C’erano dei libri mitici, con nomi meravigliosi. Uno si chiama Il cielo di Marte, l’altro Il privilegio della vita, poi c’era L’invasione dei granchi giganti, Nome e soprannome e Il fianco dove appoggiare un figlio. Tra questi libri, che si leggevano nelle catacombe e mettevano muschio al nostro Nord poetico, questo è il più stralunato. S’intitola Gli allarmi delle stelle, che titolo meraviglioso, e lo ha scritto un poeta elettrico, una specie di incrocio tra Dino Campana e Jean Valjean. Il poeta, che abitava una fuga, si chiama Valentino Fossati – e quel libro, pubblicato nel 2007 dall’editore Marietti, sotto gli auspici di Davide Rondoni – che scrive di “riuscito amalgama tra sincerità e visione”, di “un cortocircuito tra voci apparentemente lontane, come Sereni o Quinzio” – è tra gli indimenticabili della poesia contemporanea – che soffre, oggi, l’asfissia del qualunquismo, per cui, chiodo-scaccia-chiodo, un libro equivale a un altro, conta chi è più ‘social’, chi è più simpatico, chi si presenta meglio, valletta del proprio ignoto talento. Ora, quel libro ritorna – e nel ritorno c’è la conversione, coinvolgente. La raccolta Gli allarmi delle stelle, infatti, per gli audaci di CartaCanta (pp.80, euro 10,00), è ancora in libreria, “convinti che sia una delle migliori apparse in questo decennio”, redatta da “una voce che pare quella di un Sereni più ebbro e indifeso” (ancora Rondoni), rivista, scavata, scalfita. Per gli studiosi – ce ne fossero – è una manna, perché è come se un pittore ritoccasse il proprio ritratto, dieci anni dopo, usando il retro del coltello. I cambiamenti, in direzione della nudità, sono nitidi, da subito. Questa ultima raccolta è dedicata “a tutti quelli che ho lasciato andare”, ed è priva di epigrafe; la prima versione era “A Roberta”, con un passo dell’Amleto in apertura. Alcune poesie scompaiono (il libro del 2007 è di 112 pagine), molti versi si accorciano o si accorpano, le sezioni si riordinano (scompare Fantasmi, appare Messaggi dal reparto, che smobilita e rifà parte della sezione antica). Un esempio del processo, tratto da una delle poesie più belle, A Natan, il profeta. “Dammi un segno che i morti sono vivi/ e che ci vedono e ci sentono parlare/ sotto le nubi, sotto la terra,/ mentre la neve ti ha cullato sotto il cielo.// E i palazzi sotto l’acqua ci sono ancora,/ tutto è rimasto dietro una serranda chiusa/ dove non vede neanche nostro signore”. Questa è versione del 2007. Questa è la stessa porzione di poesia, oggi. “Dammi un segno che i morti sono vivi/ vedono, ci ascoltano/ sotto le nubi,/ ci chiamano dalla terra e dalla neve.// Le città sotto l’acqua non affiorano,/ ma le vediamo/ noi rimasti ad aspettare le mani…”. Se all’epoca l’abbandono è alla visione, alla foga sovreccitata, ora, pare, ogni verso è lavorato con il bisturi, col senno dell’acciaio.
Tornare su un libro, dieci anni dopo, nella stessa costellazione, nella bocca e nel gorgo. Cosa significa?
Tornare su Gli allarmi delle stelle ha significato riuscire di nuovo ad attraversarmi, a guardare oltre o almeno provarci, rispetto al senso di colpa profondo e all’oscurità che ho voluto tradurre scrivendo quel libro. Con questa ripresa ho voluto anche raccontare un’altra storia, dall’interno, non solo quella mia e dei miei anni. Una storia nella storia: di un libro, di una vita, di più vite; tentare ancora di uscire da una solitudine, da un io per diventare – forse – un noi, o anche solo per scoprire, guardandomi indietro, che Gli allarmi è diventato un libro di morti, o di allontanati, che vorrei ritornassero.
Cosa c’è di ‘allarmante’ in questi tempi? Perché richiama all’‘allarme’ la tua poesia
L’allarme: la percezione di un’imminenza che può essere precipizio, deflagrazione, ma non solo verso il buio, anche verso l’imprevisto, l’inaspettato, qualcosa che all’improvviso diverrà presenza. È una percezione intima, ma anche storica, non solo individuale, dove nella Storia, anche recente, si avvertono, come ossessivo rumore di fondo, il massacro, la violenza – più o meno esplicita – i multiformi tentativi di negare identità e memoria, e soprattutto lo svilimento, l’assenza del pensiero. L’allarme poi è anche quel turbamento che anticipa il distacco da chi si ama e non tornerà, l’esperienza della malattia come ferita, rivelazione e soglia, lo scontro definitivo con il nostro limite.
Da dove viene la poesia, la tua, da quale cavità; a cosa serve infine?
Dal più intimo di me, semplicemente. Anche quando vorrebbe, più o meno consapevolmente, farsi testimone di qualcos’altro. Al di là di ogni discorso sul ‘cosa serve’ – non credo a molto – con la mia poesia vorrei sempre relazionarmi a qualcuno con la mia poesia e in questo incontro mettermi in gioco; vorrei anche che quel qualcuno, viceversa, si mettesse in gioco incontrando me. Tutto qui.
Ci sono poesia di rabdomantica bellezza, dove evochi i morti, a loro riferisci verbi, interferenze verbali. La poesia parla anche ai morti? Che cos’è la morte?
La poesia ha a che fare con il limite, è dialogo incessante con il nostro limite, con la presenza di quella soglia che può aprire all’oltre. Si rivolge, ‘parla’, anche ai morti, perché nella loro presenza-assenza incarnano proprio questo limite e questa soglia; perché ci diano un segnale, poi, perché in qualunque forma ritornino a noi. La morte? Quando viene esclusa questa soglia, quando si esauriscono memoria e presenza, quando l’ombra non genera più.
Cosa leggi? Chi sono – chi sono stati – i tuoi maestri?
Mi interessa la saggistica, anche la critica: quella poca che diventa ‘opera’ e degna di essere letta; dove centrale non è solo il fatto linguistico, ma anche quello psicologico e ciò che va ancora oltre. Poi la critica fatta dai poeti, Pasolini e Zanzotto per esempio… In poesia Montale sin dall’inizio: la fine dell’infanzia, il tu delle Occasioni come irrompere di un destino, il punto di contatto tra il proprio essere e l’oscurità della vita; Pasolini, l’attraversamento di sé a precipizio, la nostalgia che si protende oltre, la possibilità di vertiginose aperture. Montale, Pasolini poi il Sereni metafisico di Stella Variabile: non li rileggerei, ora, se non filtrandoli attraverso il decisivo approfondimento di Testori. Tra i miei pochi maestri ‘diretti’ devo molto a Davide Rondoni, il mio primo. Fuori dall’Italia, sopra tutti, leggo e rileggo Rilke e Celan. Proprio lì, la dannazione e la salvezza nel dialogo coi morti, il dialogo intimo, la comunione coi presenti–assenti.
…e la vita, che a te avviene, leggendo, con rasoiate di gioia alla gola … è solo dolore? Cosa bisogna espiare, cosa occorre aspettare?
Il dolore più grande nasce dalla consapevolezza della colpa, e anche scrivendo mi aggrappo a tutto per sentirmi in qualche modo salvo. L’esperienza della gioia, poi, è anche questo: una rasoiata come dici tu, un fiotto, qualcosa di inaspettato e violento, ma allo stesso tempo completamente affermativo e gratuito. Un fatto di grazia appunto. Non c’è molto di più da espiare, credo, se non l’aver tradito o calpestato chi ci ha dato amore. E quando si cammina sul filo di quel rasoio o sulla tenebra, occorre aspettare che questa gioia dolorosa, paradossale, ci venga in soccorso e non si esaurisca mai. Altrimenti è veramente la fine.
*
L’ultima lettera
Dopo tanto soffrire
troppo vivere
si è addormentata.
Io le ho parlato
come a chi si culla
nella frescura del buio,
ritrovati tutti
e già dimenticati
a dirsi ancora arrivederci,
qualche volta addio.
La ragazza in quella stanza
mi basterebbe ascoltarla
bellissima
poco prima della fine
se potessi rinascere, nuovamente amare
alle soglie del biancore e della neve.
Ti avrò accanto nel nulla
che accompagna e riposa
ma se sbuffa la porta
e finisce l’inverno
qualcos’altro, ti dico, potresti sperare
e se ci fosse luce
tu lo sai
sarebbe bellissimo.
Valentino Fossati
(da “Gli allarmi delle stelle”, CartaCanta, Forlì 2018)