27 Marzo 2019

“La poesia è l’intera storia del cuore umano su una capocchia di spillo”: da Leonardo Da Vinci a William Faulkner, passando per Wislawa Szymborska, Umberto Saba, Charles Bukowski, Joyce Lussu, cronaca dei tentativi – lirici & maldestri – di spiegarci cos’è davvero la poesia

Che cos’è davvero la poesia?

Leonardo Da Vinci ebbe a dire: “La pittura è una poesia muta, e la poesia è una pittura cieca”. E come ciechi sembrano davvero brancolare nel buio tutti i più grandi poeti davanti a questa domanda, a dimostrazione che la poesia può tutto, tranne spiegare sé stessa.

Wislawa Szymborska, forse la più grande icona poetica mondiale contemporanea, non si avventurò a definire la poesia nemmeno in occasione del discorso per il Premio Nobel. In quel 7 dicembre 1996, giorno in cui la piccola poetessa polacca balzò dal suo modesto bilocale di Cracovia alle cronache del mondo intero, si limitò a dire che qualunque cosa fosse l’ispirazione nasceva da un grande “non lo so”.
E quando negli anni Cinquanta curava una piccola rubrica letteraria su una rivista locale, alla precisa domanda di un lettore la poetessa preferì citare il collega americano Premio Pulitzer Carl Sandburg:
“La poesia è un diario scritto da un animale marino che vive sulla terra e vorrebbe volare”.

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Altra rara e preziosa conferenza venne registrata nel 1967 ad Harward, quando per ben sei lezioni fu invitato il grande Jorge Luis Borges a dirimere la questione. Ovviamente senza mai arrivare a una conclusione univoca, e rifacendosi come tutti in larga parte a citazioni altrui: “Il sapore della mela non sta nel frutto né nella bocca che lo assapora: serve l’incontro e il contatto tra i due perché la magia avvenga, così è la poesia”, disse citando prima il vescovo George Berkeley per poi ricorrere alle parole di Robert Louis Stevenson, celebre autore dell’Isola del Tesoro, per il quale “le parole nascono per un uso normale, quotidiano, ma il poeta le trasforma in elementi magici capaci,” disse citando a sua volta Coleridge “di creare un’alchimia tra chi legge e chi scrive: una volontaria sospensione dell’incredulità”.

Tutto un intreccio di metafore, insomma, perifrasi e allegorie perché, ammette Borges, in fondo noi “sappiamo cos’è la poesia e per questo non sappiamo definirla con altre parole, come non possiamo definire il gusto del caffè o il colore giallo, il significato dell’amore o dell’odio”.
E per analogia cita in conclusione Sant’Agostino: “cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”. L’unica vera concessione che Borges fa riguarda sé stesso “per quanto riguarda me, mi reputo uno scrittore. Cosa significa essere uno scrittore? Semplicemente essere fedele alla mia immaginazione”.

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Tema, questo della fedeltà a sé e ai lettori, molto caro anche a Umberto Saba, il quale scrisse nel 1911 per “La voce” un articolo che però la rivista rifiutò, poi ritrovato tra le carte del poeta e pubblicato solo nel 1959: “Quello che resta da fare ai poeti”, afferma secco e perentorio nel testo, “è fare la poesia onesta”.
Quella grande onestà e trasparenza che non mancò mai ad Alda Merini, poetessa nostrana per eccellenza: “il poeta è sempre lontano dall’impossibile” disse, ma soprattutto visse, scrivendo ancora “la casa della poesia non avrà mai porte”.

Altrettanto sfuggente fu Giorgio Caproni, in una altrettanto rara apparizione pubblica avvenuta il 16 febbraio 1982 al Teatro Flaminio di Roma. “Il poeta è un minatore” disse per poi rifugiarsi anch’egli in una citazione: “è poeta colui che riesce a calarsi a fondo in quelle che il grande Machado definiva «le segrete gallerie dell’anima»”. Riferendosi al paradosso per cui tanto più il poeta si immerge in profondità nel proprio io, tanto più si allontana da ogni autoreferenzialità, perché è in quella profondità vera che si cela l’universale. Ma meglio che con le parole, come spesso accade, anche Caproni se la cavò in poesia:

Buttate pure via
ogni opera in versi o in prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
cos’è, nella sua essenza, una rosa.

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In generale, più i poeti sono grandi, e più tendono a descrivere l’immensità della poesia come qualcosa di molto piccino e fragile. “La poesia è l’intera storia del cuore umano su una capocchia di spillo”, diceva Faulkner. Così pure Charles Bukowski, che oltre a essere scrittore irriverente e scandaloso fu poeta dolce e sorprendente, riferendosi alla sua scrittura diede forse una delle definizione più belle: “La poesia dice troppo in pochissimo tempo, la prosa dice poco e ci mette un bel po’. In ogni caso io godo nel minacciare il sole con una pistola ad acqua”.

Definizione che ricorda la bella e fragile sfrontatezza dell’amico Franco Arminio: “La poesia è una lucciola alle due del pomeriggio, è un mucchietto di neve in un mondo col sale in mano”. Non meno ironico e profetico seppe essere il grande Pier Paolo Pasolini quando sentenziò: “il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno”.

Altro aneddoto gustoso ci arriva da Valerio Magrelli nel suo audio libro Cos’è la poesia?, scritto in forma di abbecedario poetico, che in conclusione cita Roman Jackobson: “In Africa, un missionario rimprovera i fedeli della tribù che si ostinano a girare completamente nudi. E tu? Ribattè uno di loro indicando il viso del missionario. Non sei anche tu nudo in qualche parte?
Certo, replicò lui, ma questo è il volto!
Al che gli indigeni risposero: ma in noi dappertutto è volto”.
Così è la poesia, dove ogni elemento ha la stessa importanza di tutto l’insieme.

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Persino i rivoltosi, i poeti rivoluzionari, gli antipoeti, finiscono per accomunarsi con i poeti mainstream nell’impossibilità di definire la poesia fosse pure per darle contro. È il caso del cileno Nicanor Parra, considerato un genio da intellettuali come Harold Bloom e Roberto Bolaño, nel ’54 pubblicò un libro fondamentale per tutta la letteratura ispano americana dove teorizzava il concetto di “Antipoesia”, termine da lui coniato in polemica con i Pablo Neruda e altri poeti dell’epoca, nella quale respinge ogni registro alto e situa la poesia nel quotidiano, inserendovi il lessico dei mass-media, facendo uso dell’ironia e della parodia, e accompagnando spesso le sue liriche con disegni e opere grafiche: “La poesia muore se non la si offende: bisogna possederla e umiliarla in pubblico, poi si vedrà cosa diventa” scrisse inserendo i versi tra due cosce di donna oscenamente aperte. Impegnato politicamente contro ogni regime, tra i suoi versi più dolenti sul ruolo dei poeti certamente ci sono quelli contro ogni repressione: “La tortura non dev’essere sanguinaria: a un intellettuale, per esempio, basta nascondere gli occhiali”.

Accanto a lui viene in mente il grande poeta rivoluzionario americano Amiri Baraka, attivista e icona della rivolta afroamericana. Per lui fare poesia significa assumere su di sé il dolore del mondo per poi trasformarlo: “È quello che Keats e Bu Bois chiedevano ai poeti di fare: portare Verità e Bellezza. Illuminare la mente umana, dare luce al mondo. Poetate!” esortava invitando alla pratica poetica come a una vera battaglia.

Concetto quanto mai attuale che sarebbe piaciuto tanto a un’autentica rosa rossa della poesia, con la quale concludiamo il nostro viaggio: Joyce Lussu, compagna dell’antifascista Emilio Lussu, ma soprattutto poetessa riscoperta troppo tardi grazie al lavoro di una giovanissima Silvia Ballestra che a metà anni ’90 per Baldini & Castoldi raccolse diciannove conversazioni incise su nastro. Joyce Lussu rompe una convenzione non da poco: parlare male degli altri poeti, senza peli sulla lingua. “I poeti andrebbero divisi in due categorie: quelli che hanno dato tanta noia al fascismo da essere schedati e combattuti come pericolosi sovversivi, Nazim Hikmet, Garcia Lorca, Agostinho Neto, Guillen, Ho Chi-Min,Marcellino Dos Santos, e quelli che al fascismo non hanno dato nessuna noia o addirittura ne sono stati accarezzati come Saba, Montale, Quasimodo o Ungaretti, del quale andrebbero prima rilette le poesie e poi il viscido discorso che fece quando fu accolto nell’accademia fascista”.

“I veri poeti”, conclude Joyce Lussu, “sono quelli che ci rendono un po’ più intelligenti, non soltanto per osservare la realtà, ma per parteciparvi attivamente. Un vero poeta non canta la rivoluzione: fa la rivoluzione cantando. E per rivoluzione intendo anche i piccoli gesti quotidiani. La vera poesia è forza liberatrice”.

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E non ultimo, anche per chi vi scrive in queste colonne, piccolo tra i grandi, la poesia resta un mistero. Mi piace però pensare che sia nata la prima volta che un essere vivente si è inchinato a raccogliere una conchiglia non perché servisse a tagliare, cacciare o coltivare, ma solo perché bella. Facendo della poesia un bisogno necessario proprio perché in grado di elevarci oltre lo stretto indispensabile. Insomma la poesia è nata “la notte in cui l’uomo ha iniziato a contemplare la luna, consapevole del fatto che non era commestibile”, come dice il poeta rumeno Valeriu Butulescu, o se preferite, dato che alle citazioni altrui non si scampa: “dunque un poeta è veramente un ladro di fuoco”, come disse Arthur Rimbaud, forse il più grande, che a soli vent’anni aveva già detto tutto e tutto piantò per avventurarsi in un lungo viaggio senza ritorno nel cuore dell’Africa e dell’umanità, dove al posto delle parole si mise a commerciare in armi. Tragica metafora.

Luca Gaviani

Gruppo MAGOG