02 Gennaio 2020

Il Matto dei Tarocchi, la personalità più inquietante del Rinascimento: Pietro Aretino. Scriveva versi con la carne e con il sangue, fu lusingato, fu temuto

È esistito un momento, un’età dell’oro della civiltà italiana – ed europea – che si situa prodigiosamente, secondo un disegno divino, tra la seconda metà del Quattrocento e la prima del secolo successivo. È un tempo di geni assoluti, di eroi implacabili, dipinto o intessuto in un mondo d’oro, di ferro e di sangue.

Oggi, a ricordare una delle più inquietanti e inestricabili personalità degli anni del primo Cinquecento, è chiamata la mostra Pietro Aretino e l’arte del Rinascimento offerta al pubblico dalle Gallerie degli Uffizi di Firenze. Pietro dei Buti, questo è il suo vero nome, meglio conosciuto come L’Aretino è, insieme a Benvenuto Cellini e Niccolò Machiavelli, il cardine perfetto dove si uniscono l’arte, la poesia, la letteratura e il racconto fantastico. È la magia del Rinascimento neoplatonico, è il sogno divenuto realtà che ci viene restituito da un centinaio di opere, tra dipinti e sculture, libri e altro che ricostruiscono il mondo favoloso di uno dei più grandi intellettuali della sua epoca che di sé era solito dire: «Mi dicono ch’io sia figlio di cortigiana; ciò non mi torna male; ma tuttavia ho l’anima di un re. Io vivo libero, mi diverto, e perciò posso chiamarmi felice».

Il suo milieu è quello d’un colto libertino ante litteram, a tratti osceno, volgare e al tempo stesso altissimo con i suoi racconti di “mignotte rinomate” nei pressi di Tor Sanguigna a Roma o d’Imperia, sublime cortigiana o ancora di Isabella de Luna, più popolana, allegra e boccacesca.

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L’Aretino è poeta, e compone versi con la carne e con il sangue, mentre svolge la funzione di consigliere politico e impietoso commentatore degli eventi, arcidiavolo di pasquinate, temuto perciò e lusingato da signori, principi e alti prelati, sino alla corte di Leone X. Al suo fianco si pone persino quel Giovanni De’ Medici, meglio noto come Dalle Bande Nere, con il quale morirà la cavalleria d’un mondo migliore. Intorno a lui ruotano le immagini imperiture di maestri come Tiziano, Raffaello e l’alchemico Parmigianino, che lo ritraggono in vesti sontuose mentre con loro intrattiene scambi d’amicizia ricamata di parole. E se a lui, come ammette persino Giorgio Vasari, il “botolo ringhioso” come lo definisce il suo acerrimo nemico Benvenuto Cellini, si deve il preludio alla creazione della disciplina della Storia dell’arte, noi non possiamo che rendere omaggio. La Francia sua coeva mostra il ghigno sarcastico di Rabelais, inarrivabile genio mitopoietico nelle sue fantasmagoriche creazioni; noi abbiamo l’Aretino Pietro ad aiutarci a ridere di questo mondo, a non prenderlo sul serio, a farne il nostro balocco, come fossimo il Matto dei Tarocchi che danza, colorato, sull’orlo di Finis Terrae.

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Il mondo rutilante, paracelsiano e incantato in cui Pietro si muove, è al tempo stesso l’acme e l’inizio della lunga, costante e sempre più rapida e rovinosa discesa, tra la Firenze medicea e la Roma dei papi sino alla dogale Venezia, fulcro d’Oriente e d’Occidente, tra le coltri profumate di benzoino, le roride carni delle cortigiane e i dotti carteggi dei sapienti. Un tempo di forti chiaroscuri, di profonde ombre e violente luci, dove l’amore è ovunque e può essere comprato per pochi ducati, ma la gloria e l’onore stanno ancora in bilico sul filo tagliente delle spade.

Non so dire se l’occhio umano vedrà mai più una simile giostra d’anime e cuori come fu allora, quando la cornucopia di Atena si sparse, generando uomini che furono giganti nelle passioni e nell’agire, incuranti di lasciare altro dopo di loro che la più stupefacente bellezza che mai si possa desiderare.

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Aretino morirà, in maniera leggendaria, a Venezia nel 1556, forse in seguito ad un eccesso di risa, il che, se ben vi si pone mente, è un eccellente modo per andarsene perché ridere in faccia alla Morte crudele che giunge a portarci via da coloro che amiamo, è l’ultimo sberleffo, la suprema e forse unica rivincita, che possiamo prenderci sulla sua corona.

Dalmazio Frau

*In copertina: Pietro Aretino (1492-1556) nel ritratto di Tiziano del 1545

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