06 Luglio 2018

Reportage claustrofobico dal Premio Strega 2018 di un Savonarola travestito da Casanova. Paolo Cognetti pare Mauro Corona in Tibet, Nicola Lagioia parla solo di soldi, soldi, e l’atmosfera (annaffiata di noia) è da Festival di Sanremo

Che cos’è la letteratura?, non c’è, mai, altra domanda, anche quando si parla di frivolezze come il Premio Strega, perché sono le frivolezze che fanno ‘canone’ e fanno storia. Sarò un Savonarola travestito da Casanova, ipnotizzerò la strega.

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La cosa fondamentale del Premio Strega è il liquore, lo Strega. Dal momento che la letteratura italiana è alla frutta, anzi, è ancora peggio, meglio berci sopra lo Strega, per digerirne il peso.

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Un due tre, si parte. Eva Giovannini ci avvisa che in era etrusca “la donna era una protagonista assoluta, libera, rispettata, indipendente”. Maledetti i romani, maledetto il mondo che ho sotto i piedi. Restando in tema, lo Strega quest’anno è importante perché “ci sono tre donne in ‘cinquina’”; poi Eva passa a parlare del Sessantotto, della liberazione sessuale, della rivoluzione estetica e dei costumi. La femmina, il Sessantotto, la liberazione. La Giovannini, bella&brava, si merita lo Strega speciale al politicamente corretto, una rarità nell’epoca della scorrettezza politica.

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Mi dice un lettore disinteressato. “Non li devono fare vedere”. Chi?, dico. “Gli scrittori. Leggano i loro libri. Se vedi la faccia degli scrittori, se li senti parlare, ti passa la voglia di leggerli”. Da pensarci per la prossima edizione dello Strega. Più che votarli, questi, ti vien voglia di fuggirli, di sfoggiare l’analfabetismo.

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…d’altronde, che maleducati, quelli che affollano il Ninfeo si fanno i ca**i loro: gli scrittori parlano alla telecamera, avvolti da Eva, e gli avventori si avventano sui pasticcini, sugli editor del tavolo di fronte, sul direttore editoriale con il calice amaro davanti. La letteratura, se è, è scomoda, irritante, seducente, perversa, crudele, purissima. Al Ninfeo è tutto un fottio di ninfette letterate.

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Paolo Cognetti pare un incrocio tra Mauro Corona e il Brad Pitt di Sette anni in Tibet, è perfetto come un valletto, va al pascolo letterario.

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Per vincere la noia del Premio Strega ci vorrebbe il Gatto del Cheshire, lo Stregatto – oppure improvvisare una provvidenziale risata. La letteratura che celebra se stessa è come chi va al pisciatoio convinto di essere Marcel Duchamp, in realtà è solo uno che piscia fuori dal vaso.

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La vera domanda è sempre quella: che cos’è la letteratura? La letteratura dice la morte perpetuando la vita. Troppo difficile? Macché. Prendete i libri della ‘cinquina’: sono tutti mortificanti, certificano la morte, sono già morti.

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Villa Giulia come Woodstock? Diciamo che papa Giulio III, cinquecento anni fa, se la godeva di più.

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Una folgorazione. Su Canale 5, in concomitanza, c’è il Wind Summer Festival. Il Premio Strega, invece, è analogo al Festival di Sanremo: “è la tradizione”, mi dice un secondo lettore disinteressato. Un sopruso, vorrai dire, dico io, un sopruso alla letteratura. Tradizione è ciò che tradizionalmente viene conservato anche se sarebbe meglio gettarlo al macero, ma nessuno lo dice, tutti si riempiono la bocca di salatini e monili enogastronomici vari.

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Tradizionalmente, lo Strega va sbeffeggiato. Ineguagliabile, in questo senso, il reportage griffato da Cesare Cavalleri per Avvenire, nel 1969 (lo potete leggere, recuperato, nel libro-intervista “Per vivere meglio”. Cattolicesimo, cultura, editoria, ELS, 2018), che accompagna alla kermesse salottiera Ennio Flaiano, recensisce le “molte anziane signore luccicanti e fruscianti” (oggi ci sono anche i giovani allampanati e frustrati dall’ambizione, malvestiti per scena) e l’euforia mistica generale, dove “ciascuno esegue calcoli mentali per verificare se è aggrappato al carro giusto”. Lo sbeffeggio, ormai, però, è un vanto accessorio: i beffati siamo sempre noi, che vorremmo leggere altro rispetto a quello che ci propala lo Strega. E altro, di solito, non c’è.

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Soltanto un cretino può passare la notte a vedere il Premio Strega sulla rete di Stato dedita alla cultura di Stato, uno stakanovista dell’osceno. Eccomi. Blatero di Rainer Maria Rilke sola sanità del mondo, poi non ho le palle di spappolare ogni legame con la letteratura italica e inondarmi di deserti.

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Eva Giovannini e Nicola Lagioia. Esemplare l’esito della chiacchierata: “la cultura porta soldi”. Tanti ideali al vento, poi si torna sempre lì, alla merda di Belzebù, il denaro. La cultura è utile perché fa soldi (Lagioia sciorina, con affettata sicurezza da Ad di una grossa azienda, “l’indotto” del Salone del Libro torinese: costa ‘solo’ 3 milioni di euro e fa cadere “sul territorio” circa 30 milioni di euro, in effetti durante il Salone “non trovi un albergo né un ristorante…”, più che forzarsi a scrivere libri, scriva levigati reportage su TripAdvisor), un libro è bello perché vende, la letteratura funziona finché fa cassa. Cassate. La letteratura è per sua natura gratis, imprevista, imperiale, impagabile; i libri si rubano e quando si comprano, beh, con 10 euro ti pigli i ‘Karamazov’: il Suv lo paghi decine di migliaia di euro e si scassa, la casa crolla, l’uomo muore e Dostoevskij è sempre lì. Se la letteratura non si pone in alternativa al mercato, nell’epoca in cui tutto ha un prezzo, è schiava, farà pure soldi ma è in bancarotta.

Il reportage è pubblicato per esteso da Linkiesta, ed è qui.

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