07 Gennaio 2020

“Scrivere è andare disarmati incontro ad ombre guerriere”. Sulla poesia di Giovanna Rosadini

Nel mese di ottobre del 1966 Alejandra Pizarnik scrive all’amico Juan Liscano che “non vi possono essere poeti di valore senza una durezza particolare, senza una delicatezza particolare che nulla ha a che vedere con i problemi privati”. È quanto si sente (intendo riferirmi all’impasto sonoro della lingua), percorrendo con gli occhi e con la voce mentale i testi di Giovanna Rosadini raccolti nella bella autoantologia con inediti, recentemente pubblicata nella collana “Gialla oro” di LietoColle/Pordenonelegge, per la quale l’autrice ha scelto come titolo Frammenti di felicità terrena, come a sottolineare l’importanza di un nuovo approdo scritturale dopo un già significativo viaggio con le parole e nelle parole.

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Per ritornare all’affermazione della Pizarnik e, perciò, ai poli ossimorici della durezza e della delicatezza, ci soccorre, per dichiarare  intanto la presenza della prima nella poesia della Rosadini, una serie di oggetti ricorrenti (reali quanto metaforici, se è vero che le parole evocano le cose, e le cose immagini), quali lame, coltelli, tagli, scorticamenti che procurano sofferenza e al corpo vivo e materico e a quell’altro che è il corpo della parola; e mi chiedo se tra i due ci sia una qualche soluzione di continuità, vivisezionati come sono entrambi con quell’attenzione, appunto, tagliente, che non lascia spazio a nessun fraintendimento, così da generare una sensazione di concretezza lucida, per quanto riguarda il bagaglio iconico, e, per ciò che riguarda la struttura linguistica, di compattezza e coerenza vivissime, come di fronte a un monolite levigatissimo.

L’attenzione si esercita senza indietreggiamenti o slittamenti di stile anche nella dimensione interiore, grazie a un’indagine quasi rabdomantica del proprio sé più remoto, e, non a caso, la prima raccolta poetica ha il titolo di Sistema limbico, con il quale si suole identificare in termini medici quelle strutture cerebrali e quei circuiti neuronali presenti nella parte più profonda del telencefalo, e che hanno a che fare con le emozioni, l’umore, il senso di autocoscienza, la continuità della specie e, di conseguenza, con il senso più primitivo che è l’olfatto, legato arcaicamente al desiderio (“da un punto interno all’ombelico / ramifica una mappa elettrica di vibrazioni / salda potenza che flette il selciato / e fende un tepore olfattivo presago”) e alla memoria.

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In Battery Park il versomentre l’olfatto solidifica ricordi” non può non rinviare al motore della ricerca proustiana e all’importanza che la memoria ha nella salvazione di sé, della propria presenza anche nei momenti di oscuramento (“Una labile traccia olfattiva / li mantiene presenti al mondo” scrive la Rosadini, riferendosi a dei gerani che sembrano spariti nella notte insieme ai loro colori).

Il tema della memoria è del resto fondamentale nella poetica della Rosadini ed è in questa direzione che s’avvera soprattutto l’altra qualità della delicatezza, ogni volta essa si volga all’età felice dell’infanzia, vissuta tra paesaggi marini, colori, odori, presenze affettuose senza terrori o avvertimenti di incompiutezza, di mancanze, con quel pieno affidamento, sempre cercato nell’età matura ma tanto più difficile da mantenere tra i disequilibri relazionali con l’altro- gli altri, l’altra di sé.

È per questo che l’ultima sezione del libro Frammenti di felicità terrena, gli inediti frammenti prosastici in cui l’autrice evoca l’età prima, appare la più gioiosa, quella in cui i paesaggi sono immersi nella luce e dominano i colori della pittura mistica, come il blu, l’oro, e i fiori fanno il loro mestiere di incantare gli occhi e l’olfatto. Per questo motivo nel mio commento a Fioriture capovolte ho definito la Rosadini una poeta del paesaggio, tanto vividamente splendono nei suoi versi i cieli e il mare e i colori vibranti e mutevoli dell’aria

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Qua e là, nelle altre raccolte, tornano ad aprirsi paesaggi come questi, in cui ciò che è visto adesso contiene anche ciò che è stato visto allora, se è vero che il poeta vive perennemente nella memoria per necessità di trasfigurazione e metaforizzazione del reale, ovvero per trarre dalle cose tutte le altre cose che altrimenti non sarebbero mai, e dare profondità e spessore al mestiere della nominazione.

Il ritorno della memoria al tempo e ai luoghi dell’infanzia ci narra anche la vocazione dell’autrice al viaggio (“Non deve sfuggire l’eloquenza del viaggio, la sua irresistibile vitalità”, sottolinea nella sua nota di lettura Elio Grasso), sia che esso venga tracciato nello spazio attraverso i luoghi della propria esperienza biografica (Genova, Venezia, New York, Milano, Gerusalemme), sia che si traduca in un’intima esplorazione di sé, coincidendo con l’atto stesso della scrittura.

Ascoltiamo allora quanto dice di essa la Rosadini in “Corollario” che chiude l’antologia: “Scrivere è un ritorno – innesco che apre voragini / di senso, un andare disarmati incontro / ad ombre infestanti e guerriere. Scrivere / è il gesto che consuma l’attesa, e porta ai confini/ di un’eco dimenticata, di una vita forse/ prigioniera  fra lamiere, e ancora sconosciuta”; testo, questo, che oltre a enunciare i principi fondanti della propria poetica e l’humus in cui si innesta il suo versificare, costituisce il punto di chiusura di un ritmo circolare, se lo si mette a confronto con “la meta” intima della prima raccolta, che è appunto la lettura di una se stessa più remota e inascoltata.

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Il testo contenuto in “Corollario” mi sembra interessante anche perché contiene un termine chiave nella poesia della Rosadini, che è “attesa”. Essa, infatti, ricorre in tutte le raccolte, testimoniando quella particolare disposizione caratteriale all’apertura nei confronti degli altri e della vita. C’è in lei come un’ostinazione, una tenacia che evita la disperazione anche nei momenti più difficili, trasformando il dolore in occasione di crescita, in possibilità di trasformazione, in volontà di ritrovamento e rinnovamento, come accade in Unità di risveglio, in cui viene narrata l’esperienza estrema del coma, da cui ha origine quell’attenzione al “corpo”, che è uno dei nuclei portanti della sua poesia.

Ma non esaurirei a dovere il tema della delicatezza, da cui mi sono allontanata per seguire il filo complesso delle associazioni mentali, se trascurassi due altri fondamentali temi della poesia della Rosadini, che sono la religione e l’affetto filiale, all’interno dei quali si aprono schiarite emozionali e sensazioni di completezza rassicuranti. (Non così, però, accade nelle relazioni sentimentali, che spesso scorticano e ustionano, fino a dare luogo ad immagini crude e bellissime come questa: “Così, lepre caduta in una caccia / fuori stagione, appesa per zampe / ormai inservibili, si appresta/ al fuoco lento che l’attende”).

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Il tema religioso è di fondamentale importanza per la comprensione non solo del rapporto della parola poetica con quella divina, ma dello stesso bagaglio iconico dell’autrice che fa spesso riferimento a immagini delle scritture sacre, come il tempio, il tralcio, l’uva, l’esilio, il deserto. Ovviamente esso costituisce l’ossatura portante de Il numero completo dei giorni, in cui la Rosadini rilegge, interpretandola, la trama del Pentateuco scandita dalle porzioni di testo in cui è suddiviso, le parashot. L’operazione che qui viene compiuta è tra le più azzardate e affascinanti che si possano immaginare, in quanto storie e personaggi biblici vengono attualizzati, mostrando la loro inesauribile vitalità e forza paradigmatica, attraverso le più intime, personali vicende, assumendo la poeta, di volta in volta, su di sé la bellezza significante della parola sacra e ripercorrendo la storia del popolo ebraico: l’abbandono, l’esilio, l’attraversamento del deserto, il ritorno  alla patria perduta segnano le tappe della sua esistenza (se non di ogni umana esistenza tout court) e dello stesso itinerario  poetico, che in fin dei conti è una forma a specchio della creazione divina attraverso la parola.

Ma la cosa più significativa è che l’intrecciarsi dell’io con il destino di un popolo, l’universalizzazione dell’esperienza soggettiva, fa del singolo un membro vivo di una vasta comunità. Questa collettivizzazione, operata nel recupero della tradizione ebraica, rappresenta lo strumento necessario alla salvezza del passato all’interno del presente, come alla salvaguardia di una propria specifica identità.

La Rosadini ci parla, in altre parole, del nostro viaggio destinale attraverso un itinerario spesso contraddittorio, fra luci ed ombre, teso a quella compiutezza ideale che solo ci fu dato di pregustare nel paradiso dell’infanzia, quando ci si sentiva “parte armonica di un tutto più grande”. “Ripercorrere i giorni di Giovanna Rosadini significa – scrive Davide Brullo – esprimerli, certo, ma redimerli come chi riviva un’esistenza smussando astuzie e dolori. Allora è questa richiesta di benedizione la letteratura”.

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Nella sua poesia, in ogni caso, l’armonia vibra sempre nei segni-suoni: una musica orchestrata abilmente tra rime, spesso interne, allitterazioni, combinazioni eufoniche di parole, scelte e lavorate quasi con la precisione di un bulino e non di rado messe insieme secondo un climax ascendente di senso. Infatti, è uno stilema della Rosadini l’accumulo di immagini, descrizioni, definizioni nell’intento di approssimarsi il più possibile alla chiarezza e alla verità di emozioni e percezioni, o di raccontare compiutamente fatti, sentimenti, riflessioni, anche se le accade più volte di rimanere egualmente sospesa, come su una soglia, mentre fluttua intorno una presenza arcana, che nemmeno la parola poetica, sebbene slacciata dalla prigionia dell’usura quotidiana, è in grado di raggiungere.

Franca Alaimo

*In copertina: Giovanna Rosadini in un ritratto fotografico di Dino Ignani

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