03 Marzo 2020

Piero Meldini, l’alchimista della letteratura italiana. Troppo raffinato e austero per questo mondo editoriale. Leggete “L’avvocata delle vertigini”, un esordio magnetico

Basso, di bulimica intelligenza, borgesiano (adora, su tutto, Altre inquisizioni), fuori dai giochi letterari ‘che contano’, polemico, spietato con se stesso e con il prossimo suo, Piero Meldini, classe 1941, per oltre un ventennio direttore della Biblioteca ‘Gambalunga’ di Rimini – che è stata aperta al pubblico 400 anni fa, è la più antica biblioteca civica d’Italia – ha il carisma truce di chi mi sta simpatico. L’ho intervistato un paio di volte – è uno dei pochi scrittori che vorrei incontrare costantemente. Lettore furibondo, critico totale, verbi intinti nel cinismo, Meldini è stata una delle ‘scoperte’ letterarie più alte e più vere di Adelphi. Era il 1994, collana Fabula, copertina superba (un particolare della Santa Lucia di Francesco del Cossa, con mano che regge uno stelo da cui fioriscono due occhi), esordio memorabile. “L’avvocata delle vertigini” sviluppò un domino di sospiri e di elogi nel club dei critici di allora. Il libro dell’esordiente cinquantenne vinse il Bagutta e fu tradotto in mezza Europa. Prima di quel romanzo, Meldini, scopritore di manoscritti strambi, speleologo in catacombe bibliografiche, aveva scritto diversi saggi, succulenti, come Reazionaria. Antologia della cultura di destra in Italia (1973) e Mussolini contro Freud. La psicoanalisi nella pubblicistica del fascismo (1976), entrambi editi da Guaraldi, e diversi studi – antropologia enogastronomica – sulla cucina romagnola. L’avvocata delle vertigini è un libro di diagonale bellezza, un giallo apocrifo e mistico, dove un professor Dominici – desunto dal Daniele Dominici de La prima notte di quiete? –, esperto in storie dei santi, scopre che la vicenda di una “beata Isabetta” nasconde profezie inquietanti. La scrittura segue una logica allucinata e ferma, che ricorda, a tratti, Friedrich Dürrenmatt: “No, non era Dominici a sfidare il vuoto: era il vuoto che sfidava lui. Che lo tentava. Che lo chiamava. Avesse almeno creduto. Gli sarebbe stato concesso, negli assalti, di affidarsi alla beata. Un incredulo poteva solo illudersi di colmare la mancanza di fede con un di più di laboriosità”; “Le ore scorrevano di traverso, col passo del granchio. Il vescovo sedeva alla scrivania, assillato da un tarlo, da un chiodo, che aveva la vacuità e l’ostinazione di un fischio”. Il libro ha un pregio raro: vuoi capire come si svolge la vicenda e nello stesso tempo sei beatificato da una scrittura vigorosa, da una sapienza letale. Insomma, Meldini è il grande alchimista della letteratura italiana. Il marchio Adelphi, per un tot, fece felici entrambi: L’antidoto della malinconia (1996), il secondo libro di Meldini, entra nella cinquina del Campiello. Con Lune (1999), libro di livida meraviglia, si conclude il rapporto con Adelphi: Meldini comincia a pubblicare per Mondadori. “Sai, La falce dell’ultimo quarto… con quello ho scritto qualcosa di simile, di più grande, forse, a Cent’anni di solitudine, ma nessuno lo ha capito”, mi disse, tempo fa, era un giorno caustico. Dal 2012 Meldini, sostanzialmente, non pubblica più. Gli ultimi episodi editoriali sono volutamente alieni: Pasticcio, edito da Babbomorto Editore (2019) e La Riminese. Venti ritratti di donne da Francesca alla Saragina (già Maggioli 1986, poi Interno4 Edizioni, 2019). Sembra essere troppo raffinato, austero, extravagante per il sistema letterario attuale, Meldini. Lui, d’altronde, non si preoccupa, non si occupa della fama, la scaccia, con sorriso furbo, manco fosse una gigantesca arpia uscita di scatto da un bestiario medioevale, malconservato. (d.b.)

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Alla fine di novembre del 1960, quando comincia ad annotare i suoi sogni, Federico Fellini è in piena ascesa: nella “cameretta dei premi” (citata alla data del 20 gennaio 1961) si è aggiunta ai due Oscar la Palma d’oro guadagnata a Cannes da La dolce vita. Che è ormai, oltre che un film osannato dalla critica internazionale, un blockbuster planetario. Il regista può riposarsi temporaneamente sugli allori, e la compilazione del Libro dei sogni è perciò anche una raccolta di materiali narrativi, una ginnastica dell’immaginazione in attesa di girare il film successivo.

Non c’è alcun dubbio che i sogni annotati nel Libro siano veri e propri racconti, sia che Fellini li abbia registrati nel modo più oggettivo e veridico, sia invece che li abbia “aggiustati” e arricchiti, e le immagini che li accompagnano – e che corredano i testi felliniani fin dai tempi di “420” e del “Marc’Aurelio” – hanno soprattutto un ruolo ausiliario: costituiscono, cioè, un promemoria e, insieme, uno storyboard. Di questi racconti possiamo apprezzare il peculiare stile narrativo che li accomuna, ossia i personaggi e gli ambienti che vi si incontrano, le trame che prediligono, il linguaggio che utilizzano, i topoi che vi ricorrono, le eventuali fonti e suggestioni letterarie (il sogno del 2 aprile 1961, per esempio, discende sicuramente dal Processo di Kafka). Rara è nei sogni di Fellini la presenza di personaggi di fantasia, e anche in quei pochi casi il regista suggerisce solitamente, seppure in forma dubitativa, chi vi si potrebbe nascondere dietro. I personaggi appartengono in genere alla cerchia ristretta dei familiari, degli amici d’infanzia (Titta e pochi altri), degli attori (da Mastroianni alla Ekberg, da Leopoldo Trieste a Valeria Ciangottini, dall’odiato Aldo Fabrizi a Sofia Loren) e dei collaboratori (l’assistente Guidarino Guidi, il fotografo Otello Martelli, il montatore Leo Cattozzo, gli scenografi e costumisti Gherardi e Donati, il musicista Nino Rota…)…

Un buon numero di sogni racconta storie notturne, quasi sempre popolate da un’inquietante fauna di “puttane e lenoni”, pederasti e poliziotti, assassini e cannibali. Questi notturni “lugubri” – come il regista li definisce ripetutamente – costituiscono un vero e proprio topos, e rivelano una tra le facce meno esposte dell’ispirazione felliniana: quella, grottesca e atrabiliare, che impregnerà Toby Dammit e il Casanova.

Ma veniamo allo stile narrativo dei sogni. La dolce vita aveva creato scandalo non soltanto perché era una rappresentazione della realtà spietatamente laica, priva, cioè, del più tenue velo ideologico e del più remoto intento consolatorio, ma perché infrangeva consolidati canoni narrativi. Invece di una trama chiusa, con un capo, una coda e un ordine preciso degli avvenimenti, esibiva una trama aperta e divagante: non un racconto, ma un segmento, una tranche di una storia potenzialmente infinita. Fellini aveva riesumato, a ben vedere, una tipologia di narrazione arcaica: dai poemi epici dell’antichità alle saghe, ai romanzi cavallereschi e giù giù fino a Pinocchio, alle “telenovele” e ai videogiochi, la forma primitiva di racconto, direttamente derivata da quella orale e anteriore alla codificazione dei generi letterari, presenta infatti una trama aperta, ed è lo stesso tipo di trama che ritroviamo nei sogni felliniani. C’è un’assoluta coerenza di stile narrativo tra i film del regista (a partire almeno da La dolce vita) e i suoi sogni. Dico di più: nei sogni la trama non è solo divagante e rapsodica di per sé, ma viene costantemente frustrata laddove aspiri a un minimo di coerenza e di rispetto delle famose unità aristoteliche, e in particolare della terza (unità d’azione). Un esempio fra i tanti è il sogno del 18 gennaio 1975. Fellini allestisce una scena patetica: in una camera angusta, confinante con una stanza affollata, una donna sta morendo; accanto a lei, nel letto su cui è distesa, una bambina le parla e l’abbraccia. Il regista si accorge a un tratto che la donna è spirata e prova una grande tristezza all’idea di doverlo comunicare alla bambina. A questo punto il climax, abilmente costruito, si spezza: Fellini è assalito dal bisogno irrefrenabile di vuotare la vescica; non trovando una tazza, è tentato di farla sui vasi da fiori e sulle piante che circondano la salma; poi, per fortuna, scorge un wc e si libera. Si tratta, più che di un finale dissacratorio, di un rifiuto categorico degli esiti romanzeschi della trama.

Accertata dunque la coerenza tra film e sogni, resta il dubbio se siano stati i secondi ad aver influenzato i primi o (perché no?) il contrario. Il Fellini notturno non è il mister Hyde del Fellini diurno. È – se così si può dire – la sua versione corsiva ed epigrammatica, e la miglior prova è proprio Il libro dei sogni, dove del regista nulla ci viene rivelato che già non sapessimo dal suo cinema. Lo zibaldone – ha osservato Ferdinando Camon – non ci restituisce la verità dell’uomo, ma dell’artista: «non è il libro dei sogni di Federico; è il libro dei sogni di Fellini».

Quello che il lettore sta osservando dal buco della serratura dei sogni del regista è infatti il suo laboratorio, non la sua alcova.

Piero Meldini

*L’articolo siglato d.b. riproduce, in parte modificato, quello pubblicato su Linkiesta il 20 luglio 2018; l’analisi di Piero Meldini è pubblicata dall’editore Guaraldi in “Federico Fellini. Il libro dei miei sogni”, 2013

**In copertina: Francesco del Cossa, “Santa Lucia”, 1472-73, particolare

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