10 Giugno 2020

“Come potremmo diventare noi stessi senza un’eredità, senza un maestro?”. Tre domande a Roberto Contu, autore di “Insegnanti”

Insegnanti (Il più e il meglio). Titolo che è una citazione da Pinocchio di Collodi. Perché un libro sugli insegnanti?

Ci sono tanti argomenti che potrei elencare. Almeno il prologo e l’epilogo di questo libretto insistono sulle motivazioni che mi hanno fatto pensare, in questo tempo storico, alla necessità di un nuovo racconto di questa figura straordinaria che è l’insegnante: quella donna o quell’uomo ai quali la società affida gran parte del lavoro di costruzione del futuro di noi tutti. Ma visto che si tratta di una domanda fattami da un’insegnante come te, Daniela, non posso non sentirmi libero di aggiungere un referto personale, con la fiducia di essere capito. Io faccio l’insegnante e la prima implicazione è che ciò mi rende contento. Sono contento di andare a scuola, sono contento che la mia vita si stia consumando tra quei corridoi e quelle aule, sono contento all’idea di passare, ancora e spero, tanti anni a scuola. Contento significa contenuto. La scuola mi contiene e mi riempie da anni. Un maestro un giorno mi disse che per scrivere qualcosa occorre essere saturati da un’esperienza, un libro, un dolore, una gioia. Credo che questi anni mi abbiano contenuto e riempito tanto da generare un costante e immeritato eccesso di vita, che a un certo punto si è cristallizzato anche nella forma (imperfetta) di questo libretto.

Nel tuo libro si respira una grande passione per la tua professione, ma fuori “dall’aula insegnanti”. Inoltre, oltre la retorica, ammetti di commuoverti ancora di fronte a Don Milani che affida la costruzione del futuro ai “maestri”. Quale il significato della prima affermazione e com’è sentirsi un insegnante appagato per quello che fa e farà in tempi in cui ai maestri non è più attribuita la funzione che avevano un tempo?

L’aula insegnanti è un posto particolare: è l’unico posto nel quale, per una specie di legge non scritta, gli studenti non possono entrare. In linea di principio è sano che esista l’aula insegnanti: c’è una asimmetria fertile tra docenti e discenti che va organizzata, discussa, resa prassi in un tempo e in un luogo che non prevedano la presenza degli studenti. Qualche volta però capita che l’aula insegnanti divenga il luogo della fuga, il posto della lamentela e del malessere del docente, il posto del rifiuto più o meno conscio degli studenti. Metto simbolicamente in questo secondo tipo di aula insegnanti un modo di vivere la scuola che sento distante, che mi affatica, che non mi interessa. Si tratta di un’astrazione, di uno stratagemma retorico, certo. Uno degli intenti del libro però è proprio quello di testimoniare l’esperienza di entrare e uscire continuamente da quell’aula insegnanti, ricchi dello stupore e rigenerati dalla fatica in virtù di quanto si è vissuto in classe, tra gli studenti.  Riguardo il secondo spunto. È vero, viviamo tempi in cui ai maestri parrebbe apparentemente negata una funzione e per altro mi ritrovo nel tuo uso al plurale, maestri, non maestro: l’educazione è una faccenda collettiva, non da novelli Keating solitari. Eppure, come disse Bauman in un libretto prezioso (Elogio della letteratura): «Come potremmo diventare noi stessi senza un’eredità, senza un maestro, senza la sua voce, senza un messaggio profondo?» Credo si tratti di un’esigenza ineludibile, silenziosa, magari apparentemente contraddetta dal senso comune ma che si risignifica ai nostri occhi ogni volta che entriamo in classe, anche oggi, anche in questo tempo.

Il tuo libro è uscito pochi mesi prima dello scoppio della pandemia e della chiusura della scuola. Cosa aggiungeresti se potessi scrivere un capitolo sulla scuola in questi ultimi mesi di didattica a distanza?

Sarebbe facile fare una conta di ciò che ho accettato, di ciò che ho rifiutato. L’abbiamo fatto tutti ed è giusto che ciò accada. Ma forse, più che raccontare quello che è stato, proverei a ragionare su quello che sarà, quando gradualmente torneremo a stare l’uno difronte all’altro. Ci sarà il tempo della rielaborazione, dell’emergere delle ferite sottopelle, del presentarsi dei mille muri che potrebbero tenerci distanti anche quando saremo chiamati a riaccostarci. Per certi aspetti ci ritroveremo in un terra desolata, ma credo sarà importante portare alla luce quanto a un certo punto è stato chiaro a tutti: non siamo senza l’altro, non vogliamo rinunciare all’altro.

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La mia lettura. Nella produzione di romanzi e/o saggi sulla scuola, finalmente un libro che parla di scuola in modo “serio” e fuori dal teatrino dei luoghi comuni abusati: e se è vero che i libri non cambiano la vita, a volte – quando l’incontro capita nel momento giusto come è successo a me – ti impongono dubbi, ti fanno domande, e possono fornirti perfino delle risposte. Roberto Contu parla con umiltà e generosità della sua professione di insegnante e ci ricorda quanto grandi siano le conseguenze di un insegnamento attento e competente. Ci ricorda quanto siano importanti le conoscenze (le competenze e le misurazioni lasciamole alla Fondazione Agnelli e ai ministri di turno) e quanto sia possibile “staccarsi” dal conformismo che livella il sapere al minimo indispensabile. Ci ricorda, ad esempio, quanto sia difficile far amare Petrarca a ragazzi nativi digitali che frequentano una classe terza di un qualsiasi istituto tecnico e ci racconta quanto tempo trascorre a preparare “quella” lezione perché quei ragazzi possano cogliere la modernità di un autore, possano entrare nella complessità del pensiero, noi che oramai siamo abituati a pensare che tutto debba essere alla loro portata e il nostro compito ridotto a quello di “facilitatori”. Ho letto questo libro come un dono, io, insegnante, e ne consiglio la lettura non soltanto a chi vive nel mondo della scuola, ma a chiunque, perché si racconta una realtà della quale molto si parla ma poco si conosce davvero: la costruzione del futuro migliore possibile dipende dall’azione di insegnanti come Roberto Contu, che si interroga continuamente sul senso dell’insegnamento e fa credere nel valore della scuola, come è giusto che sia. Roberto alla fine ringrazia chi ha letto. Io ringrazio lui, per averlo letto. Ultimo, ma non meno importante: l’edizione Aguaplano/Glitch ha creato un oggetto meraviglioso

La Citazione. “Ma poi mi dico che forse, ben più delle parole, basterebbe camminare consapevolmente per un corridoio di una delle nostre scuole italiane in una mattina qualsiasi e magari ascoltare il brusio delle aule, lo scalpicciare di qualche docente che corre per una fotocopia, l’attuffarsi di uno straccio nel secchio di qualche collaboratore, forse, ben più che con le parole, semplicemente in questo modo potremmo far percepire con certezza al mondo intero ciò che la scuola è: un’immensa e organizzata industria umana adatta a produrre quotidianamente senso e futuro (…) Guardo i loro volti. Vedo il loro sguardo. Sento i muri e i vetri che tremano al loro passaggio. Qualche volta vedo volare una sedia, molto più spesso vedo librarsi sorrisi che mi dicono con parole di fuoco la vita. Ecco, per questo ne vale la pena, per questo varrà sempre la pena”.

Roberto Contu insegna lettere nella scuola secondaria superiore. Si occupa di letteratura italiana contemporanea e di didattica della letteratura ed è redattore del blog La letteratura e noi. Nel 2017 ha pubblicato Il vangelo secondo il ragazzo (Castelvecchi) e nel 2015, per i tipi di Aguaplano, Anni di piombo, penne di latta (1963-1980. Gli scrittori dentro gli anni complicati).

Daniela Grandinetti

*In copertina: Nikolaij Bogdanov-Belskij, “Lezione di aritmetica”, 1895

 

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