07 Giugno 2018

“Ricordo Regeni, a Nord di Ortigia, finalmente libero dal dolore”: dialogo con Franco Buffoni

Una poesia è esemplare. S’intitola In morte di Alessandro. “Citando Hermann Broch./ Parlavamo della fine di Regeni”. Il finale ha una nitidezza di cristallo. “Io non credo in nessun dio, Alessandro,/ Per questo adesso ti so/ In quell’isola a Nord di Ortigia/ Chiamata Syria per il sole al tramonto,/ Terra beata dove in tarda età soltanto/ Si muore/ Per la freccia gentile di Apollo in un istante/ E senza provare dolore”. Il procedimento è semplice e affascinante. Il dato storico attuale, corroso dall’attualità – la morte di Regeni – si salda nel mito, nell’assoluto. La poesia passa da Broch alle “Virtù e Principati” a Marco Aurelio all’Odissea, come se i secoli fossero una pozzanghera, con quella sintesi sul dolore, che è uno spillo d’oro. Franco Buffoni ha compiuto 70 anni, ha scritto – tra i libri poetici più celebrati: Suora carmelitana e altri racconti in versi, Il profilo del rosa, Guerra, Jucci – ha tradotto – tra i moltissimi, i ‘romantici’ inglesi, da Keats a Coleridge e Byron, poi Kipling, Yeats, Heaney, Wilde – ed è tra i grandi teorici della traduzione, un nome inevitabile. La linea del cielo (Garzanti 2018, pp.196, euro 18,00), perciò, mi pare, con i suoi versi epigrafici – “Ormai che il tempo tracce pesanti ha lasciato/ Sui volti anche dei figli/ Degli ex allievi” – e l’atto di anatomizzare la memoria, e la dichiarazione d’identità lirica (“La mia genealogia ‘tematica’ è più appenninica che lombarda, o meglio, è giuliano-friulana con Saba e il primo Pasolini, poi bolognese, quindi passa per la Perugia di Penna per giungere alla Roma di Bertolucci e Bellezza”), comunque, un libro ‘definitivo’, delle definizioni ultime. Sostanzialmente, il detto è ironico, icastico, in beatitudine novecentista, con Kavafis su un ginocchio e Orazio tra i capelli. Il respiro bocca-a-bocca con il poi, con l’oltre vita, ci porta versi di caustica intensità: “Per quando col mio corpo del ventesimo secolo/ Sarò un relitto tra gli adolescenti/ Delle classi del dodici e del tredici,/ Come Caproni e Sereni, classi belliche./ Una vecchia iena di passaggio anche lì come dovunque”. Qui, in balia del niente, in ballo con il tutto, sta il carisma di Buffoni, che con spietata pietà guarda al mondo e all’uomo, senza assolvere.

libro BuffoniDa un lato “La linea del cielo” (e poi: perché questo titolo? Narra il tuo vagare “Tra due città”?) mi pare regesto dei giorni, registro narrativo, dall’altra libro epigrafico, definitivo. Carne e marmo, se vuoi. Penso alla chiusa, notevole, “Doppio fregio”, ad esempio, dove suona Kavafis, forse. Insomma: da dove nasce e come cresce questo libro?

Il titolo col quale l’anno scorso proposi il libro a Garzanti era Codice Verlaine. Perché l’annuncio in codice dello sbarco in Normandia, trasmesso da radio Londra alla resistenza francese, corrispondeva all’attacco della Chanson d’automne di Paul Verlaine: “Les sanglots longs des violons de l’automne”. L’espressione “I lunghi singhiozzi dei violini d’autunno” mi è sempre parsa quanto di più decadente e insinuante una mente snob potesse concepire per annunciare l’inizio della carneficina liberatoria, cui dovevano corrispondere da parte dei maquisard azioni di sabotaggio contro stazioni e depositi di munizioni, incroci stradali e ponti. Il messaggio trasmesso il 1 giugno con quel verso significava che l’invasione era imminente e sarebbe stata confermata dal completamento della lassa entro quarantotto ore. Ma il 3 giugno radio Londra – invece di scandire il seguito: “blessent mon coeur d’une langueur monotone” (mi feriscono il cuore d’un monotono languore) – ritrasmise l’inizio. Le avverse condizioni atmosferiche avevano costretto i comandi a rimandare l’attacco. Soltanto alle 22.15 del 5 giugno la lassa fu completata. Il fatto che migliaia di uomini pronti al sacrificio supremo siano rimasti per tre giorni in spasmodica attesa di un verso tanto languido mi sembra degno del Dormeur du val rimbaudiano. Ma la proposta venne bocciata perché, dopo Codice da Vinci, i titoli con la parola codice si sono moltiplicati. Allora pensai al dualismo Milano/Roma molto presente nel libro: dalle guglie alle cupole come nel logo dei treni, quindi: skyline. Ma Il profilo del cielo non andava bene a me, avendo già pubblicato Il profilo del Rosa nel 2000 nello ‘Specchio’ Mondadori. Così sono pervenuto alla traduzione letterale: La linea del cielo. Libro definitivo? Forse sì. Carne e marmo? Certamente sì. Il doppio fregio viene da frate Agostino da San Gimignano nell’ultimo giorno di febbraio dell’anno 1299. Kavafis è sempre presente.

Continuo. Libro coltissimo. Vai da Keats a Regeni, dal sublime letterario all’assoluto della cronaca. Come se i tempi fossero acqua, i morti innestati sui comignoli dell’oggi. Come si fa? Che poesia ti piace leggere, ti piace scrivere?

Per me è così da sempre: vivo la mitologia nella vita e la vita nella mitologia: paradigmatico al riguardo credo sia il testo incipitario di La linea del cielo, col matrimonio combinato dagli dei tra l’Ercole e la Ebe. Per questo poi ricordo Regeni nell’isola a Nord di Ortigia finalmente libero dal dolore, come nell’Odissea. Keats è stato il primo grande romantico che ho tradotto: è sempre con me, nel presente perenne della poesia.

La poesia però è capricciosa: il momento di fluidità magari arriva alle sei del mattino. Ti svegli, ma non vuoi svegliarti perché hai ancora sonno… Ho imparato a scrivere al buio con dei taccuini particolari… Se ti mostrassi la prima stesura di tante poesie degli ultimi libri, vedresti chiaramente che sono state scritte al buio…

In un paio di porzioni liriche enumeri maestri, forse amici: Montale, Sereni, Betocchi, Zanzotto, Pasolini… Come mai questo tuo corpo lirico a cavallo dei millenni – gambe nel Novecento ma occhi nei Duemila – sente il bisogno di ‘fare i conti’ con questi, tra aneddotica (penso a “Montale sul Titano”) e una certa devota ferocia? In fondo (mi dilungo) chi fu per te maestro, l’incontro poetico decisivo, perché?

Non sono uomo da un solo maestro, ne ho avuti diversi nelle varie branche in cui ho operato. I primi furono Carlo Bo e Claudio Gorlier in Bocconi. Quindi Emilio Mattioli e Allen Mandelbaum. Mattioli a sua volta era il primo allievo di Anceschi e contribuì a rinvigorire la mia discendenza anceschiana in campo estetico. “Rinvigorire” perché Anceschi lo avevo frequentato a Milano negli anni Settanta con Antonio Porta, quando il «Verri» riprese le pubblicazioni. Ma fu solo attraverso Mattioli che potei recuperare in toto il pensiero anceschiano. Altri due accademici importanti furono per me Ferruccio Masini – poeta e germanista, mio primo direttore d’istituto all’università di Parma – e Giorgio Cusatelli, che gli successe come direttore e lavorava anche per Garzanti. Grazie lui potei scrivere delle voci – alcune persino firmate – per l’Enciclopedia Europea. Poi Agostino Lombardo, il traduttore di (quasi) tutto Shakespeare, che mi fu molto vicino quando vinsi l’ordinariato a Cassino e vi impiantai ex novo un Dipartimento di Linguistica e Letterature Comparate. In ambito poetico certamente Vittorio Sereni. Come scrivo nelle poesie a lui dedicate – “Di quando la giornata è un po’ stanca”, “Vittorio Sereni” e “Vittorio Sereni ballava benissimo” – riconoscevo mio padre in Sereni, e Sereni in mio padre. Entrambi ufficiali dell’esercito italiano, coetanei (Sereni nato nel ’13, mio padre nel ’14, Sereni morto nell’83, mio padre nell’80), entrambi prigionieri dal ’43 al ’45. E molto simili nel modo di fare e nel modo di porsi, autorevoli e anche un po’ autoritari: sguardo dritto e tono di voce basso.

Contatti diretti per molti decenni li ebbi con Luciano Erba e Nelo Risi. Soprattutto Risi: vicini di casa a Roma, lo andavo a trovare a via Capo le Case, poi negli ultimi anni a via del Babuino, dalla ex moglie Edith Bruck. L’asciuttezza morale e l’estremo rigore ateo del medico Nelo Risi mi hanno insegnato molto, più di quanto non mi abbia insegnato il cattolicesimo pessimistico di impianto francese di Luciano Erba, al quale tuttavia mi legava una profonda simpatia umana. Ricordo che quando diedi a Erba il testo della Suora carmelitana, glielo diedi espurgato dei due versi relativi al fistfucking, perché ero convinto che lo avrebbero ferito. Ne ebbi conferma pochi mesi dopo, quando a Mario Luzi diedi il testo integrale, ed egli mi rispose (tornando a darmi del lei) che quel poemetto, per via di quei due versi, era écoeurant, disgustoso, aggiungendo: “Credo che questo fosse proprio l’obiettivo che lei si era prefisso. Quindi: bravo”. La lettera autografa di Luzi sta con tutto il mio epistolario al Centro manoscritti dell’università di Pavia. Quando poi feci leggere il testo integrale a Giovanni Giudici (col quale ci fu un intensissimo rapporto nell’ultimo decennio della sua vita cosciente), e gli chiesi consiglio sull’opportunità di espungere quei due versi, mi rispose: “Invece li devi lasciare. Se tu li togliessi verrebbe a mancare una colonna portante del senso complessivo del lavoro”. Last but not least Giovanni Raboni, che fu il mio vero mentore: mi inventò come poeta e mi inventò come traduttore: io esco da una sua costola. Mi pubblica, quando sono assolutamente inedito, nel ’78: sulla rivista «Paragone» e poi nel V Quaderno collettivo di Guanda. Malgrado quell’esordio, resto un appartato. Ed è proprio ciò che Raboni fa notare nella prefazione a I tre desideri nell’84. Ma nell’81 Raboni mi aveva posto la domanda essenziale: “Perché non traduci tutti i poeti romantici inglesi?” I due esordi – come poeta e come traduttore di poesia – sono cronologicamente vicini e, quel che più conta, furono mossi dalla stessa volontà e per la stessa collana: la Fenice di Guanda. L’ultima sua lettera è del 12 marzo 2004. Raboni aveva allora settantadue anni e parla di Guerra – che poi sarebbe uscita nello Specchio alla fine del 2005 – come di un libro già pronto (anche questa lettera è custodita a Pavia). Allora dirigeva la collana di Marsilio, e tra le altre cose mi chiede: dove intendi pubblicare questo libro così compatto e forte? Non ebbi la possibilità di rispondere perché mi giunse la notizia dell’ictus che nel volgere di pochi mesi lo portò alla morte. Ma non posso dimenticare Fortini. C’è stata molta vicinanza nella seconda metà degli anni Ottanta e nei primi Novanta. Ricordo che lo andavo a trovare a piedi, nella sua casa vicino all’Arena, perché per quattro anni ebbi anche un contratto a Milano Iulm, ancora nella vecchia sede all’Arco della Pace. Qualche volta faceva lui la passeggiata, ascoltava la mia lezione di letteratura inglese, poi la commentava al bar ritrovando a tratti anche la sua antica energia polemica. Infine lo riaccompagnavo a casa. Fu un rapporto stupendo, molto generoso da parte sua, che credo di dovere un po’ all’ingiustizia da lui in precedenza messa in atto nei confronti di Pasolini. Mi son fatto questa convinzione. Che l’affetto e l’amicizia per me così immediata e così gratuita – Fortini accettò subito di far parte del comitato scientifico della mia rivista «Testo a Fronte» – fosse una sorta di compensazione. Essendo egli stato ingiusto ai tempi con un omosessuale in quanto omosessuale, ed essendo questi scomparso tanto precocemente, non potendo quindi più egli “rimediare” (Fortini era fatto così), fu con me generosissimo, quasi a compensare le parole cattive su Pasolini di tre decenni prima. Anche le sue lettere sono custodite a Pavia.

Svario: da uno che continua imperterrito a scovare talenti e a praticare i ‘grandi’, oggi, in che stato vive la poesia italiana?

La leggo sempre, senza soluzione di continuità, la poesia dei giovani. Mi continua ad arrivare e io stesso quando qualche nome mi stimola o mi incuriosisce, la vado a cercare. Si tratta di un nutrimento che assumo costantemente. I miei maestri ormai sono tutti morti e dai miei coetanei è raro che abbia ancora qualcosa da imparare. Quindi devo leggere i giovani: lo faccio per professione, in un’ottica di selezione per i Quaderni della Marcos e per la collana Lyra Giovani che curo per Interlinea, ma anche perché sono convinto che se voglio leggere qualcosa d’italiano contemporaneo devo leggere loro. Qualche volta non resto neanche deluso. Rispetto a vent’anni fa c’è meno ingenuità, forse a scapito dell’originalità, e la poesia femminile non è più riconoscibile al primo sguardo; ma in compenso è venuta molto più allo scoperto una scrittura “genderata” gay, lesbica, trans e bisex. Poi vi sono gli stranieri: e con quelli si apre un universo, un fronte talmente ampio da far tremare le vene ai polsi.

Come s’impania l’etica e la politica nei tuoi versi? Intendo. Metti in versi il ‘caso Regeni’, i gay pride, ‘Ground Zero’. T’importa il ‘fatto politico’? Che giudizio hai sulla politica italiana, sul caglio occidentale?

Nel mio primo decennio di vita adulta – gli anni Settanta – potevo andare ovunque nel mondo con le lingue che si insegnavano alla Bocconi. Perché il mondo era costituito dall’Europa occidentale e dal Nord America, con qualcosa di esotico in Centro e Sud America vissuti come propaggine della penisola iberica. Tutto finiva lì. Quando si andava nel Maghreb si parlava comunque francese; quando si andava in Israele o nei limitrofi paesi arabi si parlava inglese. Non c’erano altre esigenze. Adesso la prospettiva è completamente cambiata e mi sento marginale e periferico. Continuo a lavorare con le lingue occidentali che ho studiato, ma sono sempre più a disagio. Per sentirmi al passo con la mia contemporaneità dovrei conoscere almeno l’arabo, ma l’ho studiato solo per qualche mese da adulto: un po’ di pronuncia, i vocaboli d’uso corrente. Dovrei avere un’altra età e un’altra freschezza di memoria per impegnarmi sul serio. Ai tempi feci anche un annuale di russo, ma ho dimenticato quasi tutto; con Jucci avevamo iniziato il sanscrito con un frate francescano, poi lei morì e io non continuai. Ci sono enormi tesori linguistici e letterari che mi sfuggiranno per sempre: scrigni di cui non ho la chiave. Rimarrò coi miei romantici inglesi e i miei simbolisti francesi, col mio Goethe e il mio Leopardi, con Wallace Stevens e Elizabeth Bishop che mi scaldano e mi tengono compagnia. Coi miei Englishes: tutti gli inglesi del mondo dove vi siano tracce di poesia; però rispetto a quando ero giovane ho la consapevolezza di poter accedere solo ad un minimo spicchio di bellezza.

In Italia fino all’ultima generazione almeno, l’ingegnere era colui che aveva fatto un buon liceo prima. Mentre l’ingegnere americano non sapeva nulla di filosofia. Quello italiano attuale si sta avviando sulla strada. Avremo sempre più gente iper-preparata in un singolo campo, ma sprovveduta su tutto il resto. Allibisco, poi mi dico che forse stiamo entrando in una situazione i cui contorni mi sfuggono, probabilmente ciò che era importante per me ieri, oggi non lo è più, e mi sfugge che cosa sia davvero importante oggi. Mi rendo perfettamente conto che la mia concezione delle lingue – come quella dello stato di diritto – è rimasta euro-atlantica. Ci sono grandi civiltà culturali, penso alla Cina, dove risiede un quinto della popolazione mondiale, col libero mercato e nello stesso tempo la povertà culturale di una dittatura… Hanno completamente sradicato le antiche filosofie e conquistato un benessere becero, cafone; di fronte al quale il nostro boom economico degli anni Sessanta è il paradigma dell’armonia… Rimangono la grettezza, la volgarità, l’egoismo. Cose sordide. Poi modestamente penso: sarò io che non capisco. È un po’ il discorso che facevo con me stesso da ragazzino, quando mi sembrava che gli zii dicessero delle gran sciocchezze. Ma poi mi dicevo: hai tredici anni, loro ne hanno quaranta probabilmente sei tu che non capisci. Oggi posso dire che dicevano veramente delle sciocchezze.

La tua poesia si presenta, comunque, anche se divertita, come un gesto ‘culturale’, ancorato ad autori, a testi, a storie. Penso ad esempio alla sezione, curiosa, “Paso doble”. C’è una forza intellettuale, prepotente. Oggi, piuttosto, pare preponderante una poesia di effusioni sentimentali, di istantanee ispirazioni. Commento. 

Mai come oggi c’è libertà. Non ci sono più i must di venti o trent’anni fa per essere “in”. Sulla vexata quaestio della scomparsa dell’io lirico in poesia, constato che – mentre nel Profilo del Rosa (2000) l’io lirico di Franco Buffoni è straripante – cinque anni dopo, in Guerra (2005) praticamente non esiste, se non in alcuni testi marginali che potevano anche essere espunti. Tale scelta tecnica non avvenne per seguire programmatici dettami critici, ma perché l’argomento del libro mi indusse a mutare angolazioni e prospettive. Tanto è vero che in seguito, in Jucci (2014) i soggetti narranti – coloro che nel libro dicono “io” – sono addirittura due. E nel recente Personae (2017) le maschere diventano quattro e il genere letterario è quello della pièce teatrale. Nella mia concezione, per comporre buona poesia non serve una dogmatica prescrizione di assenza o presenza dell’io lirico: sarebbe troppo facile! Credo piuttosto che all’interno di una ben più ampia riflessione, debba esserci spazio anche per questo tipo di scelta. Si chiama “poetica”. Avere le idee chiare sulle differenze tra estetica, critica e poetica mi sembra essenziale per non cadere nella trappola di una troppo generica teoria della letteratura.

La tua attività da traduttore come è implicata nella tua opera poetica? Cosa ti resta da tradurre, cosa vorresti tradurre? E poi: come si ‘traduce’ il senso di una poesia nella testa, nelle vene, nel corpo del lettore?

Naturalmente anche qui c’è un dato professionale, costituito dalla direzione della rivista «Testo a fronte». Con tutto il contorno di riflessione saggistica che ciò comporta. Quindi non soltanto opere di teoria della traduzione, ma anche di estetica, di riflessione poetologica, di teoria della letteratura. Devi davvero leggere molta roba per capire quello che sulla rivista può funzionare dal punto di vista teorico. Per la poesia straniera, a parte quelle tre-quattro lingue che posso leggere in originale, è fondamentale avere una rete di colleghi fidati che ti consiglino gli autori migliori e meglio tradotti. Non è un lavoro che si possa improvvisare: mi ci sono voluti decenni per costituirla. Le aree che mi incuriosiscono di più oggi sono quelle delle lingue arabe e slave, e poi il turco, il cinese nelle sue varie declinazioni e il giapponese. Cerco in tutti i modi di avere dei buoni mediatori. E se annoio me stesso mentre leggo o traduco, significa che poi annoierò il lettore. Allora cambio testo, o poeta.

 

 

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