
“Siamo intraducibili”. Inseguire Guido Morselli in Georgia
Letterature
Linda Terziroli
Chiunque creda di poter vendere verità rivelate in poesia è un pazzo, o un esaltato. Questo non significa certo che non si debba avere un’opinione e difenderla. Data la delicatezza della materia, però, ci vogliono molto tatto e rigore. Più in generale, l’importante è essere seri, ma possibilmente non prendersi troppo sul serio. La verità – se di verità si può parlare in questo campo – è data dalla somma di tante visioni idiosincratiche avanzate dai diversi addetti ai lavori, ovvero gente che comunque ha dedicato la propria vita alla materia poetica. Come Giuseppe Cerbino, direttore di collana per la giovane casa editrice Controluna. Di formazione filosofica, giustamente approdato alla poesia – che non per niente è la culla e il primo mezzo espressivo del pensiero filosofico –, Cerbino vanta un’attività di curatore e prefatore di tutto riguardo, assolutamente priva di cadute o lubriche esaltazioni prezzolate di autori insignificanti. Ed è proprio in ragione di questa sua perseveranza lavorativa, silenziosa e accurata, che abbiamo deciso di intervistarlo. Perché sarà anche vero quanto dice lui che la sua opinione “vale il tempo di un respiro”, ma è la somma di tanti respiri come il suo a tenere in vita il discorso poetico in questo tempo in cui a molti piacerebbe soffocarlo per levarsi, una volta per tutte, il problema da mezzo ai piedi.
Giuseppe, come nasce la tua passione per la poesia?
La mia passione per la poesia nasce all’età di 13 anni. Oggi ne ho 44, quindi fai tu i conti. Naturalmente è bene che ti precisi che per passione, in questo caso, intendo soprattutto quella per la lettura della poesia. Pur scrivendo io stesso versi, non provo lo stesso piacere che traggo, invece, dalla lettura dei poeti. Ritengo, infatti, che la parola più potente sia quella che riceviamo dagli altri e non c’è luogo che l’alterità possa privilegiare come appunto la poesia. Nella scrittura il rischio di narcisismo ci stuzzica dietro le orecchie ma, davanti agli occhi, durante la lettura, si apre sempre una terra inaspettata dove l’io difficilmente potrà abitare davvero ma semmai potrà esserne sedotto. Ed è questa seduzione, a mio avviso, che funge da ago magnetizzato che orienta anche le nostre parole. Quindi, prima di essere poeti, occorre sempre cercare di essere dei buoni lettori di poesia. Se saremo in grado di essere buoni poeti, non potremo mai capirlo da soli; ma se saremo buoni lettori, invece, lo capiremo dalle risonanze che otteniamo (o che non otteniamo). Quello della poesia è un percorso di lettura molto complesso che chiede una maggiore verticalità al lettore. Quest’ultimo deve fare i conti con un campo complesso di cose che spesso vengono relegate in uno spazio sempre più ristretto dell’esistenza, come fosse qualcosa di accessorio e non necessario. Ciò è favorito, paradossalmente, persino dalle istituzioni culturali che dovrebbero diffondere la poesia. Basti fare caso a molti eventi e concorsi che invece di sostenere la poesia, con i giusti approcci, la sviliscono e la mortificano per favorire obiettivi che spesso di poetico non hanno nulla.
Quali sono i migliori autori sulla scena italiana, al momento, dal tuo punto di vista e perché?
Tu capisci bene che questa è una domanda profondamente insidiosa, oltre che sibillina, poiché è davvero difficile dare una risposta che possa essere netta e sicura nonché condivisa. Ciò per svariati motivi. Te ne elenco alcuni, poi cercherò comunque di farti qualche nome come desideri. Prima di tutto, il mondo letterario nazionale, negli ultimi quindici anni, sembra essere imploso in sé stesso, smarrito in tendenze spesso frivole e inconsistenti, come quella di parlarsi troppo addosso e di essere eccessivamente autoreferenziale. Così facendo, si è reso incapace di dare un’indicazione precisa circa gli autori che siano depositari di nuovi canoni e nuove prospettive. Manca nella poesia di oggi, a mio avviso, uno sguardo “metafisico”. Con questo termine non intendo qualcosa che alluda a questioni strettamente filosofiche, ma piuttosto a uno sguardo che intercetti davvero il senso profondo di quanto stiamo vivendo negli ultimi anni. A ciò aggiungi il ruolo di internet che ha dato la stura a tendenze esibizionistiche di facitori di versi, spesso anche molto attrezzati formalmente, ma dipendenti da manierismi che non vanno oltre il mero esercizio di stile. Quindi, da quanto detto, comprendi quanto sia difficile identificare degli autori del momento che possano dirsi davvero rappresentativi. Certamente ci sono esordienti dotati e promettenti, come coloro che sto curando per Controluna editore, ma per amore di onestà non ho l’autorevolezza necessaria per darti una indicazione in tal senso. Detto questo, tuttavia, non mi sottraggo alla domanda, anche se sarebbe più agevole non rispondere, dati i presupposti che ti ho sommariamente esposto, ma, così facendo, passerei per un disfattista. Identifico due autori non consolidati da lungo tempo, nati tra la fine dei ’50 e gli inizi dei ’60, che si sono espressi pienamente negli ultimi quindici anni.
Il primo nome che mi sento di indicarti è quello di Michele Caccamo, poeta che non si immette nella prospettiva di una innovazione deliberata, ma abita la parola nei suoi accostamenti più inconsueti e più propri, più naturali. Caccamo fa della sua poesia il luogo di un autentico esilio, di un diaframma di sofferenze, e lo fa con una totale naturalezza che non trovo in altri poeti della sua generazione, pur dotati e ancorché affermati – penso, ad esempio, a Valerio Magrelli. Un’altra voce, a mio parere centrale per la lirica degli ultimi anni, è quella di Franco Arminio che propone una poesia di denuncia davvero autentica. Una poesia che parla di ciò che stiamo perdendo nell’incedere del nostro tempo fatto di devastazioni industriali. Intendiamoci: Arminio non è il solo a fare questo tipo di operazione ma, a differenza di tanti altri poeti a lui “omologhi”, lo fa rimanendo dentro il linguaggio della poesia e non dentro quello di una prosa frusta e approssimativa di poeti che per farsi capire cadono sempre nel retorico. Ci sarebbero altri da prendere in considerazione, ma temo però di far prevalere la mia opinione personale che vale il tempo di un respiro. Con questi due nomi, invece, ho tentato di intercettare, nei limiti della mia conoscenza e della mia sensibilità, due poli fondamentali per la poesia di oggi: la ricerca dello “spirituale” e il tentativo di parlare della perdita di un rapporto originario. Poli che a ben vedere delineano quanto di più contingente ci possa essere ai giorni nostri. Non c’è nulla di più attuale, infatti, di ciò che manca e non di ciò che accade. Altrimenti, non varrebbe nemmeno la pena fare poesia.
Mi piacerebbe sentirti parlare della tua attività all’interno di Controluna. Nello specifico: come selezioni un autore, il tipo di lavoro che fate insieme sul testo, e il tuo contributo come prefatore.
Come sai, il termine “poesia” racchiude un “fare” più che un dire. O meglio, un dire che deve essere riconosciuto come un “fare”. Quando il poeta dice, fa, crea. In un tempo in cui siamo abituati a dire e a lasciarci indicare come debbano essere fatte le cose piuttosto che “farle”, l’attenzione alla poesia e ai nuovi poeti diventa quasi necessaria foss’anche per due sole persone che leggono versi. La poesia non è democratica. Essa chiama i singoli – lettori e scrittori – affinché si coscientizzino della loro singolarità. Tutto questo per dirti che, nonostante io non pensi che nascerà un nuovo Dante o un nuovo Ungaretti, ritengo fondamentale diffondere, curare e valorizzare la buona poesia. Che cosa intendo per buona poesia? Intendo una scrittura che apra eventi e generi ad accostamenti semantici inediti. Questo non vuol dire che il poeta debba essere giocoforza “originale”. Penso che il concetto di “originalità” sia il più vecchio tra quelli di cui oggi soffre la poesia e la scrittura in generale. A furia di cercare di essere nuovi si rischia di diventare frusti, ampollosi, cerebrali. Osservo in molti poeti della nuova generazione un lavoro sulla parola anche piuttosto raffinato. Mancano però i contenuti, le esperienze. Preferisco un linguaggio vecchio, con contenuti di spessore, profondi, piuttosto che linguaggi nuovi che poi alla fine dicono le stesse cose, gli stessi disagi. In ragione di ciò, la selezione degli autori per Controluna segue questi parametri che ti ho accennato. Non sono mai lungimirante, non faccio pronostici sul futuro di un poeta. Il critico, a mio avviso, deve avere lo sguardo corto e fare attenzione all’oggi. Per il domani non siamo in grado di poter vaticinare alcunché, perché il futuro della poesia e della letteratura in genere è instabile. Per cui, custodiamo quello che la poesia è in grado di poter dire ancora nel presente, perché è al presente che un buon poeta deve poter parlare. Il lavoro sul testo è un lavoro di sinergia e d’intesa con l’autore, ma non sempre quest’ultimo, nel suo fiat creativo, è in grado di intercettare il filo rosso, il leit motiv che sta alla base di una silloge, affinché questa non risulti soltanto una collettanea di testi. Molto spesso l’intervento del curatore è sottovalutato e passa in secondo piano. Invece, è proprio questo lavoro che dà coerenza alla silloge e contribuisce alla riuscita di quest’ultima. A tal proposito, mi viene in mente una frase che Claudio Magris disse allo scrittore I. B. Singer, premio Nobel per la letteratura: “lei la deve smettere di scrivere romanzi, ma si deve dedicare ai racconti lunghi in cui eccelle: lei è certamente un genio, ma io sono più intelligente di lei”. È un aneddoto divertente e simpatico che però offre un quadro preciso sul ruolo del curatore e su figure simili. La prefazione a un libro, a mio avviso, non deve essere un testo accessorio che spesso non si legge, ma un percorso di analisi che entra in simbiosi con l’autore. Un’analisi che valorizzi significati e aspetti che operano nel lettore, ma che questo non sempre è in grado di riconoscere. Una buona prefazione deve essere parte integrante del libro.
Tu, caro Giuseppe, sei anche il fondatore e l’amministratore di Poeti italiani del ’900 e contemporanei, un gruppo Facebook in cui tratti di voci note della poesia italiana attuale e non e dove gli utenti possono postare le loro composizioni sottoponendosi al giudizio degli altri frequentatori della pagina. Tra i tanti gruppi presenti nel noto social, il tuo è uno dei più attivi. Volevo chiederti come mai hai sentito la necessità di creare un simile spazio e se in qualche modo questo ti serva anche, da curatore di collana, per trovare poeti potenzialmente interessanti da pubblicare?
Poeti italiani del ’900 e contemporanei è uno dei gruppi più attivi non certo per mio merito. La comunità – se così si può chiamare – si è definita da sé nel corso di tre anni, raggiungendo esiti inaspettati con connotazioni che non prevedevo. Il gruppo è nato dall’esigenza di avere su Facebook un luogo in cui si trattasse veramente di poesia, senza precisi obiettivi. Nell’estate del 2015 mi resi conto che i pochi gruppi di poesia presenti sul noto social, erano indirizzati prevalentemente alla tecnica poetica e non all’educazione alla lettura. Il fine che mi proposi inizialmente fu quello di diffondere e far conoscere il patrimonio poetico a noi più vicino. Naturalmente, i miei interventi sono stimoli a un approfondimento, poiché in un gruppo non è immaginabile proporre note critiche ricche e articolate. Al gruppo si interfacciano una pagina Facebook e il mio blog, Il volo di Esterina, che raccoglie articoli e approfondimenti più completi. Oggi, Poeti italiani del ’900 e contemporanei si configura come una vetrina per tutti coloro che desiderano condividere i propri versi sapendo, ovviamente, di esporsi anche a giudizi negativi. Ma non si propone come un laboratorio. Questo obiettivo non mi interessa e non ritengo di avere alcuna formazione per dare orientamenti precisi. Va da sé, il rischio di un gruppo così eterogeneo è quello di non riuscire a individuare autori davvero validi, ma io confido nell’intelligenza del lettore autentico che non si fa soggiogare da facili seduzioni. Il sentimentalismo è sempre in agguato e affascina solo chi non è attrezzato alla lettura della poesia. Debbo dire che con il tempo, all’interno di questo gruppo, sono maturati scrittori di versi piuttosto notevoli e, certamente, non posso mentire sul fatto che, oggi, questo spazio funge anche da vivaio per selezionare autori da inserire nella collana di Controluna.
Domanda particolarmente delicata, a cui ti chiederei però di non sottrarti: tra gli autori che hai pubblicato, qual è quello a cui sei maggiormente legato? Mi piacerebbe, ovviamente, che esponessi gli aspetti della sua lirica che ti portano ad avere questa particolare predilezione.
Non mi sottraggo alla domanda, ma concedimi di fare le opportune precisazioni. Io non posso dire di avere predilezioni specifiche, perché finora ho scelto ogni autore sulla base di una cifra distintiva per ciascuno. Se non fosse così, non avrei curato nessuno. Io non faccio prevalere il mio punto di vista, che conta davvero poco, ma faccio prevalere l’oggetto poesia che mi parla mio malgrado. È da questo cambiamento di prospettiva che scorgo qualcosa che può dare sottolineature particolari. Detto questo, come ho già anticipato, non mi sottraggo alla domanda. Il poeta a cui sono maggiormente legato è, certamente, quello che ha inaugurato la collana da me diretta. Sto parlando di Beatrice Orsini. La sua è una poesia completa: apre un campo semantico tipico di un talento certamente istintivo – naturale –, senza però trascurare delle fonti vitali, come ad esempio la poesia di alcuni autori nevralgici per la sua formazione, e la psicanalisi che attraversa con rigore la dimensione esistenziale di questa poetessa. Orsini soggiorna con disinvoltura nella materia simbolica del parlato, rendendo esplicito quel percorso per il quale a parlare è, lacanianamente, sempre un altro. E, quando è un altro che parla, non sappiamo mai che esito potrà ottenere la parola senza il nostro controllo. La poesia deve poter fare questo sempre. È un’antica lezione che parte da Dante. Mi rendo conto che le sintesi sono sempre pericolose, ma in fondo che cosa è l’inferno de La Divina Commedia, se non il luogo in cui si abbandonano le proprie difese per entrare in un altro ostile eppure ricco di cambiamenti e torsioni dello sguardo? Ecco, la poesia di Beatrice Orsini recupera brillantemente questa prospettiva e non l’abbandona nonostante i cambiamenti formali. “Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,/ tant’ era pien di sonno a quel punto/ che la verace via abbandonai”.
Matteo Fais