14 Gennaio 2019

“Quando amo, amo interamente, come un internato”: un progetto letterario di Tomassini & Brullo, “Senza gestire l’ignoto” (seconda puntata)

Tel Aviv, 15 gennaio 1950

Mi guardavo davanti lo specchio dell’armadio bruno che avevo coperto con una tenda di Damasco. Ero appena arrivata. Indossavo un prendisole. Sorridevo forse? Era primavera? Non è mai primavera. Quanti mesi sono passati? Fuori dal campo, dopo te. Praga.

Ho letto di Anna. Ho tirato via la tenda. Mi guardo. Ho tolto i vestiti, riposti sul letto inospitale. Oggi nevica. È una strana neve.

Le donne fuori si agitano convulsamente, corrono da un canto all’altro, guardano in direzione dell’orizzonte. Poi entrano in casa, di corsa, chiudono l’uscio. Tutto è frenetico, ridicolo. Veloce. Adesso rido. Non ci sono piroscafi. Sciocche. Non dovrebbero aspettare un tempo inutile.

Scriverò una storia dedicata al marito di Irina, disperso durante la spedizione, nella foresta, a 15 chilometri da Kirov, la ritirata del ’43. Le foreste e le brume, le nuche imbiancate dei morti. No no. Dove sarà finito? La neve si scioglierà. Lo troveranno. Irina non smette di pregare. Lo troveranno.

La sera le leggerò qualcosa, ad Irina intendo. Qualcosa della storia che scriverò. Lei ci crederà, smetterà di premersi il ventre, piegarsi, urlare oscure giaculatorie. Sederò accanto a lei, nel canapè duro e ruvido dove dorme rincantucciata. È un corpo grondante miseria, la pelle le frana su un ricordo vago di fulgore e morbidezza.

Ho letto di Anna. Ho pensato alle tue mani: stringono le sue? Lei è bella, hai detto. Cioè hai detto che detiene la bellezza dei folli.

Il tempo mi investe, non ho nulla addosso. Nulla. Tu non mi vedrai. Non sono bella. Sono sciupata. Una giumenta senza grembo. Il mio biancore è una provocazione esanime. Non ho memoria. Non toccarla. Non dimenticarmi. Copro i miei seni.

Dove sono finita? Come accoglierti ancora?

Non so. Di colpo, non ho memoria. Riesco a ridere con le altre, quando qualcuna punge il polpastrello nell’imbastitura della stoffa e impreca in una lingua confusa. Bulgaro? Ceco? Polacco?

Siamo salve. E ridiamo. E di colpo zittisco. Di colpo tace la vita. Mi investe il tempo, una mannaia che non fende, vorrei soggiacervi. È un golem. Creatura mostruosa, l’anima rubata dal rabbino. La mia indomita non la riconosco. Accendo le candele, un venerdì, fuori il buio non mi raggiunge. La mia anima indomita era il vanto e la resistenza. Quel venerdì ho realizzato di averla ceduta. L’anima al rabbino. Prima del ’41. Le fanfare. La squadriglia di fantocci ossuti, le righe che si infilano in tramati di delirio fissi nell’iride vitrea di un senza nome, la iuta, le grida. Wstawać.

È entrata Magoska, mi ha sorpresa davanti lo specchio, nuda, gelata. Piangi. Sì, Magoska, piango. Mi ha messo su il cappottino che avevo gettato sul letto. Non lo avevo piegato. La gonna e la maglia sì, piegate bene, sul guanciale. Una sopra l’altra. Con il cappotto sulle spalle sono uscita fuori, in cortile. Ero scalza. Magda mi corre dietro. Io cerco te. Sono divorata da te, dalle tue parole, sono divorata. Le tue mani.

Cosa farmene di questo vuoto, lo sciacallo che morde le mie viscere, non teme la mia pazienza.

Nevica. Non è mai successo da quando son qui. Oh la neve. Sono in ginocchio, i capelli sono umidi, serpi sulla mia schiena. Non li lego. Non voglio. Magda mi aiuta ad alzarmi. Coraggio. Io piango ancora.

Dovresti ripetermi adesso il tuo nome. Finire il tuo lavoro. Avere tutto di me. Prendere tutto di me. Non lasciare altro. Nulla. Non avere pietà.
Andiamo, dice Magda. Mi prende la mano. Entriamo. Mi veste come farebbe con una bambina. Sono seduta sul letto, mi veste con gli abiti della notte. Non so che ore siano. Chiude la porta. Accende la radiolina.

***

Zwycięstwo, 30 gennaio 1950

Quando ti avrò raggiunta, non esisterò più, sarò piccolo come un ago, sottile come una corda, potrai inchiodarmi al muro, potrai spezzarmi, potrai legare i tuoi vestiti, usandomi come un nastro, come un laccio, potrai ucciderti.

Ho visto la tua nudità – senza di me non sei nuda davvero, solo io ho competenza sul tuo biancore – mi chiamo Nathan, che significa donato, sono un dono, un dono definitivo, per te. Ma devo donarmi a te come una cosa nuova, inaudita. Una settimana fa ho lasciato mia moglie – l’ho lasciata con una lascivia perentoria – ho ammirato il suo pianto, in cucina, così cristallino, mi sorprende sempre che qualcuno possa amarmi fino a scavare il suo corpo – il corpo è cera e le lacrime lo lacerano come fiamme dispari –, ed era mia, capisci, qualcosa che con indifferenza avrei potuto modellare per un altro, per un’altra vita. Ciò che mi irritava, in quell’istante, mentre la luce, sulle finestre, sembrava un prato, piuttosto, era che una ragazza, si chiama Vera, se non sbaglio, come te, ha scritto di non volermi più vedere, con mortificante spavalderia. Ho sposato mia moglie perché era primo violino al Conservatorio di Parigi, poi ha cominciato a dare lezioni private, a Praga, fornendo materia carnale alle mie seduzioni. Quando amo, amo interamente, come un internato, e non ammetto clausole, non cedo all’abbandono. Non mi ha piegato neppure il pianto – a comando – di mia figlia, Rebecca. Le ho detto, così sarò indimenticabile, la causa del tuo tormento, d’altronde una donna non cerca che una causa eccellente per lamentarsi lungo le ambiguità della vita.

Scappa da me. Per essere nuovo, un dono, devi perdonarmi, continuamente. Giustificazione – così dice il mio amico Peter, luterano, che ha un negozio di coltelli vicino alla sinagoga. C’è affinità nell’esercizio di limare le lame e nel giudicare, penso, la stessa che c’è tra la parola ‘decalogo’ e ‘dissanguare’ – in ogni caso, Vera, sei tu la causa della mia rovina. Bisogna perdersi, morire, capitolare, sentirsi soli al mondo, per conoscere l’amore. Tu sei giunta come uno schianto – ho trame di te sotto le unghie della mano sinistra – poi sei scappata – ti inseguo, per finirmi. Giustificazione vuol dire che i nostri gesti sono un fallimento, sbilanciano il creato, sono colpi di zappa nella gola di Dio, recano agnelli alla sua vittoria – l’uomo si massacra perché Dio lo premi.

Piuttosto, è insopportabile il refluo dei pianti, una piantagione di accuse e di ricatti… incaricarsi di un uomo è più difficile che interpretare i sensi sovrapposti, intrepidi di un versetto biblico. Tu racconti storie alle infelici, per educare alla perdita, per rammendare il rammarico – io lacero la storia, non è strano? Quando mi vedrai, sarai tu a raccontarmi, a dirmi chi sono. Ma cosa te ne farai di un uomo senza destino? La notte scorsa, per puro agonismo – non te l’ho detto: non amo le cose inconcluse, le forme imperfette, ciò che non ha risposta in un aldilà del credo – sono andato a casa di quella ragazza, Vera, avrà vent’anni, è una ventata di gioia, di gioviale stupidità. C’era la madre – la fortuna le è stata benevola, penso, guardando la casa, in una via centrale di Praga, con superdotate ricchezze, un lusso barbaro. Il marito ha una industria tessile, durante la guerra si è piegato a tessere le divise dei soldati tedeschi – il vizio è stato redditizio, la viltà lo ha scagionato. Le ho parlato convincendola che non sono un mondano, mi sono fatto offrire la mano, l’ho letta, mescolando arguzia, astrologia, superstizione. Ha sorriso. E ha gradito il resto.

Devo sporcarmi perché tu mi scopra, Vera.

*

Di notte

Ti scrivo dal confine polacco, da Zwycięstwo, che significa “Vittoria”, è uno dei tanti, piccoli villaggi costruiti dai soldati russi come una pattuglia, dopo la guerra. I soldati hanno deciso di fermarsi qui – per ordine del cuore o del partito?, è lo stesso – tra campi di scalmanati papaveri, dove l’odore del bosco ha vigore di gas. I russi si sono uniti alle vedove dei militari polacchi, hanno figliato, producendo una generazione nata dalla vigliaccheria. Mi piace questo luogo perché qui il tradimento diventa vita, la tratta della codardia, perché qui la rottura dei patti nuziali sancisce legami sotterranei, vili, ma letali: penso che l’amore possa stabilirsi soltanto tra uomini che abbiano vissuto molte vite, stagionate, almeno sei.

Nella piazza di Zwycięstwo, totalmente ricostruita, c’è il negozio di Bruno, uno scaltro antiquario. Mi ospita nel magazzino del negozio – gli ho comprato una carta celeste stampata nel 1727 a Parigi. Non è particolarmente pregiata, è particolare chi l’ha posseduta. La mappa è stata acquistata nel marzo del 1751 da Giuseppe Maria Buonaparte, il nonno di Napoleone, poi è passata al futuro imperatore. Napoleone amava studiare le stelle, ha conquistato la terra sperando di aggiogare i cieli, si muoveva, dicono i suoi consiglieri, seguendo i moti della Lince, la costellazione che sentiva propria: “oggi cavalco la Lince”, urlava, prima di inaugurare battaglia. La debolezza di un re che tempra la propria fragilità misurandosi con le stelle, inguainato di sogni celesti, inguaiato tra le sottane dei potenti, mi affascina. Dicono che Napoleone portasse sempre con sé la carta celeste ereditata dal nonno: per questo la voglio. Bruno mi ha fatto un buon prezzo – in questo tratto d’Europa si è ricchi con poco – potrò rivendere la carta decuplicando la cifra – poi verrò da te, con occhi svuotati dalla luce. Bruno è polacco, ha cinquant’anni, e con viziata gioia mi mostra la moglie, ne avrà diciotto, penso, è incinta, “l’esito delle mie contrattazioni con i russi”, mi dice, ammiccando a qualcosa che ignoro. Capisco che è disposto a offrirmela – viso tondo, capelli da bambola, la mistificazione dell’innocenza – ma l’ho rifiutata. Eppure… tu devi sapere che svendo, sempre, ciò che amo fino all’atrocità. Ciò che tocco si disfa, Vera, ciò che adoro matura in disastro, sono l’uomo che porta dolore ovunque.

Questa notte ho inghiottito una delle mie tigri di vetro – piccola, come l’unghia del mignolo – è una tigre azzurra – i cinesi dicono che appare una volta sola nell’arco di un secolo, entra nella stanza dell’imperatore, se ne nutre. La tigre azzurra appare per sconvolgere la Storia, per deviarne i cardini e i capi: l’ho inghiottita per capovolgere Israele, per ridurlo a un bicchiere, per berti. Dicono che la tigre azzurra sappia prendere la forma della sua preda. Ora mi sentirai addosso, Vera – ti stringo come la paura, come il virus che corrode, con amata lentezza, il tuo corpo.

Scrivimi, perché le tue parole misurano la tattica del mio destino.

Nathan

** “Senza gestire l’ignoto” è un progetto letterario di Veronica Tomassini e di Davide Brullo

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