18 Giugno 2019

“Il ghiaccio ricorda quella nevicata, nel primo Olocene… perché il tempo è blu”. Un brano dall’ultimo libro di Robert Macfarlane (ancora inedito in Italia)

Il ghiaccio ricorda gli incendi boschivi e l’alzamento dei mari. Il ghiaccio ricorda la composizione chimica dell’aria lì dove inizia l’ultima era glaciale, 110000 anni fa. Tiene a mente la temperatura dentro le nuvole al momento di una nevicata nel primissimo Olocene. Tiene a mente l’esplosione del Tambora indonesiano nel 1815, si ricorda del Laki islandese nel 1783, e prima ancora di Monte sant’Elena nel Washington, 1482; risale all’eruzione del Kuwae nel Pacifico, 1453. Ricorda i Romani attivissimi nella fusione dei metalli e tiene traccia delle quantità letali di piombo nel petrolio impiegato dopo la Seconda guerra mondiale. Ricorda, racconta – ci racconta che viviamo su un pianeta volubile, esperto in rapide mosse e veloci rovescioni. – Il ghiaccio ha una memoria e questa è colorata di blu.

Il colore del ghiaccio nelle profondità è blu, un blu come non se ne trova al mondo. Blu del tempo.

Il blu del tempo lo si intravede nelle profondità dei crepacci.

Il blu del tempo lo si scorge sulle superfici dei ghiacciai che si staccano, dove le punte di un ghiaccio antico di 100000 anni affiorano verso l’alto, a formare fiordi molto in alto rispetto al livello dell’acque.

Il blu del tempo è così stupendo da sospingere corpo e mente insieme verso di lui.

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Impurità della neve – acido solforico, perossido di carbonio – indicano antiche eruzioni vulcaniche, livelli di inquinamento, consumo di biomassa o, ancora, l’estensione del ghiaccio nei mari, la sua prossimità. Il perossido di carbonio mostra quanta luce solare ha ricevuto la neve. Immaginare il ghiaccio come ‘medium’ ci porta poi nel soprannaturale: una presenza che ci consente la comunicazione con quel che è morto e sepolto, attraverso spazi profondi di tempo che ci consegnano messaggi distanti dal Pleistocene.

Il ghiaccio ha una memoria eccezionale – ma soffre altrettanto della sua perdita. […] Proprio come la mente dell’uomo in tarda età si svolge con difficoltà per tornare a ritroso verso il passato – attraverso accumuli successivi che la nascondono e la seppelliscono – allo stesso modo la memoria del ghiaccio è difficile da recuperare, più vulnerabile allo sfacimento. […]

Resistenza della nave contro lo schianto soffice dell’onda. Sale spruzzato nell’aria fredda, veloci sulla superficie. Spuntoni affilati sfilano da tutte le parti. Uno spaccato di fiordi. Qualcosa come un nuovo senso dentro di me comincia a costruire la scala dimensionale di questo paesaggio, al di là di tutto quel che avevo provato o immaginato: la vastità della linea di costa, e sempre, da qualche parte, dietro di questa e verso ovest la calotta ghiacciata, proprio lei, così enorme da ridurre a zero ogni altra forma che non sia la sua, così estesa che cancella tutti i colori eccetto il bianco e il blu. Ora sento un brusio dentro lo stomaco, arriva per l’esaltazione del grande viaggio che comincia. Non rivedremo Kulusuk per settimane.

Le montagne più in basso sono incrostate di neve. La roccia visibile è dorata, marrone, rossa, bianca: colori caldi di marmo. Dev’essere una delle superfici più antiche al mondo e so che produce una tessitura come quella dello gneiss nelle Ebridi profonde. Centinaia di migliaia di anni fa, queste coste e quelle a nord della Scozia erano unite. Una profonda uguaglianza nel tempo tra questa regione selvaggia, mai addomesticata, e quella delle isole scozzesi che mi fanno sentire a casa.

Sono sei miglia a formare il canale tra Kulusuk e Apusiajik, ma pare che potremmo percorrerle a nuoto. Il ghiacciaio stesso è lungo cinque miglia, ma davvero sembra che ce la faremmo a percorrerlo a piedi, mani in tasca, in un paio d’ore. E certamente moriremmo.

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L’illusione che accorcia gli spazi è potente, sorge per la chiarezza primigenia dell’aria ed è il primo degli innumerevoli occultamenti che dovrò affrontare in Groenlandia. Questo, sto imparando, è un paesaggio che gioca scherzi all’occhio, inganna la percezione, porta avanti forme chiare che nei fatti sono forme deludenti. La roccia e le pareti di ghiaccio riflettono e rimandano il suono, ingannevolmente: quel che succede davanti a noi è come se si stia verificando alle nostre spalle. Non ci sono quei singoli blocchi ai quali siamo abituati: niente edifici, macchine, persone in distanza. Tutto è fatto di pochi elementi – roccia ghiaccio acqua – che fanno echeggiare la pura forza delle loro forme. […] Il percorso del sentiero è quello di un ghiacciaio scomparso: morene verso il mare stanno a indicare le forme glaciali prima esistenti. Ci accampiamo sul ghiaccio fantasma.

Ripenso alle note che ho letto dove si sostiene che piccoli macchinari che  stringano tutta la costa groenlandese potrebbero lanciare allarmi al GPS dei navigatori, avvisandoli delle collisioni. Le coordinate dei ghiacciai antichi sono state inserite sulle mappe, ma il loro ritirarsi è stato così rapido che le coste scomparse hanno lasciato un fantasma digitale attraversato dalle navi. L’aria intorno alle nostre tende è fatta di granelli bianchi che non riesco a identificare, non sono neve e nemmeno polvere, così l’atmosfera pare elettrica. Scintille. […] Ovunque, foglie color smeraldo di qualche variante piccola di salice. Ne prendo una foglia, la metà dell’unghia del mignolo, la espongo al sole. Rimanda il colore verde e posso vedere la delicata intelaiatura di vene rosse che la percorre. Conoscevo questo salix per averlo visto in Cairngorms, l’equivalente britannico dell’Artico, dove cresce sparso sulle coste alte del plateau. Qui invece ricopre il suolo, è un rampicante lungo tutti i sentieri, i suoi rami dal nero intenso sono spessi pochi millimetri, a dir tanto.

Ora vedo che abbiamo piantato le tende sulla sommità della foresta. Siamo sopra una calotta o un baldacchino. Ecco perché quella battura che girava a Reykjavik. Il quesito era “come trovi la tua via dentro la foresta islandese?”. “Alzati in piedi” era la risposta.

Grandi blocchi di ghiaccio fanno il loro lento viaggio dentro la baia: sottomarini appena colpiti, transatlantici da crociera, sembrano anche quella pedina da Monopoli del cagnolino scozzese, bianca e pulita. E accennano la loro rotta nel corso della serata.

“Cani al sole” esclama Helen, indicandoli col suo sorriso. Tracce di arcobaleno scintillano e si curvano seguendo la palla infuocata del sole. […] Ci corichiamo nell’aria oscurata e guardiamo lo spettacolo, stupefatti, dentro il silenzio.

Robert Macfarlane

*Robert Macfarlane, scrittore e viaggiatore, è tradotto in Italia da Einaudi (“Luoghi selvaggi” e “Le antiche vie”). Le pagine qui proposte riguardano l’ultimo lavoro, “Underland: A Deep Time Journey” (Hamilton, 2019).

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