Un uomo non si può discutere né giudicare. Almeno finché è a riparo del respiro. Però posso dire che mi sono rotto le palle. Il grande fuoco d’artificio del Sessantotto, cinquant’anni dopo, ci ha regalato una bibliografia pirotecnica. Fatene ciò che vi pare. Mandatela in cenere. Tra i personaggi più interessanti di quel tempo perduto c’è Régis Debray. Il suo personale Sessantotto, Debray l’ha fatto arruolandosi, a Cuba, tra le falangi di Che Guevara, nel tentativo di portare la rivoluzione in Bolivia. Il ‘Che’, come si sa, muore nell’ottobre del 1967 e Debray è accusato di essere il delatore, quello che ha fatto la soffiata giusta per beccare il guerrigliero. Con gli anni, Debray è diventato un pensatore sottile, un saggista di genio (leggetevi, tradotti in Italia, Dio, un itinerario e Il dialogo delle civiltà), ha collaborato con il governo Mitterand, è stato membro dell’Académie Goncourt, fino al 2015, quella che partorisce il premio letterario più prestigioso di Francia. Poligrafo, Debray, l’anno scorso, ha pubblicato Le nouveau pouvoir, in cui ragiona sul successo elettorale di Macron – in Italia l’ha da poco pubblicato Franco Angeli come Il nuovo potere – e Civilisation (di cui abbiamo già parlato su questo foglio digitale), in cui schianta il mito americano comparato alla decrepitezza dell’etica europea. I libri di Debray, mente raffinata, un nipotino di Montaigne, sono quasi sempre ispirati. Questa volta, però, il saggista un tempo ‘guevarista’ inciampa nella tautologia nostalgica. Fa quello che fanno tutti quelli della sua età. Si guardano indietro. Frignano sul latte versato. Rimpiangendo l’infanzia. “Il bilancio della mia generazione non è molto brillante, quello per cui ci siamo impegnati esiste nel regno del fantomatico e dell’irreale. Noi giovani politicizzati degli anni Cinquanta e Sessanta ci siamo esauriti in uno spettacolo di fuochi d’artificio, e ‘artificio’ è la parola centrale del Sessantotto”. Eccoci ancora qui. L’ennesimo sessantottino che ha creduto nella ‘rivoluzione’, ritrovandosi, ora, nel peggiore dei mondi possibili. Il nuovo libro di Debray s’intitola Bilan de faillite (Gallimard, pp.160, euro 15,00), ed è redatto secondo l’abusato cliché della ‘lettera al figlio’ (“Tu hai sedici anni, io settantasei. Un abisso”). “Siamo sempre in difetto rispetto alle nostre attese, c’è sempre un divario tra ciò a cui miriamo e ciò che raggiungiamo. Nel mio caso, lo scarto è tale che ho pensato di doverlo descrivere”. La vita, tuttavia, non è mai raggiungere ciò a cui si mira, è una ricerca, una rincorsa continua: il savio Debray potrebbe evitarci tali pensieri da scatola di confetti. Il tema centrale, attraversando Debray, è questo. La nostra società, dal Parlamento alle aziende ai panettieri alle accademie, è in mano agli ex-Sessantottini. A intelligenti frustrati che sognavano un mondo di fancazzismo per tutti, a tutti i livelli, con la guerriglia fatta per noia all’altro capo del mondo e la religione cercata sempre altrove, tra utopie buddhiste, morali confuciane, albe tolkeniane. “Non eravamo pronti al culto del vincitore. Non eravamo preparati al tempo in cui i calciatori sono semidei d’oro come i Budda birmani; né che cantanti, attori, attrici da Oscar, con i loro matrimoni e funerali sarebbero stati il faro delle nostre estati, i mentori dei nostri inverni”. Bella frase. Bravo Debray. Ma a questo punto. Meglio le analisi che fecondano i tempi di Elias Canetti o la scrittura al napalm di Cioran. Sono cattivo? No. Sono figlio di mio padre. Allievo di Mario Capanna, con il manifesto di Mao nella cucina di casa, Franz Kafka e i Saggi sul Buddismo zen di Suzuki sul comodino, un discreto disprezzo verso gli stilemi ‘borghesi’ – il matrimonio ad esempio, contratto per distruggerlo – e una perpetua inquietudine nel corpo. Spesso hanno svenduto l’ideologia per un lauto stipendio. I vecchi sessantottini. Oppure, predati dall’angoscia, sono fuggiti verso Est. O si sono uccisi. Gli altri restano. A ripercorrere e a vomitarci addosso un’epoca che va studiata con le armi della scienza, non con quelle della nostalgia. Continuano a farci bere il Novecento come olio di ricino. Ma noi. Noi. Disperati e incolti. Senza padri. Senza rispetto. Vogliamo conficcare una vigna di albe nel prossimo millennio. Lasciateci in pace. Lasciateci stare. Dei vostri ricordi – un peso immeritato – non sappiamo che farcene. (d.b.)