10 Gennaio 2019

“Poiché non sappiamo quando moriremo, crediamo che la vita sia un pozzo inesauribile”: l’epopea de “Il tè nel deserto” – libro & film – una storia d’amore ulcerata dall’ossessione e dal tradimento

C’è un attimo, sconfinato, che separa il libro dal suo film. Quell’attimo in cui qualcuno – a questo punto, Bernardo Bertolucci, da poco scomparso – prende la strana decisione di tradurre le parole in fila di un romanzo, svolgerle, con cura e dedizione, nel grembo di una pellicola cinematografica. Per chi viene dopo è curiosa meraviglia, il gioco morboso di trovare la corrispondenza e setacciare le infedeltà. Ora, se pronuncio le parole Il tè nel desertoThe Sheltering Sky, il primo e il più celebre romanzo di Paul Bowles, nato a New York nel 1910, trasferitosi dal ’49 in Marocco – a molti verrà in mente un gioco, non tutto femminile, di seduzione e di sguardi, il mistero senza tempo del deserto del Sahara, una mosca che vola sul corpo che soccombe al tifo di John Malkovich, il vento che precipita dentro la finestra di una squallida stanza spoglia, un taxi vuoto, una musica orientale che si fa accecante e ossessiva. La colonna sonora di Ryūichi Sakamoto. L’oscurità che consuma il corpo, l’odore della brutalità e l’amore troppo consumato, tra un uomo e una donna, che si sfalda. La passione, insensata, che brucia una donna che scopre la sua sessualità, ferinamente. Un uomo che tradisce la moglie, ma a cui non sfugge – nonostante l’ebbrezza dell’eros che affiora dalle turgide carni di una ragazza esotica – che gli hanno bellamente rubato il portafoglio. Eppure, c’è stato un attimo in cui queste parole erano solo inchiostro sulle pagine stampate di un bellissimo libro (Garzanti, ora Feltrinelli) e il film non era che un’idea.

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“Bernardo Bertolucci mi telefonava, veniva sul mio terrazzo a Sabaudia e, guardando l’acqua stagnante, mi raccontava le dune del deserto. Mi parlava di due persone che si amano, ma che non riescono a trasmettersi amore”. La voce che ricorda quell’attimo immenso, l’idea che prende fuoco prima del suo compimento, è quella composta e pacata di Vittorio Storaro, nel suo maglione rosso fuoco, tre volte premio Oscar per la fotografia, mentre, a margine del film Il tè nel deserto, confessa che non se la sentiva di fare questo film. Paradossalmente rimaneva freddo, fino a quando non ha iniziato a leggere il libro di Paul Bowles e la seduzione è diventata irresistibile. Ha rivolto lo sguardo ai due protagonisti, la scrittrice Kit, Debra Winger, e il compositore Port Moresby, John Malkovich, gli agiati coniugi americani, newyorkesi, sposati da molti anni ma in crisi di coppia e a caccia d’ispirazione. Insieme a loro, un amico, George Tunner, più giovane, “sorprendentemente bello, di una bellezza da divo cinematografico”.

I tre partono da Tangeri per un viaggio nel deserto più selvaggio, nel cuore irrazionale dell’anima berbera e, mentre vagano alla ricerca di uno spettro d’amore, cadono nella trappola del destino. Affondando senza via di scampo. “Stiamo per affondare in un enorme letto con le lenzuola tutte ammonticchiate” si legge all’inizio del romanzo Il tè nel deserto di Bowles. Port, nonostante la moglie, racconta il sogno che ha fatto: un treno in corsa che aumenta la velocità mentre lui si afferra agli incisivi e li spezza come fossero di gesso. Con i denti tra le mani, singhiozza, è squassato come un terremoto. La moglie Kit, avvilita – non voleva ascoltare il racconto del sogno – piange. I tre giovani americani sono stati vomitati da un piccolo mercantile, su un molo infuocato del nord Africa. Al tavolino, conversano “tranquillamente, col fare di chi ha davanti a sé tutto il tempo del mondo, per qualsiasi cosa”. Port, magro dall’espressione ironica, fanatica, srotola, studiando, le mappe geografiche, mentre la moglie, “piccola, con i capelli biondi e la carnagione olivastra, si salvava dal sembrare un bel cosino per l’intensità dello sguardo. Una volta visti gli occhi, era come se il resto del volto diventasse sempre più vago, e quando si tentava in seguito, di richiamare la sua immagine, restava soltanto la penetrante, inquisitiva aggressività di quei grandi occhi”.

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bertolucci bowles
Bernardo Bertolucci insieme a Paul Bowles

Bertolucci, agli occhi di Storaro, era un fratello maggiore, una guida spirituale. E Storaro ha visto il viaggio di Port e Kit come il tragitto del sole e della luna, il maschile e il femminile. La moglie Kit doveva, a suo modo di vedere, indossare i colori freddi, Port i colori caldi. Il sole e la luna, che non si incontrano nello stesso raggio. Due viaggi verso la perdizione, inconciliabili. Storaro svela che solo un timore albeggiava in loro: il confronto con Lawrence d’Arabia, del 1962, il kolossal di David Lean, una competizione perduta in partenza. Storaro, che conosceva bene Bertolucci, non ha esitato a dire che Bernardo si immedesimava in Port e vedeva la moglie in Kit. Il gioco di luci, dei colori freddi e caldi, ritorna sul treno quando Kit è in viaggio con Tunner. Ma Bertolucci aveva voluto tagliare, nel montaggio definitivo a cura di Gabriella Cristiani, la scena del treno, quando Kit percorre il treno alla ricerca di se stessa, all’interno del vagone, dove “c’è l’anima berbera”, quel “perdersi in un mondo che avrebbe poi incontrato”.

Quello che manca nel film, secondo Storaro, è dunque la profondità della ricerca di Kit, dopo la morte di Port, la violenza, e, con la violenza, “la scoperta della propria esistenza come donna”, una donna che scopre la potenza della propria sessualità, dopo aver abbandonato i propri freni inibitori. La grande identificazione, secondo Storaro, è tutta tra Bernardo Bertolucci e Port Moresby, il suo viaggio solare.

Mi riguardo un paio di volte la scena dei due protagonisti sul promontorio del deserto, ci sono arrivati in bicicletta – lei ha appena tradito il marito con il suo amico Tunner e la complice (e banale) corruzione di diverse bottiglie di Champagne – è una delle scene che Storaro ricorda nella sua intensa testimonianza. Entrambi guardano l’orizzonte, nascosti dagli occhiali da sole. Le lacrime di lei, la disperazione silenziosa, dopo aver fatto all’amore. “Qui il cielo è così strano, è quasi solido come se ci proteggesse da quello che c’è oltre. Forse abbiamo paura della stessa cosa”. Poco prima, Bowles aveva dato la chiave di tutto il significato della crisi di coppia, la lucida consapevolezza dell’irreparabile, l’amore ormai sepolto da tempo: “Erano i luoghi come quello, i momenti così ch’egli amava sopra ogni cosa nella vita; Kit lo sapeva, e sapeva anche che li amava di più se lei era presente, a sperimentarli con lui. E sebbene fosse ben consapevole che quegli stessi silenzi, quegli stessi luoghi deserti che gli toccavano il cuore la riempivano di sgomento, non sopportava di sentirselo ricordare. Era come se ogni volta gli rinascesse la speranza che anche lei potesse sentirsi affascinata nello stesso modo dalla solitudine e dalla vicinanza con l’infinito. Spesso le aveva detto: «È la tua unica speranza», e Kit non era mai ben certa di che cosa intendesse dire. A volte pensava che intendesse alludere all’unica speranza per lui, che soltanto se fosse stata in grado di diventare com’egli era, sarebbe riuscito a ritrovare la via dell’amore, dato che l’amore per Port, voleva dire amare lei: l’eventualità di un’altra donna non si poneva nemmeno. E da tanto tempo, ormai, l’amore non c’era, ne era mancata la possibilità. Ma proprio come lei era incapace di scrollar via lo sgomento che sempre l’accompagnava, Port era incapace di liberarsi dalla gabbia in cui da se stesso si era chiuso, la gabbia costruita tanto tempo prima per salvare se stesso dall’amore”.

tè libroMentre ripercorrono la strada, tornando indietro, Kit rimugina su un’idea: crede che Port sappia che lei lo ha tradito con Tunner, ma non sa di saperlo. Dirglielo sciuperebbe definitivamente quella implicita tenerezza che si è creata. Ma quel che resta dell’amore è già andato in frantumi, granelli di sabbia e Port è tornato sulla collina, nella notte e nel desiderio di tornarci, senza di lei. La difficoltà di comunicare per Kit si traduce poi nell’ultima parte del Tè nel deserto in un dialogo puramente corporeo – le parole sono del tutto incomprensibili – nell’affondare nell’abisso della carne di chi non si conosce, per trovare il senso della vita, smarrito definitivamente con la morte di Port. La donna americana viene violata, è reclusa in una gabbia, con le pagine del suo diario crea una meravigliosa cornice, una tenda per il suo enorme letto a baldacchino, nell’accampamento di Belqassim. “Il letto era un mare in tempesta, lei giaceva alla mercé della sua violenza e del suo caos mentre pesanti onde la investivano dall’alto. Perché, nel momento culminante della tempesta, due mani annaspanti si premevano sempre più forte intorno alla sua gola? La stretta aumentava, fino a che perfino l’immensa musica grigia del mare venne coperta da un fragore più grande e più pauroso: il ruggito del nulla che lo spirito ode nell’avvicinarsi all’abisso e sporgersi”.

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Kit è come una bambola racchiusa dentro una grande scatola, come un monile nel deserto, sotto una spessa coltre di sabbia, tra le dune. All’ombra di se stessa. Addirittura, la sua valigia straniera attrae gli sguardi delle mogli di Belqassim e seduce più della sua persona. Il gesto di passarsi il rossetto, rosso brillante, sulle labbra, prima della fuga, desta una grande meraviglia. Lei, infatti, non ha mai smesso di truccarsi. Nascondersi agli occhi degli altri è nascondersi da se stessi. A volte, essere prigionieri di qualcun altro è un alibi, che chiamiamo amore.

Nel finale del film, Kit incontra Paul Bowles, è il cortocircuito fra libro e film che si chiude con il celebre, imprescindibile, epilogo: “Poiché non sappiamo quando moriremo si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile, però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio? Un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che, senza, neanche riuscireste a concepire la vostra vita, forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna? Forse venti. Eppure, tutto sembra senza limite”. Invece, il libro si chiude nell’immagine di un tram affollato, pieno di scaricatori di porto, in tuta blu, la gente dentro che ondeggia in piedi, la metafora della vita, le luci fioche che vacillano. Gira l’angolo, il tram, scampanella, si avvia in salita oltre i Café, la musica assordante, la folla che riempie le strade, avvicina edifici squallidi, si vedono le luci del porto, arriva al margine del quartiere arabo, si ferma al capolinea. La vedova di Port, Kit Moresby, intanto, ha silenziosamente lasciato il taxi, abbandonandosi, senza scampo, all’inconsapevolezza e alla vana ricerca di un senso in questa vita.

Linda Terziroli

Gruppo MAGOG