12 Maggio 2019

Ricostruire Notre-Dame: di vetro, ipertecnologica; di plastica riciclata e legno, ecologica; oppure “com’era dov’era”? Tutto dipende dalla forza del simbolo. Che cosa rappresenta per noi quella cattedrale?

Con questo articolo vorrei inserirmi nel dibattito sulla ricostruzione della copertura e della guglia di Notre-Dame distrutte dopo l’incendio dello scorso aprile. Ricostruire ciò che è stato distrutto com’era dov’era o proporre qualcosa di nuovo di diverso?

Notre-Dame fino a prima dell’incendio del mese scorso era una chiesa gotica, costruita a partire dal 1160, modificata nei secoli più volte. In particolare alla fine del Settecento, durante la Rivoluzione francese fu spogliata di tutti i suoi simboli, che poi furono ripristinati con il restauro ottocentesco, culminato con la ricostruzione della flèche sulla crociera (la guglia più alta) nel 1860 in stile neo-gotico. Notre-Dame è in stile gotico abbiamo detto, ma è costruita ove sorgeva prima un tempio pagano, poi una basilica. Questa stratificazione storica è presente in tanti edifici di culto, come (per citare un esempio eclatante, bellissimo) il Duomo di Siracusa ove l’edificio barocco ingloba un tempio dorico, o come il tempio malatestiano di Rimini, con la sua veste Rinascimentale che si sovrappone alla chiesa gotica di San Francesco.

Immediatamente capiamo che non è semplice pensare ad una ricostruzione dell’originale, quando è tutta la storia dell’edificio a costituire un unicum originale sedimentatosi nel tempo. La prima domanda che dobbiamo porci prima di fare ipotesi di ricostruzione quindi è: cosa rappresenta oggi Notre Dame per la Francia e per il mondo intero?

Ricostruirla con una libera interpretazione dello stile gotico come fece Viollet-le-Duc, ha ancora un senso? Senza la pretesa di voler rispondere a questa domanda proviamo ad analizzare questo stile cercando più chiavi di lettura al racconto della cattedrale scritto attraverso il linguaggio dell’architettura che è tecnica e simbolo insieme.

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La scienza delle costruzioni, ci dice che il gotico è l’esaltazione della forza peso, della gravità. L’arco a sesto acuto, le guglie, gli archi rampanti, i pinnacoli fanno parte di una struttura che tende ad incanalare le forze verso il basso secondo percorsi ben definiti che permettono di esaltare la resistenza a compressione del materiale principe col quale sono costruite le cattedrali: la pietra. La pietra, estratta dalla madre terra, alla quale si ricongiunge seguendo la legge immutabile della forza di gravità. Ma l’arco a sesto acuto, la tensione alla verticalità, alla leggerezza che caratterizza questo stile, simboleggiano anche il desiderio di ascensione verso l’alto, verso Dio, di togliere peso al materiale lapideo, alle lapidi. Come nel mondo immaginato da Dante, tutto basato sulla liberazione dal peso del corpo (del peccato) per potere ascendere dalle viscere della terra, fino al cielo, a Dio.

Il medioevo fu un periodo nel quale l’uomo cercava un sapere unico, esperienziale – oggi potremmo azzardare, un approccio olistico, sistemico – “incrinato” dal rinascimento e cancellato definitivamente per secoli da Cartesio e dall’epoca dei lumi. Così almeno la pensano John Ruskin e Fritjof Capra, che in momenti diversi della storia si ribellano alla macchina del mondo newtoniana, alla rivoluzione industriale, alla crescita “uber alles” usata ancora oggi per misurare la felicità di un popolo, alla ricerca della perfezione, di una verità assoluta.

La luce nelle cattedrali gotiche filtra attraverso le vetrate policrome (la struttura reticolare sopra descritta permette di alleggerire i potenti muri romanici favorendo l’inserimento di grandi aperture) trasfigura tutto ciò su cui si posa, divenendo ispirazione e azione di quella metafora che rende viva la materia inanimata.
Ruskin, nel famoso capitolo “La natura del Gotico” all’interno del saggio “Le pietre di Venezia”, esalta l’imperfezione del lavoro svolto giorno per giorno dalla comunità che si ritrova nella “fabbrica” della cattedrale. Ruskin crede nel lavoro artigianale, imperfetto ma dotato di una forte impronta morale, religiosa. Crede quindi che l’architettura sia testimonianza della storia e che l’edificio al pari degli uomini debba vivere il proprio tempo, con la consapevolezza che ciò che resiste al tempo non sono i materiali, le forme, gli stili ma ciò che questi rappresentano.

Se costruissimo esattamente ciò che c’era, ricostruiremmo il falso di Eugène Viollet-le-Duc, rifalsificandolo! Avrebbe un senso oggi?

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All’epoca non fu un incendio ma la Rivoluzione francese, che al grido “liberté, égalité, fraternité” distrusse i simboli, le sculture in particolare. Come hanno fatto di recente i talebani con le statue di Buddha, e nei secoli tanti altri, potremmo un poco provocatoriamente affermare. All’epoca la ricostruzione fu fortemente voluta da un manipolo di intellettuali capitanati da Victor Hugo con il suo romanzo Notre-Dame de Paris, usato come vessillo. La cattedrale torna luogo sacro ed assiste allo svolgersi della tragedia. Lo scrittore ha capito che l’edificio altro non è che un libro di pietra che fa paura a certi poteri che hanno attraversato le storia, bruciando libri, esiliando o uccidendo scrittori e poeti.

Oggi le nuove cattedrali sono i musei, i nuovi campanili, le nuove guglie, sono i grattaceli, si dice da tempo. Lo vediamo chiaramente ove è stata creata da zero una metropoli nel deserto. Guardiamo Dubai, c’è il grattacelo più alto del mondo, una guglia che si perde nelle nuvole a oltre ottocento metri di altezza. C’è il nuovo Louvre, la succursale; ecco dove sono i simboli e dove si sposta la cultura dell’Occidente. Del resto non è accaduto lo stesso anni orsono con le Americhe, con gli Stati Uniti, con New York e quelle sue torri gemelle che parevano i campanili di Notre-Dame? Distrutte perché anch’esse simbolo di qualcosa. Tutto cambia nulla cambia.

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Questa volta è stato un incendio a distruggere, non un attentato o una rivoluzione. Però le immagini di un simbolo in fiamme ci hanno fatto subito pensare al crollo della nostra civiltà, della nostra religione, per nostra stessa mano, generando un senso di colpa, inducendo tanti a fare donazioni generose immediate e firmate (opportunistiche?), per ripristinare immediatamente il simbolo di? La mancanza di una risposta è l’epigrafe sulla tomba della nostra civiltà.

È su questi argomenti, sui valori Cristiani che Notre-Dame come simbolo amplifica nel mondo, che dovremmo innescare un dibattito, cercare delle idee, delle provocazioni, prima che sullo stile, sulle forme, sui materiali. Ritornando a Capra: nel mondo dei consumi e dei desideri materiali indotti nel quale viviamo, abbiamo ancora qualcosa da imparare dalla lezione del gotico che vuole liberare lo spirito dal peso del corpo, accettando la nostra finitezza come esseri umani di fronte al mistero, oppure nonostante ciò che sta accadendo al nostro pianeta ci riteniamo ancora altro rispetto al resto del mondo, più forti del destino, della natura, di Dio?

A questo punto la nostra cattedrale possiamo farla come ci pare: con il tetto di vetro per portare – la luce della ragione – in un luogo reso mistico dai chiaroscuri generati delle vetrate colorate; di carbonio, supertecnologica; di luci, eterea; di legno o di plastica riciclata, ecologica; ricoperta di vegetazione, green; com’era dov’era, nostalgica; se non vogliamo costruire una cattedrale che “passa di moda” nell’arco di una stagione, la cosa che conta è avere chiaro ciò che rappresenta, la forza del simbolo, che la tecnica precisa, ma non sostituisce.

Fabio Mariani

Fabio Mariani, architetto, collabora da tempo con la Ambasz&Associates di New York e Bologna. Con l’architettura, coltiva la corsa e la poesia. Crede che l’architettura sia un’arte capace di favorire la felicità dell’uomo. Con Meltemi, nel 2017, ha pubblicato “La casa come ritratto”.

**In copertina: uno dei progetti di ricostruzione di Notre-Dame, in vetro

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