27 Febbraio 2020

Raffaello 500. Il quadro più bello, la Madonna Sistina: “Ecco la ragione della serenità che appare sui volti della Madre e del Figlio: sono invincibili”

Onorare i 500 anni dalla morte di un immortale. Nell’era disperata, del privilegio, dove al candore si è anteposta la pulizia, Raffaello non fa presa, non ne siamo preda, lo guardiamo con occhi profilattici. La sua bellezza è limpida, esatta – non va guardata, costringe al pianto – e chi, oggi, è disposto a deporre sé per esprimere l’altro nel pianto?

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Un quadro, quando ci rapisce senza complicanze intellettuali, pretendendo tutto, non ci rispecchia, ci sorprende per definizione di destino. Quel quadro è ciò che avremmo potuto essere, la nostra più spudorata e indicibile intenzione – ciò che fummo, fumo, forse, qualche vita fa, dopo essere stati cervi e cuspidi, abeti e cervi. Da tempo, sono folgorato dal “Cristo alla colonna” del Bramante, in Brera; di recente, mi ha stordito la “Pietà” di Giovanni Bellini a Rimini, quel corpo omerico e astrale di Cristo, su fondo nero. Non c’è la contorsione del tragico – niente Caravaggio, Schiele, Bacon, per dire – ma l’estasi, il silenzio, l’estensione del commovente.

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Raffaello è una folgorazione troppo mite, dicevo – l’apollineo, il lupo luminoso. In Vaticano, ad esempio, più che l’ostentata, didascalica Scuola di Atene, mi affascinava, più in là, nelle Stanze di Eliodoro, la Liberazione di San Pietro, coi soldati stravaccati, di fianco, e l’inferriata centrale, la prigione, infiammata dall’angelo che si china sull’uomo in catene. Una potenza scenografica come di lava – ma ieratica, priva di stucchevole teatralità. Puoi incatenare la luce?

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Della Madonna Sistina, per dire, custodita a Dresda da due secoli e mezzo, creata, probabilmente, per il convento di San Sisto a Piacenza, ricordavo gli angeli in basso, perplessi, diventati pop. Uno scrittore che ha eseguito il sottosuolo per esporre l’uomo al punto di più profondo candore, Dostoevskij, vedeva nella Madonna di Raffaello lo zenit della pietà, “regina delle regine, ideale dell’umanità” (così nei Demoni), era la sua ricorrente protettrice, ne possedeva una copia nel suo studio, “anteponeva la Madonna Sistina a tutti i capolavori della pittura mondiale” (Sofja Tolstaja). Fu leggendo Vasilj Grossman, però, che capii la profondità d’abisso, preumana, di quel quadro.

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Penso che Raffaello, dando quel viso alla Madonna e al Bambino, abbia fatto esplodere il versetto evangelico: “A quelle parole fu molto turbata” (Lc 1, 29). Maria guarda l’angelo Gabriele, non si sorprende di fronte al soprannaturale, ma le parole, “Rallegrati piena di grazia, il Signore è con te”, la turbano. Grazia e pienezza, in effetti, sono anticipate da abbandono, infanticidio (Erode), irriconoscenza, martirio, assistere alla morte per tortura, ingiusta, del figlio, il giusto. Il turbamento, inappellabile, più vasto di ogni fede, è ciò che ti squarcia di quella Madonna. Una Madonna più clamorosa, più commovente, in fondo, della straordinaria Vergine di cui Caravaggio dipinge la morte.

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Turbamento è l’attimo dell’oscurità, il momento in cui il caos può vincere, la confusione, lo scompiglio dei simboli – la luce è trattata per ombra, il ladro per Messia, il Messia è ucciso come un ladro. Cristianesimo, quindi, è annaspare nel caos ricomponendo a nuova unità l’infranto, l’infanticidio della promessa.

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L’interpretazione di Grossman mi ha turbato, a tal punto che qualche anno fa, quando i reflui del caso mi portarono a dirigere un liceo linguistico, feci della Madonna Sistina il perno di una avventura scolastica, che chiamai, “Nel nome di Maria: educare è la sfida di una madre bambina”. Invoco alcuni appunti.

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Dovete guardarla. Ma tanto, poco importa, è lei che vi guarda, che vi implora. Ma come, non siamo noi a doverla pregare? Che scandalo, che stupore: ci inginocchiamo per pregarla e lei con il suo sguardo ci solleva: ma non vedi che ho bisogno di te, ho proprio bisogno di te e di nessun altro? Nessuno può accontentarsi di pregare la Madonna di San Sisto di Raffaello, a Dresda dal 1754, ci viene voglia, ci viene imposto di salvarla. Come può questa Madre fanciulla cambiare la storia del mondo? Come può sostenere la richiesta poderosa di Dio questa mamma fragile, così piena di sogni e di passioni. Guardiamo il quadro e concentriamoci su di lei, annullando i putti oleografici che ormai stanno sulle magliette al supermercato, zittendo il santo e la pia donna al suo fianco. È Raffaello che ce lo chiede: lo sguardo della Madre e quello del Bambino sono il vertice dell’opera, il nucleo da cui si scatena il vortice della salvezza, il capo del mondo, lì è dove l’uomo nasce, dove l’uomo tornerà. Passeggia sulle nubi la Madonna, un vento turba la sua vesta, rizza i capelli del Bambino, nudo, che ci fissa spaventato, con il viso appoggiato alla guancia della Madre. La Madre bambina sembra donarci la sua creatura, tieni, occupatene tu, è tuo, dimmi tu se è davvero il Figlio di Dio, dimmi se merita la crocefissione, dimmi se risorgerà. Questo ci chiede la Madre. Ma il Bambino, come ogni bambino, ha paura, s’inclina verso la Madre, non lasciarmi, sembra dirle, e a noi, mi fai paura, so che per la tua salvezza, per la tua sanità sarò costretto a morire, lasciami qui, ancora, tra le braccia deboli, amorevoli di mia madre.

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Il viso della Mamma fanciulla è docile e rassegnato: prevede il futuro del Figlio amato, che la ripudierà, che la guarderà con tenerezza dall’alto della Croce. Ben più lontano, in profondità: vede il futuro dell’uomo, di tutto l’uomo, ne contempla l’intero getto, ed è pronta a gettarci il Bambino quando non ne potremo più, saremo troppo affamati. Quella Madre prevede la nostra morte, la morte dell’uomo, ma nello stesso tempo ci dice, non avere paura, io so cos’è il dolore, l’ho accettato; non avere paura, siamo insieme, sorreggimi. “Pur rimanendo intatta la mia enorme ammirazione per Rembrandt, Beethoven, Tolstoj, compresi che di tutto ciò che era stato creato da un pennello, da uno scalpello, da una penna soltanto questo quadro di Raffaello non morirà finché sarà vivo l’uomo. Ma forse, se anche l’uomo morirà, altri esseri che resteranno sulla terra al suo posto – lupi, ratti, orsi, rondini – verranno, camminando o volando, ad ammirare la Madonna”: questo ha scritto Vasilij Grossman, uno dei più grandi scrittori europei del Novecento, nel 1955, in un articolo che s’intitola La Madonna a Treblinka, silenziato dal governo russo fino alla perestrojka.

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La Madonna Sistina di Raffaello – in scena, a cogliere l’anniversario, presso le Scuderie del Quirinale – non ci lascia in pace, ha sempre pungolato gli scrittori. Fëdor Dostoevskij, che la cita nei Demoni e in Delitto e castigo, ne parla come della “massima espressione del genio umano”, ma c’è qualcosa di più oltre alla grandezza estetica, e questo qualcosa in più lo ha intuito perfettamente Grossman. “La meravigliosa, serena forza di questo quadro consiste nel fatto che esso esprime la gioia di essere creature viventi su questa terra. […] La forza della vita, la forza dell’umanità è enorme, e neppure la violenza più feroce e sistematica è in grado di sottometterla, può soltanto ucciderla. Ecco la ragione della serenità che appare sui volti della Madre e del Figlio: sono invincibili”. In un crescendo sublime, lo scrittore Grossman, il gigante il cui capolavoro, Vita e destino, è stato annullato dal regime sovietico perché la parola, da sempre, è in grado di sconvolgere l’anima di un uomo in ascolto, ha il coraggio di scrivere: “la Madonna ha sofferto insieme con noi, perché lei e suo figlio – siamo noi”.

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Quindi un quadro è il quarzo su cui converge l’uomo, l’Occidente, questa salvezza a tentoni, a tentativi. “Perché la vita è stata tanto atroce?… Non c’è stato tempo più terribile del nostro, ma non abbiamo permesso che nel genere umano si estinguesse l’umanità. Contemplando la Madonna Sistina manteniamo la nostra fede nel fatto che vita e libertà siano inscindibili e non vi sia nulla di più alto dell’umanità dell’uomo. Questa umanità sopravvivrà in eterno, e vincerà”, scrive Grossman. Così, una donna scaglia un bambino, quella sfera di luce, nella Storia, senza sfamarla, laccandone le zanne – e a noi non resta che deporci, certi, tra le mani di un altro. (d.b.)

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