27 Febbraio 2019

“Restai a guardarlo per ore”: Pierre Bonnard a Londra, tra interiorità, siepe leopardiana e Adamo ed Eva in cortile

Pierre Bonnard vent’anni dopo. E a Londra, che tanta parte ha nel miscuglio delle mie heimat, si ripete l’incanto della visione. Era il 1998 quando la Tate Britain dedicò al pittore francese una personale che fu subito evento. La Tate Britain era la ‘vecchia Tate’, a Pimlico (dal nome della fermata della Tube), quella che per noi “ragazzi” degli anni Novanta era, nella Londra ancora senza lo skyline degli odierni grattacieli, una delle attrazioni del cuore. Fu una scoperta, Bonnard. E forse l’andare tra le stanze che oggi alla Tate Modern, a Bankside, tornano a dare spazio al pittore francese amato da Matisse, detestato da Picasso, è anche un viaggio alla ricerca del tempo perduto. E ritrovato. La vaghezza dei ricordi della prima volta si insinua nei circuiti della mente, nelle sensazioni che riemergono, ma vaporose e rarefatte.

Pierre Bonnard – The Colour of Memory ha inaugurato lo scorso 23 gennaio (è visitabile fino al 6 maggio) in quel tempio dell’arte moderna e contemporanea che è diventata la Tate Modern. Una bocca spalancata di balena, una cattedrale la cui soglia devi immancabilmente varcare ad ogni visita alla capitale del Regno, così solenne con il suo cupo color mattone che ricorda il rigore delle basiliche medievali di fronte al biancore di Saint Paul’s Church, dall’altra parte del fiume e del Millennium Bridge.

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Una fotografia di Marthe, musa e moglie di Bonnard

La mostra copre la fase più matura dell’esperienza pittorica di Bonnard (1867-1947): quattro decadi, dal 1912, quando inizia ad affermarsi con il suo stile unico, fino alla morte avvenuta nel 1947. Con l’intento, spiegano gli organizzatori, di “mostrare come l’artista abbia costruito i suoi vibranti paesaggi e intime scene domestiche dalla memoria”. È vero, come la critica aveva già rilevato in occasione della precedente mostra, che la pittura di Bonnard non andava molto al di là dei confini del proprio giardino, delle proprie mura di casa, “ciò nonostante non era meno poetica per via di questa restrizione. Era piuttosto visionaria”. Come un limite, una siepe leopardiana, gli interni di casa attraverso il gesto pittorico dell’artista spalancano le porte – e spesso porte e finestre sono sfondo se non addirittura protagoniste, in primo piano, nelle tele di Bonnard – di un universo-mondo che origina dalla sua interiorità, percezione, immaginazione.

Ci sono in mostra, ad intervallare la galleria di dipinti provenienti da vari musei e collezioni private, alcuni scatti fotografici: piccoli riquadri che ritraggono istanti di vita privata della coppia Bonnard/Marthe de Méligny: lei, la donna di due anni più giovane, incontrata all’età di 26 anni e sposata trent’anni dopo (nel 1925), è il “modello” dei celebri nudi, spesso ambientati in bagno o vasche da bagno. Ma la fotografia, così come il modello reale, non sono che un punto di partenza da cui allontanarsi. “Non permetto a me stesso di essere assorbito dall’oggetto che ho davanti – aveva affermato l’artista in una intervista del 1947 per la rivista Verve – Dipingo solo nel mio studio, faccio tutto nel mio studio. Alla fine, emerge un conflitto tra l’idea iniziale, che è buona – l’idea del pittore, e il mondo variabile dell’oggetto, del motivo che ha provocato la prima ispirazione”.

Così, anche il partire dalla fotografia non è che esercizio, metodo, che aiuta a discostarsi dal più convenzionale dipingere da modelli in posa. Le fotografie in esposizione alla Tate sono scatti che il pittore e Marthe fecero l’uno all’altra in giardino: novelli Adamo ed Eva, rilassati nella disinvoltura dei corpi, cristallizzati in inquadrature in un bianco e nero già “pittorico”, colti nei loro momenti edenici.

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Pierre Bonnard, “Nudo accovacciato nella vasca”, 1918

Nudo accovacciato nella vasca (1918) è tra i pochi dipinti a replicare una posa fotografica. Dipingere la memoria è piuttosto per Bonnard un esercizio di dissoluzione. Partire dall’esperienza reale, dalla fotografia anche, per allontanarsene. Sprofondare nell’interiorità per ricreare un paesaggio più vero, complesso e intimo, della sua rappresentazione “fotografica”. La scrittura/pittura diventa un secondo tempo, un rivissuto nelle stanze dell’anima. Perdere, lasciare andare, l’istante, per riafferrarlo nella rarefazione delle immagini ricreate. L’interiorità, in Bonnard, crea servendosi del colore. Delle tonalità che cambiano.

Il controluce ridà vita al trance de vie già inghiottito dai binari del tempo nel primo dipinto in esposizione: Nudo in controluce (1919-20), da una collezione privata. Il calco dell’emozione resta e rinasce. Prende, nel colore, una forma.

La tavolozza cambia, si trasforma con il passare del tempo, delle stagioni. E il dipingere prende sempre più la strada dell’astrazione. Nudo in un interno (1935), con l’immagine riflessa da uno specchio, la silhouette di donna solo intravista dallo spigolo della porta, è un incrocio di linee e spazi di colore orizzontali e verticali. Azzurri, blu, gialli, arancioni, rosa, si mescolano qui e altrove (Nudo alla finestra, Nudo in bagno, Sala da pranzo in campagna, Atelier au mimosa…) in una combinatoria sinfonica, densa, esplosiva.

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“Ogni immagine incarna un modo di vedere. Anche la fotografia” mi ricorda il John Berger di Ways of Seeing. Un dialogo tra Bonnard e Henry Cartier-Bresson – che ritrasse l’amico nel suo studio nella casa nel sud della Francia – è chiarificatore. “Non so quanto tempo io sia rimasto seduto di fronte a Bonnard – ha ricordato il celebre fotografo in una intervista del 1988 – Ore. Ad un certo punto ho scattato, al che lui ha alzato la testa e mi ha chiesto: ‘Perché hai scelto quel particolare momento?’ Gli chiesi: ‘Perché hai usato il giallo qui, in questo dipinto?’. Mi sorrise. Non disse nulla. Non avevamo bisogno di darci spiegazioni”.

Annamaria Gradara

Gruppo MAGOG