25 Maggio 2018

Premio Campiello: è andata come doveva andare (eppure 5mila euro mi facevano comodo). Ovvero: teorie alate intorno al testamento di Philip Roth

Perché scrivi?

Per creare sudditi. Perché il resto dell’umanità, al mio apparire, s’inginocchi biascicando qualche frase dei miei libri, passata a memoria. Perché i miei libri sostituiscano i libri sacri al resto dell’umanità. Perché le mie parole, taumaturgiche, incendino ogni parola che mi precede – ogni parola che verrà. Perché è da lì, da quei libri, unico residuo a memoria che l’uomo è stato, che i marziani ricostruiranno la storia del pianeta – che i sopravvissuti compileranno un nuovo alfabeto. Si scrive, pure, perché l’uomo riconverta il linguaggio nella sua spina dorsale, riconoscendo che tra lucertola e albero, tra serpe e dio differenza non c’è. Insomma: si comincia a scrivere per scrivere le parole ultime.

Chiaro questo, l’evento del Premio Campiello – e di qualsiasi altro bazar di premi – è una variopinta minchiata. Eppure. Poiché si scrive, anche, per uccidere tutti i propri contemporanei, per mozzare la lingua e i polsi agli altri scrittori, essere in esilio dalla ‘cinquina’ per la seconda volta – la prima era nel 2014, dalla mia parte c’era Monica Guerritore – mi infiamma il fegato. Perdonatemi. Tra poco continuerò a fare ciò che so fare: scrivere e imitare il verso del colombo. Già. Con le mani so scrivere. Se incrocio le mani, costruendo una cassa armonica, so imitare il verso dei colombi. Perfettamente. Mi intendo meglio con gli uccelli che abitano il pino marittimo di fronte a casa che con i frontman delle grandi case editrici. Intelligenti, ben vestiti, bene inquadrati, bene in vista, i giurati del Campiello, storico alloro italico promosso da Confindustria Veneto, hanno messo sul trono della ‘cinquina’ – che per un poveraccio come me significa bei soldini: Articolo 11 del Regolamento del concorso: “Ad ognuna delle cinque opere prescelte viene attribuito un premio in denaro del valore di cinquemila euro”, chissà perché, mi domando, il 5 reiterato, il numero delle dita di una mano, il simbolo dell’‘uomo universale’, forse in Confindustria alligna un cabalista – questi: “La ragazza con la Leica” Helena Janeczek (Guanda Editore); “La galassia dei dementi” Ermanno Cavazzoni (La Nave di Teseo); “Mio padre la rivoluzione” Davide Orecchio (minimum fax); “Le vite potenziali” Francesco Targhetta (Libri Mondadori); “Le assaggiatrici” Rosella Postorino (Feltrinelli). Brava gente, non ne conosco nessuno, vinca il migliore, avrei voluto vincere io, ovviamente, sono abituato all’agonismo agnostico: se corri i cento metri piani è per arrivare primo, mica ultimo.

Poi penso a due cose. La prima è che il Premio Campiello – che solletica il mio imbarazzante narcisismo, proprio di chi continua a recitare la parte del monaco in delirio desiderando essere il papa, il padrone della Chiesa – ha premiato dei bei libri. Il male oscuro di Giuseppe Berto, ad esempio, e Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino. Ha anche premiato tanti libri brutti – e tanti libri di scrittori che abbiamo brutalmente dimenticato. Il premio, per sua natura, non garantisce la durata e l’autenticità di un’opera: offre soldi e alimenta le vendite del libro.

La seconda cosa a cui penso è Philip Roth. Il testamento di Philip Roth è la sua rinuncia, denunciata, alla scrittura, nel 2012. Le sue parole sono interessanti. Eccole:

Quando ho superato i 74, ho capito che non avevo molto tempo, così ho deciso di rileggere i romanzi che amavo quando avevo venti o trent’anni. Dostoevskij, Turgenev, Conrad, Hemingway… quando ho finito, ho deciso di rileggere tutti i miei libri, partendo dall’ultimo, da “Nemesi”. Ho letto fino a quando mi hanno stancato, un attimo prima del “Lamento di Portnoy”, che è un libro imperfetto. Volevo capire se ho sprecato il mio tempo scrivendo. Ho deciso che ho fatto bene. Alla fine della sua vita Joe Louis, il pugile, ha detto: “Ho fatto il meglio che ho potuto con ciò che avevo”. Esattamente quello che posso dire del mio lavoro. Ho fatto il meglio che ho potuto con ciò che avevo.

Infine, ho deciso di finirla con il romanzo. Non voglio più leggere né scrivere né parlare di romanzo. Ho dato la mia vita al romanzo. L’ho studiato e insegnato, l’ho scritto e l’ho letto. Ho escluso ogni altra cosa. Ora basta. Non sento più quel fanatismo verso la scrittura che ho sentito per il resto della mia vita. L’idea di tentare di scrivere ancora è impossibile per me!

Scrivere significa sbagliare. Tutte le bozze raccontano la storia dei tuoi fallimenti. Non ho più l’energia della frustrazione, né la forza di confrontarmi con me stesso. Perché scrivere è essere frustrati. Spendi il tuo tempo scrivendo la parola sbagliata, la frase sbagliata, la storia sbagliata. Ti inganni continuamente e continuamente fallisci, vivi in uno stato di perenne frustrazione. Passi il tempo a dirti, Fa schifo, fai altro, ricomincia. E ricominci. Sono stanco di quel lavoro. Sono in un altro stadio della mia vita. E non sono afflitto dalla malinconia.

La storia della letteratura è costellata da cangianti rinunce. Rimbaud smette di scrivere, per sempre, dopo aver smobilitato, per sempre, la poesia francese, a vent’anni. Nikolaj Gogol’, preso da manie religiose, nel 1852, rinuncia al suo capolavoro bruciando la seconda parte de Le anime morte, il più grande libro – presunto – sacrificato alla letteratura. La rinuncia, per uno scrittore, non è remissione: rilancia la propria opera, la consegna alla dimensione del mito. Ci sono scrittori – il caso più recente ed eclatante è quello del poeta argentino César Mermet – che hanno rinunciato a pubblicare, in vita. Altri, al contrario, non avrebbero rinunciato per nulla al mondo alla fama che mai si è fermata a baciarli. Ad ogni modo, la scrittura pretende esclusività – esclude da tutto il resto, soprattutto da una vita affettivamente sana e da amori salutari – è cannibale.

Lo scrittore, in fondo, vive nella rinuncia. Rinuncia alla propria vita per creare altra vita – rinuncia a impiegare il tempo in modo ‘utile’, utilitaristico. Si getta nella scrittura, cioè nell’ambiguo e nell’indefinito. Magari morirà senza aver ‘messo a frutto’ la sua fatica. Cosa importa? Non c’è altro frutto oltre al verbo; la natura della scrittura è essere disseminata, nel caso, nel mercimonio del caos, mica tra le gole del ‘mercato’. Sintesi: a forza di dire che è ‘del cambiamento’, non bisogna aver letto Freud, abbiamo la certezza che il prossimo sarà un Governo ‘della restaurazione’. I premi letterari, tranquilli, quelli sanciscono il già noto, sono una inchiavata sicurezza. Sarà più bello, al prossimo libro, farli esplodere. (d.b.)

 

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