11 Febbraio 2018

Philippe Daverio dice che i pastori della Gallura sono “meno evoluti”. Una risposta piccata e una pacca sulla spalla

Quando la cosiddetta intellighenzia pecca di supponenza in modo imperdonabile.

La verità è che, quando devo rispondere male a qualcuno, mi viene da farlo in sardo. Che ci volete fare, il sangue non è acqua. Sono dell’Isola e, peggio ancora, come diceva un mio professore facendo il verso a Nietzsche, “io non sono gregge, casomai mi identifico con la figura del pastore sardo”. Sicché, quando vedo in televisione Philippe Daverio, il noto critico d’arte, che paragona i pastori sardi alle frange meno evolute del mondo islamico, l’istinto è quello di prenderlo a scollettadura (per il colletto) e dirgli: “na’, oh facc’e tontu (sentimi un po’, faccia da scemo)”. Ma evito di accanirmi con uno che si veste a quel modo – l’abito della domenica, indossato da quelli che lui considera trogloditi, lo farebbe risultare meno ridicolo. Proviamo, allora, a ragionare seriamente.

Nella disputa tra lavoratori dell’intelletto e delle mani, si sa, non sono mai mancate le malignità e le battutine. In verità – e lo dico da intellettuale, per quanto infinitamente “primitivo” rispetto al variopinto Philippe –, la cosiddetta intellighenzia pecca di supponenza in modo imperdonabile. A scuola, giustamente, cercano di convincere dei caproni che i libri sono l’unica via per un uomo che voglia appartenere al consesso umano. Purtroppo, trascurano di far notare che chi usa le mani non è privo di una cultura, addirittura precedente a quella formalizzata da un qualsiasi sapere accademico. Nella fattispecie dei pastori sardi, il loro sapere è antico e nobilissimo. Se non ci credete, provate voi a fare il formaggio – e non quella porcheria che vi vendono in tutti i supermercati nazionali, che è roba da cinesi – o magari il vino, quello che facciamo qui in Sardegna – che se non sapete come fare a dormire la notte, ve lo do io il rimedio, altro che il Lexotan! I Pastori, contrariamente a quanto credono quelli che hanno letto tanti libri senza capire niente della vita, possiedono una saggezza della mano che, se non si è cominciato da bambini, come per un qualsiasi strumento musicale, è praticamente impossibile acquisire successivamente. Altro che “non evoluti”, come dice quello lì che con le mani sa fare una sola cosa (e non vi dico quale). Provate voi a cimentarvi, partendo dal grado zero, fino a sviluppare la capacità di allevare una bestia per fare la salsiccia e il prosciutto. Ciò vale anche per un agricoltore, sia chiaro. Date una zappa a un animale da scrivania e vedrete cosa ne tirerà fuori. Se gli va bene, si amputerà un piede da solo, dimostrando la sua assoluta inettitudine pratica – oltre al suo essere un pirla, sia detto inter nos. Evito di precisare che, per zappare tutto il giorno, come hanno fatto molti dei nostri pastori che sono al contempo agricoltori, ci vuole mestiere. Un qualunque borghesuccio di città schiatterebbe dalla fatica, dopo appena mezz’ora. Perché la zappa bisogna saperla maneggiare, in modo tale da consumare meno energia possibile, a meno che non si voglia morire a quindici anni.

Sempre per il motivo che in Sardegna siamo dei signori, evito di far presente a chi ha perduto l’istinto tra le pagine di qualche libro, che il pastore non ha mai dimenticato di essere maschio, perfino quando era solo sui monti, insieme alle sue amate pecore – la moglie di qualsiasi professore ve lo potrà confermare. Ciò è ben testimoniato da quella famosa barzelletta che circola qui da noi, quella della giornalista continentale che, finita a letto con il pastore, si sente dire che è necessario usare il preservativo: “Sa, Signorina, io non godo, se non sento odore di gomma bruciata”. A buon intenditor poche parole e tu Philippe, fai una cosa, ponirì a una parti!

Matteo Fais

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Viva Daverio: soltanto un uomo intriso di cultura sa cos’è la natura. E la fugge

Io preferisco le mani bianche, affusolate, eleganti. Quelle che non hanno lavorato. Quelle di chi non ha lavorato con le mani ma con la testa. D’altronde, chi ha creato la retorica della natura ‘bucolica’, sapienziale, assoluta è un poeta, Virgilio, che nel suo podere mantovano non ha manco messo piede. Intendo: solo l’uomo mentale, ‘culturale’, che si è affrancato dalle grinfie della terra sa rammaricarsi, in endecasillabi e alessandrini, di aver perduto la terra. La nostalgia è un raffinato frutto della cultura. Vengo a Philippe Daverio. La sua uscita a Piazza Pulita (La7), un po’ più articolata di quanto ci danno a intendere – ma questo è il tempo dell’indignazione indotta, della bestemmia in anticipo, mica della comprensione e dell’ingresso nel complesso – semmai, non me ne vogliano i pastori e neanche la Gallura, è a discredito degli arabi, a discapito delle faglie più vertiginose del loro pensiero (leggete Henry Corbin poi ne riparliamo). Uscita, ad ogni modo – ma la semplificazione televisiva induce alla sintesi becera, alla cretinata mitragliata – idiota. Il punto, però, se dalla cretinata vogliamo estrarre una paglia d’oro, è proprio questo. L’uomo è uomo – creatura verticale, sospesa tra fango ed empireo – perché si affranca dalla terra, si libera dal morso della natura, esilia la necessità del cibo, del cibarsi, in altro. Ad esempio. La necessità di pensare, di ragionare, di esprimere ogni energia in qualcosa di volante, di fragile, di astrale: la contemplazione degli astri, la poesia, la dissipazione, perché no. Ogni tanto adoro leggere Chamfort, cinico dandy della Francia del tardo Settecento, uno dei più luminosi e sinistri Prodotti della civiltà perfezionata, come s’intitola il suo libro di massime (ovviamente introvabile nel mercato editoriale italico, fatto da incivili per incolti). “Guardando quel che accade nel mondo, il peggior misantropo finirebbe per diventare allegro, ed Eraclito morirebbe dal ridere”; “Vivere è una malattia a cui il sonno dà sollievo ogni sedici ore. Ma questo è un palliativo. Il rimedio è la morte”; “Imparando a conoscere i mali della Natura si disprezza la morte; imparando a conoscere quelli della società, si disprezza la vita”. Che ardore. La limpidezza di un pensiero ‘contro’ realizzata con uno stile tagliente, affilato a dovere. Chamfort proviene dalla tradizione dei grandi moralisti francesi, i grandi arrabbiati, che da Montaigne e Pascal arriva fino a Céline e Houellebecq. Chamfort attraversa la società del suo tempo – un teatro di articolati merletti e di pimpanti marionette – analizzando l’essere umano come Darwin, alle Galapagos, annota vizi, natura e difetti delle più strambe specie mai viste. Il Settecento francese, in effetti, è la quintessenza della cultura: sul probo vince l’eccesso, al pudico è preferito lo sfarzo, alla Chiesa il teatro, alla speculazione filosofica l’abissale gioco della seduzione – Laclos, quello delle Relazioni pericolose, vive negli stessi anni – all’utile l’inutile. Una civiltà che eleva l’inutile – il pensare, il poetare, l’amare, il contemplare – ad arte, dileggiando l’utile, è davvero una civiltà perfezionata. Meglio investigare le inquietudini del nostro cuore – ricordate che razza di domande si fa il pastore più grande di tutti, quello di Leopardi – che razzolare nei campi. D’altronde, pure la retorica della ‘saggezza’ dell’uomo della terra – residuo bellico di quella canaglia libertina di Rousseau – è una finzione culturale: conoscere i nomi delle piante e portare a passeggiare il gregge non è paragonabile all’invenzione dell’anima da parte di Platone o alla speculazione più perigliosa di Plotino. Solo l’uomo colto vede nella natura qualcosa di aspro e superbo; di per sé la natura è sporca, spietata, bastarda. Sappiamo come è finita la civiltà di Chamfort: sterminata a colpi di ghigliottina. Beh, io a chi ‘ritorna alla natura’ – concetto superbamente culturale – preferisco chi scrive l’opera assoluta e assurda, un gesto sonoramente inutile, recluso in casa, con le pareti foderate di materassi, come Proust, per ascoltare solo se stesso. Il dramma del nostro tempo è che abbiamo paura della cultura, in virtù di una idea malata di natura. (Chiamatela pure, la mia arringa in obliquo favore di Daverio).

Davide Brullo

 

Gruppo MAGOG