19 Dicembre 2018

Quando Melville amava veleggiare tra i selvaggi (e Carl Schmitt si sentiva un Benito Cereno)

Questa storia comincia nel 1842, quando Melville abbandona la nave ormeggiata al largo di un’isola nell’arcipelago delle Marchesi. Lo fa con un compagno il quale nel giro di poche settimane se ne torna a bordo.

Melville si sente un tombarolo nella Valle dei Templi, ma qui non c’è il Nilo. Solo una foresta vergine e selvaggi che non sono cannibali come li hanno descritti nei loro volumi i viaggiatori prima di Melville.
Sono selvaggi senza urgenza di venerare dio. Le statue degli antichi dèi sono sopraffatte dagli alberi da frutto. Gli abitanti dell’isola, Typee, preferiscono gustare la frutta e dormire. Non elaborano teologie e quelle antiche storie originarie sono cadute nel generale dimenticatoio.

typeeI selvaggi sanno che nell’aldilà dovrebbero esserci donne a volontà, ma preferiscono le loro isolane perché, parafrasa Melville, “a bird in the hand is better than two in the bush”. Il giovane esploratore sente che scriverà quello che gli succede a Typee, apre gli occhi e si tuffa nella realtà assurda dell’isola.

Gli prenderà del tempo mettere su carta quella vita fuori dal mondo: Typee esce nel 1846 e cade fuori dall’orbita di gradimento puritano perché Melville non condanna, non straparla di peccati e insomma sembra uno che sdegna le approvazioni. (Non sarà, sotto sotto, scrupolo delle nuove scuole di scrittura dedicate a Melville tenere a bada come selvaggetti, fuori dai salotti perbenisti, tutti gli scrittori dell’Arcadia italiana?).

Melville si sente un romantico, vorrebbe girare in canoa con le selvagge a busto scoperto, soffre la tentazione splenetica della poesia francese. (Lamartine aveva appena sterminato una generazione con sospiri estatici per le gite sul lago con l’Essere per definizione, la Donna romantica, il dio dei francesi). Però Melville è sangue scozzese. È l’America fuori dai nastri colorati delle profezie in terra bigotta.

Per questo cade nel silenzio. Chi vuole sentire parlare di genio selvaggio a metà Ottocento? Chi è disposto oggi? Chi vuol mettersi in mano un altro romanzo breve di Melville che indispone ed esalta alla gioia insubordinata?

Non serve fare la coda per leggere Benito Cereno, che è del 1855. Eppure servirebbe se, come scrive su queste pagine Fais (anche se lo trovo più a suo agio quando parla alle donne) la destra-non-più-destra è a secco dei sacri numi tradizionali. A dire: se non si legge Heidegger, Jünger, si può ripartire con agio dalle fonti di questi signori. E cioè Carl Schmitt con Terra e mare. Perché Schmitt è sommo scrittore, è tutto malizia, un cattolico puttaniere che dava fastidio alla Germania bigotta degli ariani.

Schmitt ha amato Melville, ha amato Benito Cereno perché si è sentito come il comandante di questa storia di Melville, sconfitto da un’insubordinazione. Dietro le idee c’è lo scrittore, e se la scrittura è magica (come dimostrano Schmitt e Melville) tutto il resto seguirà. Schmitt ha scritto anche tre vangeli. Sono tesi a spiegare cosa significa il politico, non come lavoro ma come nozione. E sono vangeli perché dicono la stessa cosa, con leggere variazioni dettate dal fatto che uno lo scrive nel 1929, l’altro nel ’31 e l’ultimo nell’anno disgraziato 1933.

Tutta la differenza tra Schmitt e Melville sta nel fatto che l’americano poteva mettersi all’occhiello il fiore del poeta e del pensatore ispirato dal dio baleniero, mentre Schmitt la balena diabolica se la trova davanti e prende il nome di un partito politico, indomabile e autodistruttivo. Il Beemoth della Bibbia è la prima manifestazione bestiale della politica tedesca prima che dal nord ci rallegrassero con la moneta comune usata per vincere le nuove guerre, questa maschera di ferro che nasconde il volto mostruoso del sovrano. E chi sarebbe il sovrano tedesco, mi sussurra Melville? È un tuo contemporaneo, Hermann. Si chiama Kaspar Hauser, è un bambino tedesco abbandonato nei boschi e recuperato alla civiltà per un inutile caso. Hauser ha dimostrato come un ragazzo di 22 anni portato in salvo nella civiltà venga osannato a prescindere.

Caro Hermann, Hauser fu portato in alto in modo irrazionale come una moneta magica o un pazzo coi baffetti, e ora non abbiamo più gente che legga di Moravia a passeggio per Roma con Sciascia, a discutere di Hauser e di tedeschi. E ci siamo dimenticati del film di Herzog sul divo fanciullo tedesco Kaspar Hauser?

No, c’è tempo per recuperare.

Andrea Bianchi

Gruppo MAGOG