13 Dicembre 2017

Il racconto del giorno: “La seconda regola”, ovvero: “Per le strade della Capitale scorre un flusso ininterrotto di anime”

Un due tre, si parte. Armatevi di carta&penna, a sfidare i marosi del vostro cuore, le Amazzonie che si spalancano appena oltre il confine dell’intestino tenue. “Pangea” diventa palestra di scritture. Abbiamo chiesto ad alcuni studenti della Scuola Holden di Torino di costruire una redazione parallela. Un laboratorio di follie. Simile a una mongolfiera. All’opificio di un alchimista. Che si chiama Il Cannibale. Perché? Perché la scrittura è sempre ‘cannibale’, cioè, divora la vita. Saranno loro, questi baldi scrittori intrisi di futuro, a leggere e a giudicare i vostri racconti. Che potete inviare qui: info@pangea.news.

L’esatto contrario di chi pensa che sia possibile insegnare qualcosa

“Il Cannibale” rappresenta l’esatto contrario della volontà di qualsiasi becchino legato alla mercificazione editoriale. Qui sono ammessi racconti, critiche e recensioni (anche extra-letterarie), e soprattutto lampi d’identità: perché scrivere? È possibile inviare racconti o proporre spunti di qualsiasi tipo: saranno letti e analizzati dalla nostra redazione di giudiziosi sfaticati e successivamente – se considerati meritevoli – pubblicati suPangea. Eventualmente e a vostra richiesta potrete firmare con uno pseudonimo: grazie alla scrittura si può essere trasparenti, mettere al centro la propria idea – che è parallela alla persona, ma più importante – e lasciare che il contenuto rimanga in primo piano, libero e sanguinario come il selfie di un cannibale nella homepage di Facebook. “Il Cannibale”, dopotutto, è l’esatto contrario di chi pensa che sia possibile insegnare qualcosa. (Nicolò Locatelli)

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La seconda regola

 

Quando uno qualunque muore dentro un sottopassaggio della metropolitana nessuno là sopra se ne accorge. Un abitante del sotto accende un cero, magari, mentre un altro lascia lì dei fiori bianchi.

Per le strade della Capitale scorre un flusso ininterrotto di anime che lui attraversa come farebbe un ologramma: i passanti lo guardano negli occhi solo per una frazione di secondo, prima di scansarlo.

Sopra di loro incombe la grande bellezza: le terrazze che affacciano su via Veneto, i capitelli dei monumenti rivolti verso Dio, gli uffici del Ministero accesi fino a tardi.

Sotto le strade invece serpeggia una rete neurale di cunicoli dove gli ultimi hanno il loro rifugio.

L’inverno è quel che di peggio c’è da temere. Di giorno le mani gli si ghiacciano intorno all’impugnatura del carrello. Fatica a spingerlo perché le ruote slittano sulla patina che ha congelato i marciapiedi. Ogni sera viene scosso dai tremiti e se ne sta rannicchiato sotto le coperte rigide come il cartone per quel freddo insensibile. Ma anche quella è casa. Sopra i gradini ogni cosa ha il suo posto. Lo spazzolino e il tubetto del dentifricio, i resti di alcuni lumini consumati, due paia di scarpe sformate, bucce di mandarino. Appesi al corrimano i sacchetti dove tiene le sue poche cose, e poco più in là un secchio. C’è un forte odore di piscio.

La luce si fa strada nel tunnel e scavalca il trolley rovesciato sul lato. Lì dietro, lui tiene ancora gli occhi chiusi. Poi da sveglio piega con cura le coperte, le accatasta ai piedi della brandina. Si riveste con il solito pile, la giacca di pelle marrone e un berretto di lana che gli scende fino agli occhi, lanciatogli da qualcuno di buono dentro il carrello qualche giorno prima. Non porta con sé altro che due buste di plastica vuote.

Di sopra la città non si è ancora svegliata. Una foschia grigiastra si alza dalle strade e lo avvolge all’uscita del tunnel. Lui imbocca la Sallustiana e svolta in una laterale, poi affretta il passo verso l’insegna Le bontà del forno, visibile da un centinaio di metri.

Dietro le vetrine della panetteria una ragazza di spalle riempie gli espositori di tortini caldi e pagnotte sfornate da poco. Non si volta. Lui le lancia un’occhiata riconoscente, poi raccoglie dal gradino un sacchetto tiepido. Lo stringe tra le mani, se ne va.

La bidella in tuta di ciniglia bluette spazza via le foglie dal cortile. Alzando la testa lo vede in piedi, dall’altra parte della strada. Abbassa gli occhi di scatto e non li rialza nemmeno quando una folata di vento disperde in un attimo la fatica dell’ultima mezz’ora.

Poco alla volta il vialetto straborda di mamme in ritardo e bambini ingrembiulati, schiacciati dagli zaini. Si sforza di scovare la bambina nel mucchio. Quando ritrova le sue solite trecce bionde le fissa a lungo, sembra trapassarle il cranio con lo sguardo. Lui non ha mai messo piede in una scuola.

È nato in strada, per quanto ricorda sua madre l’ha abbandonato lì.

Un uovo lasciato a schiudersi in mezzo al mondo.

Ci sono giorni in cui si allontana parecchio. E ripercorrendo la strada attraversa le gallerie con molta attenzione, camminando rasente alla parete per non farsi investire dalle auto che corrono a folli velocità e squarciano la periferia capitolina con i loro fanali. Le strade di Nuoro tanti anni prima gli erano apparse ancora più spaventose, ingigantite dai suoi occhi di bambino. Ma tutto questo era stato molto prima della fuga dalla Sardegna e dell’arrivo sulla penisola. Ora non c’era altro che questo, vivere. Vivere per vivere.

Quella sera li incrocia attraversando i giardinetti vicino a Porta Pia. Stanno tutti a cavalcioni del loro scooter, bevendo l’ennesima birra della serata. Fanno un gran casino, si preparano alla serata in discoteca. Alcuni fanno girare una canna. Lo vedono prima che lui abbia il tempo di vedere loro. I due più imbastarditi dall’alcool scendono dal sellino e gli si piantano davanti, sbarrandogli il passaggio.

I sacchetti di plastica lo intralciano nella fuga, sente qualcuno di loro che ancora lo rincorre, poi più nulla. Si lancia per le scale del sottopassaggio e schiacciandosi addosso alla parete, pronto a registrare qualsiasi movimento, ascolta il rumore delle auto che passano e il sangue che pulsa nelle orecchie.

A svegliarlo ore dopo è il rumore del vetro che si infrange contro i gradini. Gli si irrigidiscono le gambe e d’istinto allunga un braccio verso il trolley. Vuole usarlo per nascondersi. Il suono pesante dei passi che scendono rimbomba nel tunnel. Fuori, gli altri aspettano che il più vecchio tra loro stani il ratto.

La città è immersa nel buio, tranne per la torcia di un telefonino che ogni tanto illumina il volto teso di qualcuno della banda. Riemergendo per un attimo dall’oscurità si mascherano dietro un ghigno.

Di sotto l’odore è nauseante. Il ragazzo si tappa la bocca e il naso con l’avambraccio.

La notte è spessa come una coperta e le sue dita improvvisamente non trovano più il corrimano. Intuisce la presenza di una diramazione davanti a sé, si blocca. Estrae il telefonino dalla tasca della giacca ma il tremito della sbornia lo tradisce e gli cade a terra. Impreca, chinato sul pavimento di pietra.

Poi si rialza di scatto. Ha paura di essere aggredito alle spalle.

Il ragazzo tira pugni alla cieca, poi fa qualche passo in avanti. Prima che lo trovi potrebbero passare delle ore: dentro quel buio ogni angolo è un nascondiglio.

Cerca l’uscita a tentoni, maledicendo la puzza.

A lui, ancora rannicchiato dietro il trolley, arriva tutto come una scarica di proiettili: il rumore dei vetri che s’infrangono, le urla e le minacce, l’odore della birra rovesciata e infine le sgasate dei motorini che schizzano via. Poi il nulla.

La notte è una sequenza di incubi dai quali si risveglia madido di sudore.

Quando la luce si fa strada fino a lì, si distinguono chiaramente i segni del passaggio della banda.

Raccoglie i vetri uno ad uno, poi rimette le sue cose dentro il carrello. Per i passanti si tratta di sporcizia, nel suo caso di tutto ciò che ha. Nessun rimpianto: in questa vita non c’è spazio per le domande.

Trascina faticosamente il carrello su per i gradini e riemerge sopra, nel flebile sole del mattino. La prima regola della strada s’impara presto: mai abbandonare il rifugio, se non vuoi che te lo rubino.

Ma se non ti senti più al sicuro significa che è tempo di andarsene.

Vicino al cavalcavia del Raccordo vivono insieme in otto. Quasi tutti hanno l’accento straniero, lui è l’unico italiano. Si arrangiano come sempre, cercando di rendere simili a una casa quelle quattro pareti nude.

I vestiti appesi ai chiodi nel muro interrompono le pareti foderate di cartone, e l’unica dispensa presente è stata fatta con degli scatoloni. Uomini e donne siedono in cerchio su cassette di plastica. Cenano insieme.

Non ha mai pensato alla solitudine come a qualcosa che lo rendesse più vulnerabile, ci è nato e basta.

Roma gli ha appena ricordato la seconda regola: impara in fretta a distinguere i buoni dai cattivi.

Lui crede sia tutta una questione di prospettive.

Arabella

 

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