19 Dicembre 2017

Il racconto: “Dev’essere stata l’abitudine”, ovvero: “la bacio ma tutto ciò che riesco a pensare è il numero di persone a cui lo avrà succhiato”

Un due tre, si parte. Armatevi di carta&penna, a sfidare i marosi del vostro cuore, le Amazzonie che si spalancano appena oltre il confine dell’intestino tenue. “Pangea” diventa palestra di scritture. Abbiamo chiesto ad alcuni studenti della Scuola Holden di Torino di costruire una redazione parallela. Un laboratorio di follie. Simile a una mongolfiera. All’opificio di un alchimista. Che si chiama Il Cannibale. Perché? Perché la scrittura è sempre ‘cannibale’, cioè, divora la vita. Saranno loro, questi baldi scrittori intrisi di futuro, a leggere e a giudicare i vostri racconti. Che potete inviare qui: info@pangea.news.

L’esatto contrario di chi pensa che sia possibile insegnare qualcosa

“Il Cannibale” rappresenta l’esatto contrario della volontà di qualsiasi becchino legato alla mercificazione editoriale. Qui sono ammessi racconti, critiche e recensioni (anche extra-letterarie), e soprattutto lampi d’identità: perché scrivere? È possibile inviare racconti o proporre spunti di qualsiasi tipo: saranno letti e analizzati dalla nostra redazione di giudiziosi sfaticati e successivamente – se considerati meritevoli – pubblicati suPangea. Eventualmente e a vostra richiesta potrete firmare con uno pseudonimo: grazie alla scrittura si può essere trasparenti, mettere al centro la propria idea – che è parallela alla persona, ma più importante – e lasciare che il contenuto rimanga in primo piano, libero e sanguinario come il selfie di un cannibale nella homepage di Facebook. “Il Cannibale”, dopotutto, è l’esatto contrario di chi pensa che sia possibile insegnare qualcosa. (Nicolò Locatelli)

 

Dev’essere stata l’abitudine

 

— Scusatemi, torno subito.

— Sbrigati che tra poco è pronta la cena – dice nonna.

— Falle gli auguri anche da parte nostra – aggiunge uno.

— Certo – butto lì, senza aver riconosciuto la voce.

 

Uscito di casa cammino incontro all’aria gelida.

 

“Se certi parenti si vedono solo una volta all’anno un motivo ci sarà”.

“Non devo essere troppo gentile, disinteressato è la parola giusta”.

“E quando Giulia mi avrà aperto le dirò: Ciao! Vuoi venire al ballo con me?”

 

— Cosa? – chiede lei.

— Stavo scherzando, sono passato a salutare.

— Sei a cena dalla Giuseppina?

— Sì.

— Salutami tutti.

— Ok. Tua madre è in casa?

— Vuoi entrare?

— Se non disturbo.

— Dai, almeno saluti anche lei.

 

La madre di Giulia è appena uscita dalla doccia: ha i capelli raccolti in un asciugamano e le labbra bollenti. Lo so perché mi ha baciato su entrambe le guance. È felice di vedermi.

 

— Come mai quest’anno siete venuti a Perugia?

— Così hanno deciso – rispondo.

— Siete dalla Giuseppina?

— No, i miei mi hanno fatto scendere qui davanti poi sono scappati.

— Marco! Sei sempre il solito. Mi sei mancato tanto – ride lei.

 

In salotto hanno un nuovo divano. Quando frequentavo la casa ce n’erano solo due. Ora sono tre, bianchi, a parte il mio preferito: così rovinato da sembrare grigio.

Me ne sono accorto solo dopo un po’.

Dev’essere stata l’abitudine.

 

— Invece Filippo come sta? È ancora vivo?

— Certo che è vivo, cretino. Sta arrivando – dice Giulia.

— Bene, così saluto anche lui.

— Sei pessimo.

 

Andiamo avanti a parlare. Giulia mi guarda e le brillano gli occhi. A un certo punto mi siedo sopra di lei, comincio a farle il solletico. Ride.

 

— Non siete più fidanzati – ci ricorda sua madre – non potete fare così.

— Hai un caricabatterie? – chiedo. Non mi serve sul serio.

— Di sopra – risponde Giulia.

— Vado ad asciugarmi i capelli. Voi fate i bravi, bambini.

 

La camera di Giulia è diversa. Alcuni mobili sono nuovi, il letto anche: ha due piazze e il baldacchino in ferro. Ricordo di averlo notato anche quando ero tornato a recuperare un paio di scarpe rimaste a casa sua. Vederlo mi aveva spezzato il cuore più di ogni altra cosa, quel giorno.

 

— Gliel’ho preso per farle una sorpresa – aveva spiegato Chiara.

 

Sua figlia sarebbe rimasta in Erasmus ancora qualche mese e una volta tornata in Italia si sarebbe scopata qualcuno che non ero io. Sapere che l’avrebbe fatto sopra quel letto nuovo, che avevo visto per primo, rendeva tutto ancora più triste.

 

— Ecco il caricabatterie – sussurra Giulia.

 

Ha le labbra di sempre e muove la lingua nello stesso modo. Ci stiamo baciando ma tutto ciò che riesco a pensare è il numero di persone a cui avrà succhiato il cazzo dopo avermi lasciato. Continuare fa schifo, ma insisto contro me stesso. Superato il pensiero non va così male. Pura indifferenza.

 

— Sei pessima – dico per farle il verso.

 

Non risponde, sorride e si lascia toccare il culo. Con la punta delle dita arrivo a sfiorarla. Insisto, l’afferro da dietro, accarezzando e spingendo a fondo.

 

— Hanno suonato! Giulia vai ad aprire – grida Chiara dal piano di sotto.

— Sì! – replica lei.

— È già finita tra noi?

— Idiota. È Filippo, fai il serio per una volta. Anzi, aprigli.

— Sai che non vedevo l’ora che arrivasse?

 

Entrando in bagno per sistemarsi Giulia sbotta in una risata, lo fa in un tono cattivo e per questo sorrido anche io. Scendo le scale con calma.

Non sia mai che Filippo prenda freddo.

 

— Ciao! Ero passato per farvi gli auguri ma adesso me ne vado, tranquillo.

— Ciao Marco, che sorpresa, ci mancherebbe – risponde, dandomi la mano.

— Fammi pensare. Cosa c’è lì dentro? Uno spremiagrumi?

— No, le ho preso un paio di stivali.

— Ancora meglio di una vacanza a San Marino.

— Indovina chi mi ha dato l’idea – ammette.

 

Arrivati in salotto Chiara bacia anche lui sulle guance, poi afferra il pacchetto dalle sue mani e lo sistema sotto l’albero. I miei regali sono uno spazio vuoto e la stretta di mano ancora umida. Non era sudore.

 

— Oh, buonasera.

— Ciao Giulia, buon Natale – dice Filippo.

 

Fingo di girarmi dall’altra parte per non guardare ma sbirciando li vedo baciarsi, avvinghiati in un abbraccio. È stato lui a forzarla. Giulia gli ha stampato la mia saliva sulle labbra. Non credo se ne siano accorti.

 

— Io torno dalla Peppa, ormai sarà pronto.

— Sicuro? Non vuoi fermarti qui? – ribatte Chiara.

— Ti ringrazio, ma i parenti mi stanno aspettando.

— Bene dai, allora ci vediamo. Saluta tutti – dice Giulia, sollevata.

— Ciao Marco, stammi bene.

— Ciao Phil, anche tu, mi raccomando.

— Giulia lo accompagni di sotto? – domanda Chiara.

— Non serve, conosco la strada.

— Buon Natale allora! – sbuffa Giulia.

— Anche a voi!

 

Andandomene penso che casa di Giulia è così vicina a quella di mia nonna che in effetti sembra quasi strano non cenare tutti insieme. Piove.

 

— Com’è andata? – vuol sapere mia madre.

— Bene – dico io.

— Hai fatto gli auguri a Giulia da parte nostra? – chiede mio zio.

— Certo – rispondo, sedendomi – anzi, ricambia e vi saluta tutti.

— Ma c’era anche il suo fidanzato? – incalza, sorridendo.

— Si chiama Filippo.

— Non ci credo, dimmi che almeno non sei entrato in casa.

— Invece sì. Tra l’altro ero già dentro, gli ho aperto io la porta.

— Ma com’è lui?

— Un tipo tranquillo, basso, con i capelli rossi.

— Basso quanto?

— Più basso di lei, ma ha due anni in meno. Crescerà – rispondo.

 

Ridono tutti. Tra un paio d’ore Filippo si starà scopando il letto a baldacchino. Cos’avrà fatto di male per raccogliere il cadavere che mi sono lasciato alle spalle? Per me è come se fosse morta.

 

— Finiscili o si raffreddano – dice nonna.

 

Non ho fame ma obbedisco. Mi è tutto indifferente. Cosa sono diventato? Certi pensieri mordono come se fossero loro a nutrirsi del corpo.

Allora mangio più in fretta, sbattendo il cucchiaio tra i denti e il piatto. Ogni volta che esagero tiepide gocce di brodo sporcano la camicia.

Da bambini colorare qualcosa con troppa cura porta spesso a bucare il foglio. È una sensazione che mi porto dietro da sempre.

Stasera ho ridotto Giulia all’unico errore in grado di rovinare un disegno a cui tenevo sul serio. Mezz’ora fa ero ancora convinto quel buco fossi io.

Dev’essere stata l’abitudine.

Liam

 


 

Il racconto: “Dev’essere stata l’abitudine”, ovvero: “la bacio ma tutto ciò che riesco a pensare è il numero di persone a cui lo avrà succhiato”

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