In questo tempo che tutti chiamano “sospeso”, dove non c’è tempo per la primavera né per le lacrime né per i defunti, spesso si fanno cose che di solito si rimandano, dicendo “un giorno o l’altro lo faccio”. Ecco, all’inizio di questa terribile pandemia quel giorno è arrivato, ma non credevo che sistemare la libreria di casa fosse una così lunga operazione. Dovevo essere in Africa per le mie solite missioni in un ospedale della Tanzania, e invece dal 9 marzo sono recluso in casa come altri 3 miliardi di persone nel mondo. Devo dire che sono “volati” i giorni e le settimane: da quasi due mesi sono alle prese con la libreria e non ho ancora finito. Infatti a ogni piè sospinto faccio una sosta, perché scorgo libri che avevo scordato anche di aver letto e con grande piacere mi soffermo su qualche volume in particolare, come “Il tempo degli assassini”, saggio su Arthur Rimbaud che ho riletto ora molto volentieri (del resto qualcuno ha detto che la Letteratura e i Classici vanno sempre riletti), scritto da Henry Miller per il centenario della nascita del poeta (1854) e pubblicato in Italia nel 1966 da Sugarco a cura di Giacomo Debenedetti, tra i maggiori interpreti della letteratura italiana del XX secolo. “Voici le temps des Assassins” (Ecco il tempo degli Assassini) è il rintocco che chiude Mattinata d’ebbrezza nelle Illuminazioni di Rimbaud, e da lì proviene il titolo, con una polivalenza di significati, della quale Rimbaud è solo in parte responsabile.
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A pagina 64 mi sono imbattuto in una cancellazione fatta da me a matita nel 1976, dieci anni dopo la pubblicazione, con delle notule da cui è scaturito il presente scritto, nel punto in cui si dice che Rimbaud fu una delle anime più disperate che abbiano mai percorso la terra. È vero che cedette per logoramento, ma non prima di aver battuto ogni via sbagliata… Ecco, avevo cancellato il termine sbagliata scrivendo a fianco “non è vero”. Non so che cosa intendessi allora con questa negazione così perentoria, certo è che la frase veniva lasciata monca ma non privata del senso più forte e cioè “non prima di aver battuto ogni via”. Tutto mi fa credere che Rimbaud avesse percorso ogni strada pur di arrivare al fondo delle cose e andando ben oltre il concetto di “via possibile”. L’accezione “sbagliata” significava per me forse attribuire a quelle vie il senso di non legittimamente percorribili e quindi non idonee all’esperienza del bene, ma c’era comunque qualcosa, come una musica lontana, distante una voce, quasi un tocco impercettibile che chiamava oltre la parola, oltre la realtà, almeno quella di pura percezione. E fin lì mi sono spinto attraverso i testi e l’esperienza della vita, imboccando a volte anche la parola “sbagliata” o l’esperienza illegittima. E ho capito che si può essere fuorilegge, ma non necessariamente diventare banditi, così come nel caso di Rimbaud il “veggente”, che divenne termine di paragone anche nell’esperienza successiva a quella letteraria, cioè a quella africana a me molto cara.
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Una lezione di vita e di poesia che sonda le diverse anime del sentire, sperimenta, scende negli abissi della letteratura e dell’esistenza: sia nel Le bateau ivre sia nelle Illuminazioni se ne ha ampia conferma. Una natura che in qualche modo mi era famigliare nel tempo della gioventù ma che rimane per sempre o forse lo è per tutti i giovani che identificano la loro ribellione, il loro disagio, la propria urgenza creativa nella parola poetica, scoprendo poi che nella vita “vera” si rimpiange molto quel tempo indimenticabile. Come per Miller, che non si è mai fatto mancare nulla in fatto di “stranezze”, Rimbaud è sempre stato anche per me una presenza adescante che si aggirava per casa coi suoi libri, ma io non l’avevo mai degnato d’uno sguardo, se non quello per la mirabolante scia luminosa delle numerose vite che aveva lasciato nelle menti di noi “poeti” in erba. Già pensavamo alla scrittura come a una colpa piuttosto che a un merito e anch’io ero convinto allora di essere indesiderato, di non servire per nulla alla società e al mondo. Avevo una fretta di esistere intrusiva e a volte insopportabile. Allora presi la laurea in Medicina, andai a bottega in varie parti del mondo e finii in Africa, tornando in Italia vivo e risanato. Esattamente dieci anni dopo aver letto quel libro che per primo mi aveva parlato di Rimbaud in Africa (si legga Carlo Zaghi, Guida editori 1993). Da lì il mio grande interesse per il suo daimon, che mi ha sempre seguito nei vagabondaggi ormai più che trentennali in Africa. E in Etiopia, a Shashamane, sepolto in una cella francescana a fare il medico missionario, ho letto un libro su Isabelle Eberhardt, e dai suoi testi ritrovati e salvati da un capitano francese dal fango della sua casa è emersa una storia davvero incredibile. Vi chiederete che cosa c’entra questo con il saggio Il tempo degli assassini di Henry Miller (potete trovarlo anche nelle raffinatissime edizioni SE). Aspettate e vedrete.
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Isabelle è stata un’esploratrice e scrittrice svizzera di origini russe, figlia di una nobildonna di San Pietroburgo vedova di un alto ufficiale dello zar, Pavel Karlovitch de Moerder, e di padre ignoto. Una vita davvero romanzesca quella di Isabelle Eberhardt, sul crinale tra XIX e XX secolo. Una vita breve, eppure gremita di audaci esperienze: la parabola di una giovane donna nata a Ginevra, madre certa, padre incerto, scrittrice e giornalista irrequieta, innamorata del Maghreb e della cultura islamica, che attraversa il Nord Africa travestita da cavaliere arabo (con lo pseudonimo di Mahmoud Saadi) per potersi addentrare in territori inaccessibili, interdetti a visitatrici europee. S’innamora dell’ufficiale arabo Slimène Ehnni e con lui si unisce a una confraternita sufi, vivendo in povertà. Nomade tra i nomadi, Isabelle fa del deserto la sua casa. Espulsa dal Paese, ripara a Marsiglia, sposa Slimène e come cittadina francese ritorna in Algeria. Si stabilisce ai margini del deserto e, pur essendo sposata, non smette di indossare abiti maschili e di condurre tormentati vagabondaggi tra i nomadi; beve alcool con i legionari, fuma hashish e va a letto con chi le piace. A venticinque anni soffre di malaria, forse anche di sifilide, ma resta una donna fiera, lucida e dall’intensa vita spirituale. Amica di sceicchi e di sapienti sufi, ma anche di ufficiali dell’esercito coloniale francese, sospettata di spionaggio da una parte e dall’altra, Isabelle abbraccia la fede musulmana e vive emozionanti avventure tra esplorazioni, immersioni nelle comunità locali, scontri con i ribelli, infuocate vicende amorose. Fino a una morte assurda, a soli ventisette anni, nel 1904, vittima di un’improvvisa inondazione in Algeria, ad Aïn-Sefra: annegata per l’esondazione di un piccolo el oued, incredibilmente in pieno deserto del Sahara. Sotto la melma del fiume il capitano francese, di cui dicevo sopra, salvò i suoi scritti.
Qualche fantasista della biografia, una svizzera francese molto vicina alle Ardenne, ha indicato la madre della Eberhardt come l’ultimo amore di Rimbaud, la madre, che, amica del poeta francese, pare l’abbia spedita in Africa a cercare un’altra vita e a fare esperienza. E magari a cercare il suo vero padre, Arthur… Ma in quel concetto di “esperienza” che mi è molto caro, le lettere di Rimbaud che vennero da lontano, cioè dall’Abissinia di allora e indirizzate alla propria madre e alla sorella, trovavano quel senso profondo dal fatto di frequentare ogni via. In alcune note biografiche che si somigliano sia in Rimbaud che in Miller, e a questo punto anche nella Eberhardt, rinvengo la stessa fame di avventura e insaziabile curiosità nei desideri senza limiti, con lo stesso coraggio, la stessa tenacia e una sorta di autoflagellazione che portò il poeta “maledetto” a non scrivere più nulla e a rifugiarsi nell’ascetismo e, paradossalmente, nell’esperienza della vita. In situazioni a volte tragiche e pericolose come quelle del contrabbando di schiavi e della vendita d’armi. Con Miller una differenza: mentre per il poeta francese la letteratura venne prima della vita e dell’esperienza, per Miller fu esattamente il contrario, cioè prima visse e fece esperienza della vita, poi si dedicò alla letteratura. Infatti pubblicò il suo primo libro all’età di quarantatré anni, mentre Rimbaud a venti aveva già scritto tutto, eccetto quanto contenuto nel famoso baule nero venduto chissà dove nella folle corsa attraverso le piste polverose d’Africa, per raggiungere l’ospedale di Parigi. Purtroppo non abbiamo nessun documento del linguaggio delirante a cui si abbandonava sul letto dell’ospedale.
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C’è un’altra possibilità per vivere la letteratura: scriverla mentre la si vive. Rimbaud questo non lo fa. Forse nelle carte irrimediabilmente perdute si poteva trovare qualcosa della sua esperienza africana, della quale non restano che testimonianze rare o sbiadite fotografie pagate oggi a peso d’oro. Ah, se Rimbaud lo sapesse! Oggi non avrebbe più la pena di quei 40.000 franchi che doveva accumulare per vivere felice, viaggiando per le sue tormentate vie della Terra. Ma questo è solo pia illusione, perché i franchi diventeranno 50.000 e così via. E allora che cos’è che a un tipo simile rende tanto difficile accettare il mondo così com’è? Certo, se avesse saputo che una copia autografa di Saison en Enfer sarebbe stata battuta all’asta per più di un milione di euro dei giorni nostri…ma così è.
Per quanto nel saggio Miller definisca il poeta il “suicida vivente” e per quanto sia stata studiata in lungo e in largo, la vita di Arthur Rimbaud rimane un mistero esattamente come il suo genio. Immolarsi in un’esistenza piena di insidie e tormenti al punto da rendere irriconoscibile, lui, opera splendida del creato, che fanciullezza sublime, miracolosa pubertà… spirito beffardo e motteggiatore impassibile, come ebbe a definirlo Paul Verlaine, sono gli eponimi di un genio di rara sapienza. Infatti la sua attività creatrice si può liquidare in pochi anni, cioè tra il 1869 e il 1873, quando un anonimo editore di Bruxelles dell’Alliance typographique (M. J. Poot et Compagnie) in Rue aux Choux pubblicò l’opera poi marchiata come di poeta maudit, maledetto, cioè Una stagione all’inferno, del cui lancio l’autore se ne infischiò bellamente, perché aveva altro da fare.
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Una scrittura poetica potente e ironica, dono alto e supremo alla storia della poesia universale, magnifica testimonianza dell’Intelligenza, prova fiera e francese… affermazione incontestabile di questo immortale regno dello Spirito, dell’Anima e del cuore umano: la Grazia e la Forza… sempre secondo le affermazioni di Paul Verlaine. La mia giornata è fatta. Lascio l’Europa. L’aria marina brucerà i miei polmoni, i climi perduti mi conceranno. Così scriveva quasi come un commiato sulla sua Saison en enfer, dove l’uomo Rimbaud smette i panni del poeta, per indossare quelli dell’uomo “libero”, dell’avventuriero in Africa, del mercante di schiavi e di fucili, dell’uomo che ha scelto di vivere non soggetto alle pastoie legittime della burocrazia francese, libero da tutto, ma non da se stesso. E uno si salva se abdica a questo, ma è illusoria libertà, perché la libertà è una prerogativa per l’io rinnegato, senza costrizioni. E questa non è libertà, perché uno che vive una vita così come lui l’ha vissuta non può esaurire tutte le aspettative richieste, scrive Henry Miller, scrittore inquieto e anche lui “maledetto” e geniale. È una speciale condizione che procura il diritto di sollevare obiezioni, di tirarsi in disparte se necessario, perché non tiene conto delle differenze degli altri ma solo delle proprie. Non lo aiuterà questo né la sua poesia gli farà trovare un legame stabile e una comunione con tutto il genere umano. Si rimane separati per sempre, isolati per sempre. La madre austera e severa, il padre fuggitivo e inesistente avranno un ruolo centrale nella sofferenza di tutta la vita di Arthur Rimbaud, non solo perché i genitori, e l’epoca del resto, pretendevano che egli soffrisse, ma egli soffrirà perché è tutto lo spirito dell’uomo a trovarsi in difficoltà, e soffrirà come può patire un seme destinato a cadere su un terreno sterile. Era nato seme e rimase seme per sempre.
Il corpo che cede nell’ultimo atto di vita, allorché non è che un moncone immobile, come lo chiama, non è cosa di cui sbarazzarsi con un ghigno scettico.
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Rimbaud era l’incarnazione del ribelle. Occorrevano tutte le varietà di degradazione e di umiliazione conosciute, serviva ogni tipo di strappo per spezzare la volontà caparbia ch’era la pervietà delle sue misteriose sorgenti. Egli fu perverso, è vero, intrattabile, ferreo e duro fino all’ultimissimo momento, quando non c’era più speranza, ma il maledetto si fa prima veggente e poi credente. E si racconta che il prete che somministrò a Rimbaud l’estrema unzione pare abbia detto a Isabella, la sorella: “Vostro fratello ha la fede, figliola mia, anzi io non ho mai visto una fede così grande”. Ed Henry Miller aggiunge che ci si trovava davanti a una fede delle anime più disperate che abbiano mai avuto sete di vita. E se mi permettete un’azione di rimando, vi dirò che ho visto molte analogie con la vita di Cristo e il suo Calvario. E nessuna diversità fra Isabelle Eberhardt e Rimbaud, soprattutto se confrontiamo le loro esperienze tra Harar e l’Ogaden, dove forse, ci piace pensarlo, i due si erano incontrati e magari abbracciati da qualche parte in quelle pietrose solitudini del deserto. E solo per misurare non tanto una parentela di sangue, ma un anelito straordinario, questo sì, nella ricerca della libertà più assoluta. Se riflettete un attimo, vi accorgerete che le due vite (ma anche quella di Miller) per forma e contenuto coincidono con la rivoluzione che fecero nel loro contesto sociale.
Rimbaud fu il nome e la sfera del sovvertimento non solo del linguaggio poetico ma di un nuovo pensiero di etica e costume svincolato dai cliché morali dell’epoca. Esattamente come nel caso dell’inquieta scrittrice russa, anche se con finalità ovviamente diverse ma non contrarie. Arthur Rimbaud era ricco di spirito e anche i suoi avversari, angeli del “male”, lo reclamano, quando si accorgono che la sua poesia è una quanto mai dotta rivelazione divina. Ma attenzione! Bisogna considerare l’affermazione non con il piglio ecclesiastico o teologico, bensì con quell’afflato che innalza il pensiero contro le pastoie fabbricate dall’uomo su misticismo e religione, che lo solleva sopra le leggi, i codici, le convenzioni, le superstizioni umane, elevando un canto supremo e degno dell’universo che è quello della Parola, la stessa che l’Onnipotente usò per trasformare in carne il verbo. Fu custode del sangue più segreto, asciugò le lacrime agli angeli del bene e del male, consegnando alla storia un tesoro che nessun poeta ebbe mai a donarci negli ultimi secoli, perché i segni e i simboli adoperati sono una delle prove più certe che il linguaggio è un mezzo per mettersi in rapporto con l’ineffabile e l’imperscrutabile. E non appena i simboli diventano comunicabili a tutti i livelli perdono la loro portata ed efficacia.
Ha ragione Miller quando sostiene che chiedere al poeta che parli il linguaggio dell’uomo della strada è come pretendere che un profeta chiarisca le sue predizioni.
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Pensate per esempio quanto “veggenti” furono le sue parole, quando Rimbaud si scaraventò contro l’amico Delahaye che sosteneva l’indubitabile superiorità dei conquistatori germanici: “Idioti! Dietro le stridule trombe e i melensi tamburi torneranno al loro paese a mangiar salsicce… Gli toccherà di trangugiare tutte le porcate della gloria. Vedo già la amministrazione di ferro e di pazzia che incasermerà la società tedesca…”. Pensate con quale precisione annunciò prima l’armamento dei tedeschi e poi l’avvento del nazismo e la sua sconfitta. Tenebre e luce sono il suo credo, al punto da essere conteso, con pari diritto, da ambo le parti. Questa è la sua gloria, ripeto…Quello che si mise sotto i piedi fu il mondo della morte vivente, il falso mondo della cultura e della civiltà. Spogliò lo spirito di tutti i vani ornamenti che sostengono l’uomo moderno. Il faut être absolument moderne! La battaglia spirituale è violenta quanto la battaglia degli uomini, ma la visione della giustizia è il piacere esclusivo di Dio. Dice Miller aggiungendo, è implicito che la nostra è una falsa modernità, la nostra è una battaglia non aspra o eroica come quella che combatterono i santi perché loro erano gagliardi e gli eremiti artisti, oramai fuori moda, purtroppo. Solo un uomo che sapeva valutare la disciplina, quella che si sforza di elevare la vita all’altezza dell’arte, poteva esaltare in tal modo i santi.
E non c’è modernità più di questa vera profezia, se la riferiamo a oggi, dove il tutto celebra la propria omologazione senza più mistero e dove le cassandre si sono rese verità esiziali contro le quali il potere, in mano ai soliti idioti, si fa luogo e misura della distruzione di clima e ambiente. E dove la poesia è ancora relegata al suo “rigor mortis”, ma non ha ancora esalato il suo ultimo respiro. Solo un virus, il COVID19, che senza eserciti e più piccolo migliaia di volte di un millimetro ha paralizzato il mondo antropocentrico, ci ha fatto profondamente riflettere su quali sono le “vie” e quali le “vie sbagliate”. E Rimbaud, quasi a confermare il suo genio, si rivela veggente assoluto, l’Absolument è il nostro respiro. I poeti, come fratelli, uniscano il loro, per intonare un grido alto nell’universo e nella storia, la nostra, prima che diventi la bara di tutte le creature. Absolument moderne, assolutamente moderno, importante che sia con la poesia, quella vera. Ecco quello che lui, come me, ha trovato in Africa, e da quelle parti, su quelle strade polverose, alita il suo spirito.
Dino Azzalin
(febbraio 1976-aprile 2020)
*In copertina: Arthur Rimbaud ad Harar, nel 1883