10 Maggio 2021

La plebe assassina? "Questi sono gli ultimi dei barbari". Parola di Spinoza (e di Piero Martinetti allontanato dai fascisti)

Piero Martinetti (1872-1943) è stato un pensatore insolito. In primissimo luogo perché è stato nella decina a non prestare il giuramento prescritto per i docenti universitari sotto il fascismo. Non prestò il giuramento – punto. Mica come quegli altri, a frotte, che spergiuravano, prendevano la tessera, predicavano dall’aula perché tenevano famiglia e nel dopoguerra facevano opera di proselitismo politico tra i rossi dopo aver steso per Togliatti le loro autobiografie in cui richiamavano episodi in cui erano già le avvisaglie del loro “sentimento comunista”.

Già, Togliatti il regista di tutte quelle conversioni politiche inscenate, preparate, simulate, finte. In confronto Martinetti era nobile, a suo modo, nel suo isolamento kantiano. O piemontese.

Martinetti si ritirò a vita, o meglio a studio privato, dopo aver scritto una lettera al ministro dell’Istruzione Giuliano. Continuò allora a rielaborare la sua monografia su Spinoza che uscì postuma ed è stata ripresa recentemente da Castelvecchi insieme a un altro testo fondativo, Gesù Cristo e il cristianesimo.

Qui sotto trovate degli appunti del filosofo sul Trattato teologico-politico di Spinoza che è opera leggibile, poco sostenuta geometricamente – è un discorsone di un ateo passato dal colino della critica ebraica ai testi sacri. Un libro gradevole anche oggi che è in atto una sorta di Spinoza renaissance anche in campo delle neuroscienze per meglio intendere Emozioni sentimento e cervello, come recita il sottotitolo dello studio di Antonio Damasio, Alla ricerca di Spinoza (stampa Adelphi nella Biblioteca scientifica).

Più in generale si è assistito insomma negli ultimi cinque sei anni, per una fortunata disposizione delle stelle, a un revival di pubblicazioni su Martinetti che però, complice uno stile freddo e rigoroso, non fa molta notizia.

Basta consultare la bibliografia sul sito della Fondazione Martinetti per rendersi conto della mole di testi post 2012.

La Fondazione Martinetti è sempre aperta per gli studiosi e i curiosi, non ha troppi preamboli di carte burocratiche da compilare per cercare, spulciare. ci si può imbattere quindi agevolmente ne gli appunti preparatori dello Spinoza.

Non bisogna pensare che sia solo un brogliaccio lasciato lì: a suo modo è un testo autonomo che offre il punto di vista privilegiato dei ripensamenti, dell’opera aperta. Questo è interessantissimo perché invece Spinoza è autore cristallino, e con gli appunti di Martinetti si assiste al caos predisposto intorno alla geometria dell’Etica che, appunto, tradusse e commentò (stampa Aragno).

C’è un parallelo sostanzioso tra Martinetti che rifiuta il giuramento al fascismo e Spinoza.

Nel 1677 il politico olandese De Witt, che era un protettore del nostro filosofo, fu linciato all’Aia insieme al fratello da una folla inferocita e “patriottica”.

Spinoza volle andare a apporre un cartiglio sul luogo del delitto e fu fatto desistere solo da qualche amico premuroso. Almeno così raccontò poi a Leibniz…

Il cartiglio diceva, nei suoi desideri, Ultimi barbarorum. “Questi sono gli ultimi barbari”.

Quando si vanno a ripescare i frammenti lo si fa per ragioni disparate se non disperate: devozione cieca, amore della pubblicazione, ricerca di infinito. In effetti, i il frammento è romanticamente più puro della forma chiusa.

Forse, e più banalmente, si cercano i cocci dell’incompiuto per riaprire degli spazi di libertà dove a suo tempo questa fu elusa, circondata.

Anche per questo va ripresa in mano La libertà del filosofo piemontese. Siano rese grazie ad Aragno che ha ripubblicato questo saggio del 1928. Ma soprattutto sia lode a Martinetti.

Andrea Bianchi

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Piero Martinetti, Il Trattato teologico-politico di Spinoza

I motivi che indussero verso il 1665 ad interrompere la redazione dell’Etica per iniziare la composizione del Trattato teologico-politico sono da lui stesso enumerati in una lettera scritta nell’ottobre dell’anno stesso a Oldenburg. Tre fini mi muovono a ciò (scrive Spinoza):

1. quello di mettere a nudo e di rimuovere dall’animo degli intelligenti i pregiudizi teologici che li distolgono dallo studio della filosofia;

2. quello di indicare le false opinioni che il popolo ha di me come un ateo;

3. quello di difendere la libertà di pensiero e di parola minacciata dall’invadenza dei ministri della religione.

Di questi il più importante è il terzo: è anche quello che realmente occasionò la redazione del tutto: e per esso il Trattato si connette con la storia interiore dell’Olanda. Tutta la storia interiore dell’Olanda nella seconda metà del XVII secolo è impegnata nella lotta fra il partito monarchico rappresentato specialmente negli Stati generali ossia nel consiglio generale di tutte le provincie appartenenti alla Confederazione delle provincie unite (Olanda, Zelanda, Gheldria, Frisia, Utrecht, ecc.) e il partito repubblicano costituito specialmente dagli Stati d’Olanda, dal consiglio della più ricca e dalla più influente delle provincie, l’Olanda.

I principi d’Orange che avevano avuto tanta parte nella lotta contro la Spagna per la libertà e per la religione, erano stati investiti dagli Stati generali del comando civile supremo (statolderato) e del militare ed avevano oltre alla facoltà di nomina alle principali magistrature e ai gradi militari, il potere d’intervenire nelle differenze tra le provincie; questa carica, elettiva di nome ed ereditaria di fatto, unita al prestigio del passato e alle loro vaste possessioni territoriali, apriva naturalmente per gli Orange la via all’ambizione della sovranità assoluta. Il potere repubblicano era in un certo senso aristocratico, in quanto il potere era posseduto da una ristretta oligarchia borghese che aveva nelle sue mani l’amministrazione delle città e si reclutava da sé o con il consenso di pochi elettori privilegiati; ma nello spirito era liberale e democratico, senza fasto, senza privilegi di classe, rispettoso delle libertà individuali, preoccupato ogni cosa del benessere materiale pubblico.

Il popolo minuto invece favoriva la casa degli Orange, che si valevano naturalmente dei soliti mezzi di cui si serve chi aspira alla tirannide, per acciecare e sobillare il popolo; è interessante a questo rispetto un libro del politico e filosofo Ciriaco Centulo nel quale egli pone in guardia i liberi cittadini d’Amsterdam contro il pericolo della tirannide, mostrando le arti con le quali Augusto si era impadronito della repubblica romana (Augustus seu de convertenda in monarchiam republica, Amsterdam 1645).

Nel 1657 le provincie d’Olanda approfittando della morte di Guglielmo II d’Orange al quale era revocato un bando, fecero abolire la carica del comandante militare supremo e toglier allo statolderato le principali attribuzioni: inoltre sostituiva alla sovranità degli Stati generali e dello statolderato quelli degli stati provinciali, specialmente quello della provincia d’Olanda, il cui ministro o gran pensionario, che ne era il presidente e il rappresentante all’estero, veniva così ad esser di fatto il capo del governo delle Provincie unite. A tale carica gli Stati d’Olanda avevano eletto nel 1653 Giovanni De Witt, nato nel 1625, che doveva per diciannove anni reggere la carica suprema del suo paese con un’abilità, una fermezza ed una nobiltà d’animo che impongono anche oggi la simpatia e il rispetto, orientando tutti i suoi sforzi a consolidare il regime repubblicano ed a sventare i disegni del partito orangista. Sforzi che però dovevano riuscire vani: nell’agosto del 1672 una sanguinosa tragedia suggellava il definitivo tempo del partito d’Orange.

A queste lotte politiche si innestano lotte religiose fra il calvinismo ortodosso e le frazioni liberali (arminiani, rimostranti), fra il clero che pretendeva lo stato si facesse latore dell’ortodossia e perseguitasse le eresie dei sociniani e dei mennoniti e le autorità civili che per condizione e per saggia politica utilitaria inclinavano verso un regime liberale e tollerante. L’Olanda era sempre stata, dopo la liberazione dal giogo spagnolo, un paese largamente tollerante: le lotte stesse contro gli spagnoli che avevano unito in un solo sforzo cattolici e riformati, avevano favorito questo indirizzo. Essa era celebre in Europa per l’asilo che essa concedeva a tutti i dissidenti: Vanini nei suoi Dialoghi pone le sue idee più arrischiate in bocca ad un “ateo d’Amsterdam”: un medico tedesco nel 1680 chiama questa città “scelestorum receptaculum”. Tutte le confessioni avevano, con poche limitazioni, libertà di professione e di culto: solo i cattolici erano esclusi da questa universale tolleranza ed avevano di professione, ma non di culto (cfr. Le delices de la Hollande, Amsterdam 1679).

In buon numero erano rimasti tuttavia, vuoi nel clero riformato, vuoi nel popolo, quelli che non avevano deposto gli antichi pregiudizi “antiquae servitutes vestigia” (Tr. t. pol. Praef. 351) ed alla loro influenza appunto era dovuto il trattamento usato ai cattolici. Verso la metà del secolo XVII a rivendicare queste lotte religiose si aggiunse la diffusione della filosofia cartesiana che sollevò nel seno delle chiese olandesi le più fiere dissensioni tra i partigiani della nuova filosofia i quali tendevano ad una più libera interpretazione dei dogmi e gli ortodossi, i quali volevano bandita dalle facoltà teologiche la filosofia ed invocavano contro d’essa i rigori dello stato: tanto che nel 1656 il De Witt dovette intervenire energicamente rinviando i teologi alla teologia e i filosofi alla filosofia. Gli Orange per considerazioni politiche si erano alleati col partito ortodosso: per modo che la lotta fra orangisti e repubblicani era diventata una cosa sola con la lotta fra il clero e lo stato.

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Quando nel 1650 venne al potere il partito del De Witt, l’opposizione del clero riformato si fece furibonda: i capi dello stato erano chiamati atei e libertini perché non consentivano a fare i persecutori. Questo movimento si fece più vivo verso il 1665 quando il governo implicato in gravi guerre si trovò in gravi difficoltà. Già nel 1662 furono perseguitati come “servi del diavolo” mennoniti, quaccheri, sociniani: lo stato fu costretto a reagire a quest’ondata di intolleranza che nel 1668 ebbe le sue vittime maggiori nei fratelli Koerbagh, amici di Spinoza, che per avere criticato con vivacità i dogmi cristiani vennero sottoposti a processi: uno di essi condannato a dieci anni di carcere, vi morì miseramente. Ma col migliorare delle condizioni esterne il governo del De Witt serbandosi più fermo, iniziò anche una più viva resistenza contro le pretese del clero, minacciando pene severe a coloro che facessero pesare la religione nella politica. E in vista di ciò, il De Witt, uomo colto, cercò altresì di favorire un movimento letterario politico in pro dello stato: dalla cerchia immediata dei suoi amici uscirono in quegli anni parecchie pubblicazioni anonime che sostengono, contro la chiesa, i diritti dello stato e della filosofia.

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In queste lotte ebbe le sue prime origini anche il Tr. t. p. di Spinoza. È fuor di dubbio che Spinoza era in ottime relazioni col De Witt: noi sappiamo dal suo biografo Lucas che il De Witt si consigliava spesso col filosofo e che questi aveva accettato dal De Witt una pensione di duecento fiorini. E che il De Witt non si fosse disinteressato dell’opera di Spinoza lo mostrano vari libretti del tempo: uno di essi pubblicato nel 1672 lo accusa di aver favorito la pubblicazione del Tr. t. p.: “forgiato nell’inferno con l’aiuto del diavolo dall’ebreo apostata e pubblicato col consenso del De Witt e complici”. Del resto le simpatie di Spinoza per il povero aristocratico non erano solo simpatie personali e politiche: egli vedeva chiaramente che con la sua caduta si preparavano in Olanda tempi funesti alla libertà di pensiero e di religione. Perciò interruppe volentieri nel 1665 la redazione dell’Etica per attendere tutto a quest’opera in favore della politica liberale e della libertà di coscienza. Nella sua prefazione Spinoza ne fa professione esplicita: pur lodando lo stato in cui viveva per la libertà che esso concedeva a tutte le credenze (e la lode voleva essere almeno un augurio), dichiara di voler difendere questa libertà contro coloro che avrebbero voluto restaurare la servitù antica.

A questo fine politico s’aggiunse anche, come si è visto, un fine personale: quello di giustificare se stesso dall’accusa d’irreligione. Come appare da alcune oscure parole del biografo Lucas Spinoza prevedeva qualche persecuzione: il nome suo era circondato dal sospetto come quello d’un ateo pericoloso. Ora Spinoza nel suo trattato mostra che quest’accusa di empietà è ingiusta: che anzi tutta la sua filosofia culmina nella fede in un essere infinito e perfetto, oggetto supremo di conoscenza e d’amore: che in nessun caso del resto la libertà delle opinioni filosofiche poteva essere considerata come esiziale alla religione ed allo stato. Ma questa giustificazione non era un tentativo di scolparsi agli occhi della plebe: era piuttosto un tentativo di ribellarsi di fronte alle persone illuminate, che, come vediamo da molti esempi, nutrivano ancora contro di lui molti preconcetti, di dissipare intorno a sé la diffidenza, di aprire a sé il campo d’un’azione più vasta.

Ma il vero e più alto fine del trattato, quello che gli conferisce agli occhi nostri la sua più grande importanza è il fine filosofico-religioso. Nel suo tentativo di giustificare filosoficamente i grandi principii di libertà, Spinoza trasforma il suo scritto politico in una ricerca impersonale ed obbiettiva del fondamento ultimo della religione e dello stato: egli perde di vista le questioni del momento per affrontare le questioni più alte della filosofia religiosa. Ed in ciò lo muove un sincero zelo per la purezza della religione ed un vivo sdegno per lo spettacolo miserando dell’avarizia e dell’orgoglio degli ecclesiastici, della credulità e della superstizione del volgo; in nessun altra parte delle sue opere, se non forse nell’introduzione all’Emendazione dell’intelletto sentiamo vibrare così vivamente l’animo del filosofo. Anche qui però l’azione era diretta, in modo esclusivo, ad una piccola cerchia: il fine a cui mirava era la liberazione delle anime migliori che attorno a sé vedeva ancora prese nei legami della fede letterale e del dogmatismo. Le frazioni più liberali delle chiese riformate potevano dissentire di fronte a dogmi particolari o circa una più o meno letterale interpretazione della Scrittura: ma nei punti essenziali, per esempio nella fede in un Dio personale etc. tutte le confessioni erano d’accordo. La Bibbia rimaneva per tutti il fondamento incrollabile: la dottrina poteva venire ristretta a pochi principi essenziali, ma non è possibile parlare di una divergenza nella dottrina. A che cosa dobbiamo dunque il diverso linguaggio del Trattato? Parlare d’ipocrisia o di paura non è il caso: perché sebbene le circostanze dell’epoca imponessero riserbo e prudenza anche ad uomini che non erano soltanto un povero ebreo rinnegato e sebbene il temperamento di Spinoza fosse mite e conciliante, egli non era certamente uomo da posporre a considerazioni personali la verità.

L’origine della diversità del Tr. t. p. e dell’Etica è da cercarsi invece nel diverso fine a cui i due scritti erano destinati: l’Etica era un libro puramente filosofico e si rivolgeva ai filosofi; il Tr. t. p. era un libro popolare e si rivolgeva a tutte le persone intelligenti che potevano interessarsi di questioni religiose. Perciò egli non prende qui il suo punto di partenza da rigorosi principii filosofici: ma si pone dal punto di vista comune per elevare irresistibilmente il lettore al punto di vista filosofico. La fede nella rivelazione biblica, in un Dio personale e creatore, in Gesù Cristo figlio di Dio erano per tutte le confessioni e sette cristiane un punto di partenza indiscusso: ed anche Spinoza parte dal concetto d’una rivelazione soprannaturale, di profeti dotati di facoltà sovrumane e che testimoniano, con miracoli, della loro missione. Ma questo non è che il punto di partenza: Spinoza non accetta provvisoriamente il concetto della rivelazione che per analizzarne il contenuto e rivolgere un punto di vista superiore, il quale poi alla sua volta reagisce sul primitivo punto di partenza.

La stessa rivelazione ci conduce a vedere che un Dio perfetto non ha potuto dare origine ad un Dio particolare: quindi l’analisi stessa della rivelazione positiva ci eleva alla conclusione che ogni rivelazione positiva non è che una rivelazione inferiore e subbiettiva della rivelazione eterna di Dio, che avviene per mezzo della ragione: e così conduce a recuperare il punto di vista della rivelazione per entrare in quello della filosofia. Questa iniziale adozione del punto di vista comune era necessaria a Spinoza per non urtare di fronte le credenze universali del suo tempo: essa gli permette anche un linguaggio conciliativo, senza del quale l’opera non sarebbe risultata. Se il trattato suo venne accolto, così com’è, come un libro pestilenziale, che, che cosa sarebbe avvenuto se egli avesse negato crudamente, più di principio, le credenze universali e non avesse avuto la cura di derivare, per così dire, il suo insegnamento da quello stesso della Bibbia? Questo artifizio non è, come parrebbe, una finzione provvisoria, ma ha la sua ragione nella dottrina stessa di Spinoza.

La dottrina di Spinoza sulla religione non è un puro razionalismo: cioè non considera la rivelazione come un’illusione senza valore (ciò che del resto in un sistema razionale sarebbe già un residuo inesplicabile): certo la rivelazione è da lui giudicata nel suo complesso, dal punto di vista assoluto, come una creazione dell’entusiasmo morale che ha un valore pratico, non teoretico: ma anche questa giustificazione pratica le dà il diritto d’essere interpretata nei suoi particolari “per se” come qualche cosa che dal suo punto di vista è “vero”, ossia la pone come un tutto che, dal suo inferiore punto di vista, è necessario e concatenato in una concezione che ha la sua verità.

Questo permette anzitutto a Spinoza di comprendere la legittimità relativa della rivelazione: non tutta la vita umana può essere ridotta ad essere puramente ragione. E in secondo luogo, unitamente al suo valore civico, lo salva dalla fatica ingrata ed inutile di voler esplicare tutte le creazioni artistiche dell’immaginazione riconducendole a fatti naturali per mezzo di ipotesi arbitrarie e ridicole.

Nella sua filosofia religiosa, come del resto in tutta la metafisica, Spinoza si appoggia specialmente, nonostante le apparenze d’un atteggiamento polemico, all’antico pensiero ebraico. Egli è, nonostante le sovrapposizioni d’elementi moderni, un neoplatonico; il pensiero suo ha le radici nei grandi filosofi della sua razza, che attingono dal neoplatonismo e dal peripatetismo alessandrino fortemente colorato di neoplatonismo. Nelle sue ricerche sulla rivelazione, sul miracolo etc. egli discute continuamente, il più delle volte senza citarli con i suoi continui maestri ebrei, Maimonide, Ibn Esra. Ibn Esra (1140) acuto, ma timido interprete è l’autore preferito di Spinoza, che lo mette al di sopra di tutti i commentatori medievali e che di lui appare anche un poco l’arte delle conclusioni più ardite. Ma il vero e grande maestro di Spinoza nel Tr. t. p. è Maimonide. (…)

Senza dubbio Spinoza pensa più largamente e liberamente di Maimonide e si avvicina più ad un libertino del suo tempo che ad un rabbino tradizionale: non invano era passato in lui il soffio razionalistico della rinascenza – si veda per esempio le loro dottrine sulla rivelazione! Anche per Maimonide la dote profetica ha per condizione una grande perfezione ed esaltazione della facoltà immaginativa: la quale per un’eccitazione interiore apprende gli oggetti come se questi colpissero veramente i sensi. L’illuminazione della facoltà razionale sola dà i sapienti: l’illuminazione della razionale e dell’immaginativa i profeti: l’illuminazione dell’immaginazione sola dà gli indovini, i sogni veri etc. L’immaginazione così ispirata può andare fino a percepire l’avvenire come se si trattasse del presente. Ma mentre Maimonide considera la rivelazione profetica come un’allucinazione dell’intelletto agente per spiegare quest’esaltazione della immaginazione e così mettere i profeti a fianco dei sapienti, Spinoza considera la profezia come un’allucinazione propria di un grado inferiore: che è vera dal punto di vista della rivelazione stessa (il punto di vista provvisorio di Spinoza), ma che dal punto di vista filosofico è un’illusione.

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Molte delle sue osservazioni hanno il loro fondamento negli avvenimenti del tempo: là dove parla dell’inutilità dei tentativi di fondare un regime di libertà imponendo garanzie legali a chi possiede le forze Spinoza pensava evidentemente agli sforzi inutili del De Witt di assicurare contro gli Orange la repubblica; e là dove con sdegno parla dei patiboli eretti dall’intolleranza e dei martiri che sdegnano la grazia (hec supplicium deprecantur) egli ha in mente le persecuzioni dei rimostranti, il bando di Grozio e il supplizio di Oldenbarneveld che rifiutò di implorare la grazia da Maurizio d’Orange. (…)

Si è voluto da alcuni vedere una sostanziale differenza in questo: che Spinoza incline nel Tr. t. pol. alla democrazia avrebbe dopo le amare esperienze del ’72 inclinato verso l’aristocrazia. Ciò non sussiste. Spinoza non intende per democrazia il dominio di quella plebe che nel ’72, sollevata dai predicatori, straziò le nobili membra dei fratelli De Witt, né avrebbe avuto bisogno di attendere la strage dei De Witt per fare le sue amare riflessioni sulla plebe – che non è mai fautrice della democrazia.

La plebe olandese non era mai stata troppo favorevole alla repubblica ed aveva continuamente con sedizioni intralciato l’opera del De Witt. Già al principio della sua carriera politica nel 1652, a Middlebourg, dove il De Witt era stato inviato a trattare, la plebe aveva fatto il possibile, come egli scrisse scherzando, per risparmiargli le spese di ritorno. Né d’altra parte l’aristocrazia che Spinoza tratteggia nel Tr. p. rassomiglia all’aristocrazia borghese che aveva il potere nelle Provincie unite: essa è piuttosto l’immagine ideale di quella democratizzazione dell’autocrazia che anche dal De Witt era stata riconosciuta come il solo provvedimento atto a salvare la repubblica. (…)

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Il Tr. th. p. rimase invece negletto: in odio ai teologi per i suoi principii filosofici, poco capito dai filosofi per il suo contenuto biblico e teologico. Ma ciò è dovuto in parte anche al fatto che i suoi principi erano diventati comuni per i filosofi. Il concetto della religione come un’educazione progressiva del genere umano che impone agli animi rozzi una legge rigorosa per condurli poco per volta alla pratica della pietà come si fa coi bambini privi di ragione, passò da Spinoza a Lessing e quindi a tutta la filosofia moderna (Tr. th. p. II, 381). Herder (1744-803) ha avuto il merito di rinnovare da questo punto di vista la filosofia religiosa. Egli mette in luce il valore relativo della rivelazione esteriore e del suo elemento mistico e retorico: e aggiunge a Spinoza il concetto di rivolgimento: l’educazione religiosa dell’umanità è un passaggio grande dalla religione dell’obbedienza religiosa dell’amore. Riprendendo il concetto spinozistico della rivelazione come educazione alla filosofia, egli mette risolutamente sulla via dell’interpretazione filosofica dei dogmi: “quando essi vennero rivelati non erano ancora verità ragionate, ma vennero rivelati perché lo diventassero”.

Da ciò si comprende quanta parte della dottrina religiosa di Spinoza sia entrata a far parte della stessa filosofia religiosa di Kant e di tutto l’idealismo postkantiano. Da questo punto di vista essa può venir considerata ancora oggi, insieme con la Religione nei limiti della ragione di Kant, come una delle opere fondamentali e immortali che il pensiero moderno si è appropriato, ma non ha ancora superato.

Pietro Martinetti

* Il testo è riprodotto qui sulla base del manoscritto conservato presso la Fondazione Martinetti a Canton Ferrero (cart. 8, ins. 5, 43 fogli) ed è apparso recentemente negli Scritti su Spinoza (Castelvecchi 2020) curato da Francesco Festa. In onore dello studioso mancato recentemente, lo si ripropone qui. Il curatore di Spinoza, Franco Alessio (Napoli 1984), lo riteneva di data non meglio precisabile tra ’14 e ’39. Si ringraziano la Dott.ssa Elena Borgio e il Prof. Massimo Mori della Fondazione.

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