15 Febbraio 2021

“Amami così smetto di farti spavento”: inno a una sacralità dimenticata nel nuovo romanzo di Elena Mearini

L’espropriazione piccolo borghese di alcune parole che sarebbe stato importante continuare a usare (come ad esempio “resilienza”, “empatia” e “partecipazione”, che dopo gli abusi della retorica politica e pubblicistica ormai non significano quasi più niente), sottrae alcune delle chiavi analitiche per interpretare il nuovo romanzo di Elena Mearini, I passi di mia madre (Morellini Editore, collana Varianti diretta da Mauro Morellini e Sara Rattaro). Sarebbe stato opportuno definirlo un romanzo resiliente? Probabilmente. O empatico? Forse. Ma visto che dobbiamo rinunciarvi, la prima cosa che mi viene in mente è che questo sia un romanzo sulla caducità, non sulla fatalità o sul fatalismo (sebbene questi farebbero persino comodo), ma sull’esatto opposto. Cioè una storia che conduce alla nobile arte della rinuncia, alla facoltà civile e persino politica di decidere di non decidere.

La confusione come bussola, la caducità nostra stessa cometa

Per quel nulla che vale la mia opinione, detesto recensioni e presentazioni in cui si raccontano i romanzi cominciando dalla trama: sembrano un paradossale invito a non leggerli affatto, come se attraverso una excusatio non petita il recensore chiedesse scusa prima ancora di entrare nel merito del testo, mettesse le mani avanti per dimostrare (innanzitutto ai lettori) che il libro di cui parla l’ha veramente sfogliato. Questa pratica scolastica, drammaticamente giornalistica ed editoriale, ci ha ridotto nelle condizioni di non dover più pretendere qualcosa dai libri che leggiamo (che invece è proprio quello che si dovrebbe fare, cioè esigere che siano vivi, che siano libri). Allora ho pensato di “suggerirvi” quello che secondo me si dovrebbe pretendere da I passi di mia madre: si dovrebbero pretendere la confusione come bussola, una maggiore consapevolezza della cura intesa come esigenza estetica (vista la lingua nobile cui l’autrice fa ricorso) e pratica letterale (prendersi più cura di sé stessi e degli altri). 

Non dirò quasi nulla di questa editor di mezza età, un po’ svagata e un po’ evaporata senza saperlo, protagonista del romanzo: Agata. Non dirò che sta al suo mestiere esattamente come il suo mestiere sta alla qualità dei libri che vengono pubblicati in Italia. Non dirò nulla di questa cometa vedova e orfana; del suo tentativo di ricostruire attraverso la demolizione; delle sue idee capovolte come sfere con dentro la neve. Dirò invece della capacità di Elena Mearini di occuparsi di noi, noi lettori, sfiorandoci con una storia che sembra noblesse, un po’ borghesotta, persino retrò, e che invece rappresenta un coraggioso invito alla caducità, quindi un ritorno alla vita. Più Agata cerca di aggiustare le cose intorno a sé (il suo esile lavoro, la ricerca della madre attraverso la sua idealizzazione, la proscinesi nei confronti di un uomo e la carnalità quasi brutale nei confronti di un altro) più le cose si mettono a posto da sole, grazie a quella facoltà di non decidere che abbiamo emendato come una vergogna, un oltraggio alla vita digitale, umiliante e isterica che ci siamo fatti scandire in ogni attività da Google Calendar.

Le sirene della poesia: deliziosi lampi di magnesio

Elena Mearini accende le sirene della propria narrazione con autentici lampi di magnesio, con alert che di tanto in tanto troncano l’azione verso il controllo del narratore, piegano la storia verso l’estetica del fabulatore sottraendone la fungibilità al lettore. Gli editor (quelli di mestiere) inorridiscono di fronte a queste insolenze, ed ecco un’altra delle ragioni per cui i romanzi che leggiamo sono quasi tutti uguali, quasi tutti scritti dalla stessa persona. Trovarli invece di narratori come la Mearini, che sanno ancora usare le parole per ferire e non per consolare, trovarne di scrittori che sanno ancora frustare l’attenzione di chi i libri sembra subirli solo perché li ha comprati. 

“Amami, così smetto di farti spavento”: un’esortazione che vale metà prezzo del romanzo, che contiene tutto il romanzo, la necessità di sentirsi amati per induzione (come i piani cottura delle cucine moderne) e non per ebollizione (esito dell’azione dei fornelli a fiamma di una volta). Oggi si implora, ieri si esplorava. Ieri si bruciava, oggi c’è tepore. Questo dice l’autrice: che in questo contesto (contemporaneo, antropologico) non serve sbranarsi ma piuttosto capire le nuove categorie del sentimento. Senza parlare del contesto, delle contaminazioni che portano alle origini degli stessi autori. La Mearini apre ogni capitolo del romanzo con un’epigrafe, ognuna tratta dal libro dei Salmi di Davide: il secondo re d’Israele, figlio di Jesse e padre di Salomone. Si potrebbe dire si tratti di una specie di esigenza di sacralità, come se volesse certificare la ricerca che (l’autrice e la sua alter ego, Agata) stanno conducendo. Potrebbero sembrare stucchevoli, se non fosse che Elena Mearini è proprio così, cita queste letture alte perché legge così alto; perché legge una cosa che non si è lasciata andare alla “prostituzione letteraria” cui assistiamo: la poesia. Ed è per questo che se ne vende pochissima, anzi niente.

Davide Grittani

Davide Grittani (Foggia, 1970) è giornalista e scrittore. Ha pubblicato i reportage “C’era un Paese che invidiavano tutti” (Transeuropa 2011, prefazione Ettore Mo e testimonianza Dacia Maraini) e i romanzi “Rondò” (Transeuropa 1998, postfazione Giampaolo Rugarli), “E invece io” (Biblioteca del Vascello 2016, presentato al premio Strega 2017), “La rampicante” (LiberAria 2018, presentato al premio Strega 2019 e vincitore premio Città di Cattolica 2019, Nicola Zingarelli 2019, Nabokov 2019, Giovane Holden 2019, inserito nella lista dei migliori libri 2018 da “la Lettura” del Corriere della Sera). Editorialista del Corriere del Mezzogiorno, inserto del Corriere della Sera. Nel settembre 2021 uscirà il suo nuovo romanzo “La bambina dagli occhi d’oliva” (Arkadia Edizioni, collana SideKar).

*In copertina: Antonio Donghi, Donna al caffè, 1931

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