09 Giugno 2018

Questa è l’immagine del nostro tempo: un bambino, nudo e senza occhi, che si rivolge all’immensità della pantera. Da ogni lato, è il regno della solitudine. Ipotesi su Mowgli e sull’artista dissanguato dai sogni

C’è una immagine che mi stordisce ancora, rinchiudendomi nel perpetuo dell’infanzia. Il libro determinante della mia infanzia l’ho rubato nella biblioteca di mio padre ed era tenuto insieme con un nastro adesivo marrone. Si intitola Mowgli ed è una selezione dei Libri della Giungla di Rudyard Kipling. I racconti, ovviamente, sono quelli che hanno per protagonista il piccolo indiano cresciuto tra i lupi, creatura umana ma che conosce l’alfabeto delle bestie. Il libro è ancora con me, ora è nella piccola libreria di mio figlio – che bellamente lo ignora – è del 1957, curato da Alberto Manzi, e ha delle illustrazioni piuttosto banali. Per un bambino cresciuto in un paese cementato nel tedio, in esilio periferico, l’immagine di Mowgli, dieci anni, che afferra con un braccio un cobra e con un coltello gli spalanca le fauci, è come un veleno: sognai l’India, volevo il contatto con la bestia, mi tramortiva la facilità della violenza. A chi conosce I libri della Giungla: l’illustrazione a cui mi riferisco – dozzinale, lo ripeto – adorna uno dei racconti più raffinati di Kipling, L’ankus del re, dove Mowgli, appunto, affronta il temibile “Cobra Bianco”, letale guardiano di un tesoro nascosto. Non ho un giudizio particolare su Rudyard ‘Ruddy’ Kipling, massone, il più giovane Premio Nobel per la letteratura di sempre – fu onorato nel 1907, a 41 anni – maestro nell’arte del racconto (lo dice Jorge Luis Borges). I libri della Giungla hanno fondato la mia infanzia di periferia, gli sono grato. Quel libro selvatico, dove la ferocia è gratuita come la pietà, e ogni parola è tesa fino all’ultimo spasmo – la vita, la morte – evoca un personaggio indimenticabile. Mowgli, appunto. Un po’ Peter Pan, un po’ Alice, un po’ Pinocchio, un po’ Dioniso. Mowgli conosce la parola che addolcisce l’innato sospetto di ogni creatura – ma non sa parlare agli uomini. Preferisce la giungla, che è spietata, alla pelosa compassione degli umani; preferisce la giungla, dove la sfida è diretta, ai sofismi e alle menzogne degli uomini. Le letture psicoanalitiche – la giungla e i ‘mostri’ sono l’antro del sogno, dell’infanzia – non m’importano: Kipling ha scritto un grande libro, mi è sufficiente.

mowgli
L’immagine a cui mi riferisco, “Mowgli and Bagheera”, è del 1909 ed è realizzata da Edward Julius Detmold

Ora. Qualche giorno fa, per caso, trovo questa immagine. Ne resto folgorato. Va bene: è una immagine che raspa nella mia infanzia. Questa immagine, però, ha la prepotenza di un simbolo. Mowgli è nudo, magro, ai piedi del fuoco, sembra un velo di carta. Sembra asessuato, sembra un piccolo dio. Di fianco a lui, enorme, come il gorgo da cui sfocia la notte, la pantera, Bagheera. Mowgli piega il viso verso Bagheera e il dettaglio che mi manda in estasi è che il bambino della giungla non ha gli occhi. L’artista ha deciso di non dipingere gli occhi: come se la pantera fosse il risultato del suo sognare. La pantera, al contrario, tesa come una montagna, ha gli occhi verdi, meravigliosi, che puntano verso un domani. Forse fissa la giungla – forse fissa il villaggio degli uomini. Gli occhi della pantera sembrano quelli di un uomo – sono così pieni di rapida pietà – una pietà che ammette l’uccidere. L’illustrazione è opera di Edward Julius Detmold (1883-1957), tra i grandi artisti inglesi di era vittoriana. Straordinario esecutore di animali, nel 1903 inaugura la sua carriera da illustratore con sedici, memorabili tavole per Il libro della Giungla. Le tavole esulano dal genere ‘illustrazioni per ragazzi’: secondo gli stilemi dell’eleganza liberty, si raffigura la bellezza e l’inquietudine, l’insorgere della bestia dai recessi del proprio cuore, la necessità di vincere l’ordine borghese con l’urlo selvaggio – sono gli anni, questi, in cui cresce il genio di Joseph Conrad. Tra i grandi lavori di Detmond, le illustrazioni per Le Mille e una notte e per le fiabe di Andersen. L’artista che meglio di altri ha immaginato Mowgli – un uomo che consapevolmente sceglie la compagnia delle bestie al cicaleccio umano – si ritira con la sorella nel Montgomeryshire, in Galles, e si uccide, nel 1957, a 73 anni, forse perché i suoi sogni lo stavano dissanguando.

Io non so cosa significhi questa immagine – il bambino nudo, senza occhi, che si volta verso l’immensa pantera, e tutto intorno è il nulla, una prateria aliena, bruna, lavata dalla sabbia – non voglio dargli un significato. Qualcosa mi dice. Raffigura il nostro tempo. Dobbiamo accarezzare la pantera? Dobbiamo abbandonarla? Forse la pantera ci è data per strapparle gli occhi e cucirli sul nostro petto. Forse il fuoco è il prolungamento delle caviglie. Forse quel mondo, bonificato dalla menzogna, va perduto. Su tutto, comunque, è il reame della solitudine. (d.b.)

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