17 Febbraio 2018

Come fa chi riduce ad uno le stelle e la saliva, bisogna ammirare questa spaventosa innocenza: sulle opere di Tiziana Cera Rosco

Ogni parola è ambigua. No, no. Non c’entra l’interpretazione, quello è un prestigio del cervello. La parola, in sé, è Amazzonia. Io, per me, sento il nitido nitrito dei giaguari tra le lettere e mi accodo alla loro pazienza. Io, per me, vedo fiorire le vocali con bocche esotiche. E lo scintillio di un colibrì tra una consonante – continentale – e l’altra. Perciò. La parola cura va usata con cautela. Curarsi della cura. Ora. Martin Heidegger con la Cura nello zaino lo lascio ai filosofi, mi limito all’incompetenza. Cura non è una parola conveniente: ci si cura dei propri figli, con amore materno, ma ci si prende cura dei propri affari, con laida e paterna avidità. La cura è quella: l’esito è diverso, dispari, spaiato. “Gli antichi etimologisti”, dice un antico dizionario etimologico, “ricongiunsero” il latino cura “a cor, cuore, e fantasiando insegnarono così detta quia cor urat, perché scalda, ossia, stimola il cuore e lo consuma”. Le false etimologie, spesso, toccano il nervo del vero. La cura consuma. La cura pertiene – leggo dallo stesso reperto – a “Tutto ciò che sollecita e richiede vigilanza”. Quel Tutto è scritto così, con la T maiuscola, come di uno che vigilia un crocefisso, che sia sollecito al suo fiato. Ogni forma di cura, per sua natura, è inquieta, cavalca il cuore, lo consuma. Bene – mi sacrifico per un altro – e male – una assiduità nel possedere – sono equivalenti: nella cura si muore. Perciò. Quando leggo su un cartiglio che “la personale di Tiziana Cera Rosco” è “a cura di Davide Brullo” sono rapito dal tremore. Da tanti anni, ininterrottamente, forse, sono sulla scrivania di Tiziana, come un falco di legno, tra la fotografia di Rilke e il quaderno di Kafka. Per tanti anni ho abitato in un continente costellato dalle sue parole – che sono simili a betulle, slanciate, bianche, diritte come un sì. Ma questo non importa. Si ha cura aderendo. E in adesione le pietre fatturano la fiamma. La personale di TCR si ha presso la Galleria Biffi Arte di Piacenza (via Chiapponi, 39), dal 24 febbraio (inaugurazione alle ore 17). Il titolo della mostra, La creatura ininterrotta è già un giaciglio. Chi è la ‘creatura’? L’uomo? Dio (increato, creato)? Perché ininterrotta, in un periplo di opere, invece, così piene di rotture, torsioni, spacchi, sconfitte? Come fa chi sa ancora dormire all’aria, tenendo la notte tra le mani e le grida del bosco come avvisaglie oniriche, e riduce stelle e saliva in uno, sono stato in questi lavori di TCR, cercando di essere nuovo, uomo senza più memoria. Il testo che si ricalca è inteso come un invito alla mostra. (d.b.)

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Una spaventosa innocenza

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‘Ogni abbandono dice Dio’, Tiziana Cera Rosco, scultura, febbraio 2018

Poiché Dio è il carnefice che uccide se stesso in forma di Figlio, viene da pensare che questa scansione di torsi scombinati sia macelleria angelica. L’Holocene di Tiziana Cera Rosco annuncia una contraddizione. Questi, di giustiziata bellezza, sono i residui di un tempo astorico; memoria di quando Dio era sterminio; epica muta di un massacro. Eppure. Holocene – inserendoci a serpe nell’etimologia – è il ‘tutto nuovo’, l’era diversa, la partenza, incubatrice della nuova creatura, l’uomo. Eppure. TCR non è artista che ha ambizioni arcaiche, che s’affacci, satura, ai primordi giocando il neo-primitivismo. Cos’è allora questa novità? Forse i frammenti collocati dall’artista sono i denti, le urla, le intenzioni di Dio. Affrontiamo, forse, una sconnessa – ecco la scommessa – ricostruzione del dio. O del salmo, pietrificato, che ci aiuti nell’evocazione. Per questo, allora, la complessità dell’opera è sigillata come La Creatura Ininterrotta, perché l’uomo esiste, ininterrottamente, finché ha lingua e bulbo carnale per pregare, finché ha osso liturgico in gola (così il maestro del VII secolo, Isacco di Ninive: “Quando uno è stato reso aderente a Dio, senza sosta, nell’effusione continua che avviene nella preghiera, su costui non v’è legge, né canoni o tempi o ore distinte e regolari hanno potere su di lui, ma da allora è al di sopra di tutto ed è presso Dio, senza limite”), ed è esito del pasto ed esergo, pietra di paragone, miliare. L’evoluzione del lavoro di TCR – proteso verso un avvenire senza avvenimento, nella pazienza dell’avvenuto – comincia con la barbarica preghiera Patientia, realizzata nel bosco di Barrea, luogo atavico e natio dell’artista, fino al fenomeno scultoreo, nato dopo un viaggio in Islanda, nella folgorazione del ghiacciaio (“un ghiacciaio che azzeri un linguaggio, come si azzera un grande amore”, ha detto l’artista). Non è indisciplinata l’assonanza – in un’opera che è assunzione di ferocia, che non concede assoluzioni – tra Abruzzo e Islanda: Tiziana Cera Rosco, che usa il corpo come scalpello e non come gratuita esibizione di un ego epigrammatico – guardate alla bronzea Giuditta che sembra una sirena in formaldeide – ha bisogno di spazi crudi, che riducano la parola, l’azione, a spaventosa innocenza. Per questo tra il decano dei ghiacciai e l’amazzonia abruzzese è eguaglianza, privilegio della povertà. La ricerca di TCR, verso un assoluto in grado di cauterizzare ogni finzione formale, ogni iride, passa per una prepotente vertigine sul tema del perdono (il ciclo Anthurium): 490 creature plastiche – un Golem a contrario, fetale – che afferiscono alla frase evangelica (Mt 18 21-22: “‘Quante volto dovrò perdonargli? Fino a sette volte?’. E Gesù rispose: ‘Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette’”). Compiuto, il lavoro di TCR non ammette solubilità intellettuale né pillola sublime, pretende adesione e sottomissione. Questa aurora di torsi, di torsioni, esame esanime del palato di Dio, in cui l’artista, letteralmente, muore, affiora, semmai, dalle falangi del Vangelo di Tommaso (“Ho gettato fuoco sul mondo ed ecco, lo custodisco fino a che esso bruci”; “Forse gli uomini pensano che io sia venuto a gettare pace nel mondo; ed essi non sanno che è la divisione che sono venuto a gettare sulla terra: fuoco, spada e guerra”; che è poi analogo a Lc 12 49; 51: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei fosse già acceso!… Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione”). Ancora, fisiologicamente uniti, il fuoco – lo sguardo del dio, il mastio d’Abruzzo – e il ghiaccio – la purezza che agghiaccia, sutura memorie, arde – il ghiacciaio islandese che erompe come Gerusalemme Celeste, che ininterrottamente si squaglia e rinsalda, obolo al mutamento. Il ghiaccio come fuoco raggelato, sguardo fisso al rapace. Legata a una artigianalità centellinata, canonica, quotidiana, in imperio monastico – al di là dei mille significati riposti, proposti, ripiegati, TCR non è una artista ‘concettuale’, non impila un fatto ‘culturale’, piuttosto, va amata sregolando i sensi – l’artista, che nasce nella parola – le letture ataviche di Rilke, Kafka, Nietzsche, Pico della Mirandola, una bibliografia che raduna, tra gli altri, i testi poetici Calco dei tuoi arti, Il sangue trattenere, Lluvia, Dio il Macedone, Anatomia del Solo – fa del suo corpo una consonante, vocalizza le mani. Le sue opere pongono una lingua antartica, vengono da chi ha visto il morire e sa che perdono e vendetta sono un parto gemellare.

Davide Brullo

 

 

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