28 Novembre 2019

“L’estremo dei miei crimini sarà assassinare il Re degli Inferi”. Sull’arte della poesia d’addio, che sfida la morte

L’ultima parola ricapitola o rivela. È la summa di una esistenza o uno scoppio. L’estasi – il cappio.

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Penso alle ultime parole di Lev Tolstoj, come sono state registrate da amici, parenti. A seconda della fede che prestiamo alla testimonianza del giornalista e scrittore Vladimir Pozner (secondo cui Tolstoj avrebbe detto, prima di spirare, ispirato ad evangelizzare, “Vi sono sulla terra migliaia di uomini che soffrono: perché volete soltanto occuparvi di me?”) e a quella del figlio del conte Lev, Sergej (“Andrò in qualche posto dove nessuno possa disturbarmi… Lasciatemi in pace…”), cambia la nostra visione complessiva di Tolstoj. Da un lato c’è il predicatore, lo scrittore cristiano e cristico, coerente con il suo credo; dall’altra un uomo inquieto, che in punto di morte si libera di ogni finzione, non sopporta più l’uomo, è una specie di delirante Kurtz.

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Le ultime parole prima del nulla: una traccia verbale per permettere l’estremo ricongiungimento, dopo la fine – pensando che ci siano possibilità, nell’al di là –, oppure una formula per cancellarle tutte, le tracce?

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Le ultime parole: estrema finzione – gratificata dagli ultimi istanti – o istante in cui finalmente dire la verità, per quanto atroce, visto che la morte ci aliena dal giudizio degli uomini?

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Viaggio Milano-Rimini: la pianura padana è un illecito onirico, divora al sonno. Oppure, alla lettura. In uno dei su-e-giù compro un libro che mi pare prezioso. Ornella Civardi, che ricordo perché ha tradotto i magnifici Racconti in un palmo di mano di Yasunari Kawabata (Marsilio, 2002), le poesie di Ikkyu (Ubaldini, 2012), La spada di Yukio Mishma (SE, 2009), ha antologizzato una raccolta di “poesie dell’addio”, Jisei (SE, 2017). Leggendo, imparo che “Jisei si chiama in giapponese l’ultima poesia, quella composta quando il mondo attorno comincia, silenziosamente, ad allontanarsi e si resta soli con se stessi di fronte al passo più difficile”. Quando si muore – e se ne avverte il morso, oppure la sua profezia, ponendosi, comunque, sul confine della fine – si scrive se stessi: il sangue è calligrafia, il corpo è verbo, il resto è illusione.

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 Se ci si uccide, lo si fa sul filo teso della tensione poetica. Qualche anno fa il poeta Gabriele Tinti ha pubblicato un libro provocatorio e terso, Last words (Skira, 2016), in cui ha raccolto, dalla rete, le parole ultime di ignoti suicidi. Il loro riconoscimento – non sempre tragico – dettato da alcune frasi, consegnate (segno di gratitudine o di vendetta?) ai posteri. Ma cosa si decide di consegnare: un interrogativo, una giustificazione, un cenno di rabbia oppure un ultimo refluo di bellezza? Leggendo quel libro mi tornò una poesia di Vittorio Sereni, tra le più belle, Intervista a un suicida, con quell’incipit vertiginoso, “L’anima, quella che diciamo l’anima e non è/ che una fitta di rimorso…”.

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L’antologia ha qualcosa di memorabile – più si sfiorisce, più si resta, in effetti. Dalla poesia di Ono no Komachi (“Che malinconia/ se penso alla fine,/ il mio corpo/ sopra i prati in rigoglio/ sfumare in nebbia sottile…”) a quella di Mishima, che serra il libro (“Cadono i fiori/ precedendo quanti/ ancora indugiano,/ sotto le raffiche del vento/ di questa nostra notte”; “Mishima compose il suo addio il 23 novembre, due giorni prima di eseguire il piano che aveva messo a punto per mesi con minuzia maniacale e che avrebbe dovuto regalargli la vera gloria”), passano mille anni. Il paradosso – del tutto nipponico – è che la poesia dell’addio scandisce un genere poetico particolare, sancito da regole ferree (toni, temi). Anche in punto di morte, bisogna obbedire a un limite – per renderlo illimitato.

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A chi serve l’ultima poesia? È un cartiglio per convincere i morti a non accanirsi su di noi, nell’al di là; è un messaggio ai vivi, di conforto o di stralunato stupore; è una incitazione a se stessi? Gessen Zenne, nel 1781, maestro zen della scuola Rinzai, scrive, con istrionica violenza:

Alla sbarra
del giudizio finale
nemmeno provo
a occultare le colpe.
L’estremo
dei miei crimini
sarà assassinare
il Re degli Inferi.

Di ogni autore la Civardi dettaglia una didascalia degli ultimi istanti. “Non molto prima di morire, sotto un suo autoritratto, Gessen Zenne volle lasciare scritto: ‘Uccidere e non lasciare in vita o lasciare in vita e non uccidere? Chi s’incarica di dar la vita e la morte? Questi settantotto decrepiti anni’”. Il monaco non si abbatte alla fine, combatte, e risolve il tema atavico (vita&morte) in uno sketch.

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L’ultima poesia – d’altronde, lo scheletro di un uomo ha scansione di haiku… – è una tradizione trasversale in un mondo in cui la poesia è connaturata all’educazione, alla statura: la praticano monaci e samurai, nobili e commercianti. Questo è il segno ultimo – la parola che ingioiella una esistenza – di Manji Takao, geisha che nel “quartiere dei piaceri di Edo… con il suo fascino aveva surclassato le altre bellezze della cosiddetta ‘città della notte’”, siamo nel 1660: “Al vento d’inverno/ si consuma e cade presto/ la foglia di porpora”.

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La poesia ultima è colpire un lago con il pugnale, sfrecciare nell’enigma: a quale tradizione appartiene? Prepararsi alla morte, devolvere la paura della fine in definitiva bellezza. Che genio: congedarsi dalla vita con un gesto di suprema meraviglia, fugace come un fiore, letale come una lama, la poesia. Morikawa Kyoriku, discepolo di Basho, nel 1715 sfotte la morte e i viventi con un estremo tocco di narcisismo:

Solo alle schiappe
ho sempre pensato
toccasse morire:
se tocca anche ai bravi,
sarà migliore il concime.

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Di solito, la poesia definitiva definisce un paesaggio, in quieta contemplazione, un congedo intriso di malinconia (“Nel cimitero/ lucciole tardive,/ due o tre”, canta Kato Gensho, il poeta calligrafo, che “quando ebbe finito, ancora con il pennello in mano, si accasciò al suolo e spirò”); a volte si preferisce lo scherzo informale, l’inconsueto, la cinica ironia (questa è l’ultima poesia, prima di uccidersi, del grande scrittore Ryunosuke Akutagawa: “Un filo si moccio/ l’ultima luce prima del buio/ sulla punta del mio naso”).

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Questo è invece il congedo di Terasaka Kichiemon, l’unico dei 47 ronin, il più giovane, a cui fu concesso di restare in vita, per dar memoria dei fatti, clamorosi, accaduti nel 1701, quando ai samurai senza padrone, eroici, fu obbligato di ammazzarsi. Anche in punto di morte, nel 1747, il suo ricordo torna a quei momenti, perché a volte la nostra vita, per quanto vasta, è risolta in una scelta singolare, che ci beatifica o ci agghiaccia:

Nel tempo della fioritura
non fui ammesso tra i fiori,
ma ora, nel cadere,
mi mostrerò io pure
figlio del ciliegio.

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C’è qualcosa di violento nel lasciare ai vivi l’onere di interpretare le parole ultime: vincere il senso di colpa, l’inadeguatezza. D’altronde, di fronte a una morte tragica raccattiamo ogni briciola verbale per giustificare l’eccesso, l’atto. Alcuni poeti, maestri nell’arte del jisei, venivano assunti per questa particolare pratica: redigere parole indimenticabile in previsione della morte. Tanatoesteti del verbo, agivano celati nella morte altrui, come sciamani, a interpretare una vita alla luce della fine. Così la poesia divenne quasi un servizio liturgico. (d.b.)

*In copertina: Takeshi Kitano, protagonista del film da lui scritto e diretto, “Sonatine” (1993)

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