Ho l’immensa fortuna di conoscere Peter Handke a Bologna in maggio 2015, gli viene conferito il premio alla carriera Elena Violani Landi, a cura dell’Università di Bologna e del Centro di Poesia Contemporanea. L’incontro è folgorante per me. Vedo un uomo mite, sfiora la timidezza, ha uno sguardo liquido e obliquo. Un uomo che è famoso, la sala è piena, la gente si accalca in piedi. Quando lo chiamano a leggere una parte del suo meraviglioso Canto alla durata e lo appellano “poeta” lui si irrigidisce, si ferma un attimo, dice che non se la sente di farsi chiamare poeta, piuttosto preferisce “testore, colui che scrive testi”. I grandi hanno questa caratteristica: restano umili, si mettono sempre in ascolto, imparano da tutti. Non si definiscono mai, sono qualcosa di liquido, entrano in tutte le fessure dell’umano.
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Peter Handke è immenso, ha scritto cose meravigliose, quello che però per me è legge è il suo Canto alla durata (edito per Einaudi nel 1995, riproposto nel 2016, traduzione di Hans Kitzmüller). Questo libro è un lunghissimo canto in versi al senso della durata del tempo, è un libro che si fa delle domande e tenta delle risposte. Le risposte non sono mai però quello che ci aspettiamo, quelle che speriamo, le risposte contengono una verità che taglia, che non sana ma ci fa sanguinare. Handke si chiede che cosa sia il tempo, che cosa nella vita davvero conferisce una durata, quell’agglomerato globoso che è il tempo impiegato, vissuto e anche sperato.
Molti fanno figli per dare un senso alla durata della vita, mettere al mondo qualcuno che conti il tempo per noi, vedere crescere un figlio ci restituisce nella carne la durata del tempo. Avere quindi qualcuno che ci possa sopravvivere, che possa portare parte del nostro codice genetico avanti, che possa darci il senso di una vita.
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Che cosa ci fornisce il senso della durata, quindi perché si scrive? Cosa tentiamo di fare? perché ci affidiamo alla scrittura che è fede, luce e insieme colpa? Handke risponde a suo modo, per me questo testo è una legge, è la più bella dichiarazione di amore prima di tutto, e poi anche di poetica. Peter Handke ci dice
E qual è la cosa a cui devo restare fedele?
Essa ti apparirà nell’affetto
per i vivi
– per uno di loro –
e nella consapevolezza di un legame
(anche soltanto illusorio).
La sensazione della durata appare nell’affetto per i vivi, anche solo per uno di loro. Però usa il verbo apparire, quindi manifestarsi ma anche apparenza, ciò che si presenta davanti ai nostri occhi così come è, in tutta la sua lucida e splendida superficie. Proseguendo:
Sí, questo fatto dal quale con gli anni scaturisce la durata
è di per sé poco appariscente,
non fa conto parlarne
ma è degno di essere affidato alla scrittura:
perché dovrà essere per me la cosa più importante.
Dovrà essere il mio vero amore.
E io,
affinché da me nascano i momenti della durata
e diano un’espressione al mio volto rigido
e mettano nel mio petto vuoto un cuore,
devo assolutamente esercitare
un anno dopo l’altro
il mio amore.
Chi scrive e ha questa necessità in corpo si porta dietro di sé una colpa e una torcia di luce. Handke ci dice che il senso della durata del tempo è degno di essere affidato alla scrittura: la parola affidarsi contiene anche la parola fiducia, e allargandoci anche la fede, avere fede e insieme speranza. Si scrive per testimoniare una fede, per seguirla fino in fondo, è una sorta di vocazione la scrittura e non ammette menzogne, non vuole riconoscenza, si scrive perché si deve scrivere, non si può fare altrimenti. Ho sempre pensato che la scrittura fosse qualcosa di sacro, che fa parte della tua vita ma che non lo possiedi, è un’ossessione che ti chiama, che ti visita nel sonno e a cui devi rispondere ma non sai mai quando e se tornerà.
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Handke scrive che la scrittura è il suo vero amore. E questo amore meraviglioso e puro contiene però una colpa. Chi scrive ha la costante angoscia di dover giustificare quello che ha scritto ai propri cari, agli affetti. Chi scrive ama prima di ogni cosa, anche di se stesso, la scrittura. E come fare a spiegare ai vivi per cui proviamo un affetto, e per cui ci appare che il senso della durata del tempo risieda in loro, che in realtà sta in un amore unico, vero e grandissimo che è la scrittura? La colpa sta in questo, amare la parola prima di tutto, prima di un “io”, prima dei vivi. Handke fa una grandissima prova di coraggio e di onestà, ci confessa in questi versi il suo amore, ci confessa che l’amore va esercitato un anno dopo l’altro, che i momenti della durata nascono da questo, è l’unica cosa che davvero può dare un’espressione ad un volto rigido, che può mettere un cuore in un petto vuoto. Peter Handke ci dice le cose come stanno, la verità non va detta obliqua.
Clery Celeste