketch autobiografico; lui e solo lui può variare il racconto, moltiplicarlo, lasciando estasiato il pubblico. Ho amato la molteplicità e la sua seduzione. Ai giovani scrittori, di solito, viene dato, in pillole, lo stesso consiglio che il Re di Cuori, nelle Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, dà al Bianconiglio: “Comincia dall’inizio… e vai avanti finché non arrivi alla fine; poi fermati”. Ecco: dai maestri della narrazione orale, in particolare del Kerala, nel sud dell’India, ho imparato che quello non è il solo modo di affrontare le cose. Soprattutto, non è il modo più accattivante.

Il romanzo che stavo architettando era un romanzo multigenerazionale, che attraversa più famiglie, quindi mi sono inevitabilmente confrontato con I Buddenbrook di Thomas Mann e ho letto con grande ammirazione La Storia di Elsa Morante. E visto che doveva essere il romanzo di Bombay, avevo bisogno di radicarlo in una atmosfera filmica, alla ‘Bollywood’, in cui calamità come uno scambio di bambini alla nascita, allevati da madri sbagliate è all’ordine del giorno, una fuga del caso, o quasi.

Insomma, il mio romanzo aveva l’ambizione di un volteggio, un gioco da equilibrista senza rete di sicurezza, o tutto o niente. Un romanzo, volevo, in cui memoria e politica, amore e odio si sarebbero mescolati ad ogni pagina. Ero uno scrittore inesperto, sconosciuto, alieno alla fama. Per scrivere un libro del genere ho dovuto imparare a farlo: e imparare scrivendo. Ho lavorato cinque anni prima di poterlo mostrare a qualcuno. Nonostante i suoi elementi surreali, I figli della mezzanotte è un libro storico che si pone una domanda fondamentale: che rapporto c’è tra società e individuo, tra macrocosmo e microcosmo? Per dirla in altro modo: siamo noi a fare la storia o è lei a farci (e a disfarci)? Siamo padroni o vittime del nostro tempo?

Il mio eroe, Seleem Sinai, risponde in modo insolito: crede che tutto accada a causa sua. Che la storia sia colpa sua. Questa convinzione è assurda, a tal punto che al principio pare comica. Man mano che cresce, quando l’abisso tra la sua fede e la realtà dei fatti si dilata, quando si accorge di diventare sempre di più una vittima, quel credo si tinge di tristezza, forse perfino di tragedia. Quarant’anni dopo la pubblicazione di quel romanzo – 45 anni dopo aver battuto la prima parola con una macchina da scrivere – sento la necessità di difendere quella fede piuttosto folle. Forse siamo tutti, come ho fatto dire a Saleem, “ammanettati alla Storia”. Se è così, allora, vuol dire che la Storia è colpa nostra, che essa è la conseguenza, fluida, mutevole, metamorfica, delle nostre scelte, ed è dunque nostra responsabilità. Dopo tutto, se non è nostra, di chi è? Non c’è nessun altro intorno. Siamo soli. Siamo noi. A Saleem Sinai direi: il tuo fardello lo condividiamo tutti. Non devi portarlo soltanto tu. […]

Scrivendo, mi sono trovato a che fare con un grande precursore, il Forster di Passaggio in India. Ho ammirato quel romanzo e ho avuto la fortuna, come studente al King’s College di Cambridge, di incontrare E.M. Forster, che mi ha incoraggiato con candida generosità quando gli dissi, timidamente, che volevo scrivere. Ma appena ho iniziato a scrivere il mio “libro sull’India” – per diverso tempo non sapevo ancora come chiamarlo – ho capito che l’inglese forsteriano, così freddo, così preciso, non mi sarebbe stato utile. Non andava bene per l’India. L’India non è cool. L’India è calda, brucia. È calda, rumorosa, piena di odori, affollata, eccessiva. Come è possibile comprimerla in una pagina? Come è possibile ideare un inglese caldo, rumoroso, pieno di odori, affollato, eccessivo? Il mio romanzo è anche una risposta a questa domanda.

La questione della folla, ad esempio, necessitava di una risposta formale oltre che linguistica. La moltitudine è il fatto più comune in India. Ovunque tu vada, la folla umana è sovrastante, ti soverchia. Come può un romanzo abbracciare una tale moltitudine? Così, ho scelto deliberatamente di raccontare una folla di storie, di sovraffollare la narrazione, di modo che la “mia” storia avrebbe dovuto farsi largo in una massa di altre storie. Ci sono personaggi minori e fatti incidentali che avrebbero potuto essere espansi in narrazioni più lunghe, ma questo “spreco” era necessario. Quello “spreco” è il mio baccano, il mio vortice vertiginoso, la mia folla. […]

Quarant’anni sono tanti. L’India di oggi non è più quella del mio romanzo. Quando ho scritto I figli della mezzanotte avevo in mente una storia che partiva dalla speranza dell’indipendenza – una speranza insanguinata, certo, ma tuttavia una speranza – al tradimento della speranza, con lo “stato di emergenza” indetto da Indira Gandhi, seguito dalla nascita di una nuova speranza. L’India, oggi, è entrata in una fase ancora più buia degli anni dell’emergenza. L’orribile aumento di aggressioni contro le donne, il carattere sempre più autoritario dello Stato, gli arresti ingiustificati di chi si oppone all’autoritarismo, il fanatismo religioso, la riscrittura della storia per adattarla alla narrazione di chi vuole mutare l’India in una nazione indù, e la popolarità del regime inducono a una sorta di disperazione.

Quando ho scritto quel romanzo, ho associato Saleem al dio dall’enorme proboscide, Ganesh, la divinità protettrice della letteratura, tra l’altro: mi è parso quasi ovvio, anche se Saleem non è indù. Tutta l’India era di tutti, o almeno, così credevo profondamente. E ci credo ancora, nonostante un brutale settarismo preferisca che la pensiamo in modo diverso. La speranza è nella determinazione delle donne e degli studenti universitari indiani, che reclamano la vecchia, laica India, e lottano contro l’oscurità. Auguro loro ogni bene. In India, oggi, è tornata la mezzanotte.

Salman Rushdie

*In copertina: dall’India, una fotografia di Steve McCurry

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