06 Agosto 2020

“Fernando Pessoa sente le cose, ma non si smuove, nemmeno interiormente”

Se parli di Fernando Pessoa è come ingravidare un prisma. Un lato rimanda all’altro e poi all’altro, dio è un crocevia di specchi, le identità esistono per scomposizione. In un libro appena pubblicato da Quodlibet, Teoria dell’eteronimia, utilissimo – sono raccolti i testi che Pessoa dedica ai suoi eteronimi e i saggi in cui gli eteronimi parlano tra loro, dando avvio a un labirinto di relazioni fittizie – ho contato, nell’elenco in appendice, 46 eteronimi. In un libro pubblicato nel 2013 da Jéronimo Pizarro e Patricio Ferrari, Eu sou uma antologia, invece, gli eteronimi risultano 136. Balocco coi numeri: chi sono quei 90 spettacolari spettri rimasti fuori dalla somma italiana? Amici di amici immaginari, giù, fino a un cavalcavia di nebbie. In effetti, cosa sogna un eteronimo? E se nel sogno di un eteronimo un eteronimo sogna Pessoa?

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Pessoa ha risolto l’egotismo in un polline di identità diffuse. Ha assopito l’io in una caffettiera, per definire i propri indecifrabili io. Mette a servizio la personalità per evacuare le persone che la abitano. Pare un esercizio mistico: al posto di annullare l’ego, decimando la sua autonomia, esiliarlo in sproporzionati alter ego. “Dare a ogni emozione una personalità, a ogni stato d’animo un’anima”, scrive, il creatore, nel 1930.

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Pessoa è un genio tanto particolare – incardinato nella sua Lisbona, a sorseggiare i racconti di Poe – da apparire universale. New Directions ha appena pubblicato The Complete Works of Alberto Caeiro, per la traduzione di Margaret Jull Costa, super esperta di letteratura portoghese (ha tradotto nei mondi inglesi tutta l’opera di José Saramago, tra l’altro). La sua introduzione, ricalcata su “The Paris Review” – e pubblicata qui sotto – gioca a bocce con gli eteronimi, rievoca gli anni di “Orpheu”, il trimestrale fondato da Pessoa con Mário de Sá-Carneiro nel 1915, durato due numeri, emblema di un’epoca in cui si faceva avanguardia nei cafè, negli spazi d’ozio, tra le ombre di una copisteria.

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Di Alberto Caeiro sappiamo quasi tutto. Nato a Lisbona nel 1889, “morto prematuramente nella stessa città, nel 1915, come assicura Ricardo Reis” (cito dal libro Quodlibet), l’anno in cui Pessoa si forza a fondare “Orpheu”. “Di statura media, fragile, anche se in apparenza meno di quanto lo fosse realmente, biondo e con gli occhi azzurri… della sua vita dimessa si sa che è orfano, che non ha quasi ricevuto istruzione, che vive di piccole rendite”. Caeiro fu maestro di Ricardo Reis e di Álvaro de Campos, che ne scrive così: “Il mio maestro Caeiro non era pagano: era il paganesimo… lo stesso Fernando Pessoa sarebbe pagano, se non fosse un gomitolo ingarbugliato dall’interno”. La sua insoddisfazione soddisfatta (“All’improvviso chiesi al mio maestro, ‘è soddisfatto di se stesso?’, e rispose, ‘no: sono soddisfatto’”) era una forma di speculazione mistica. Morì felice: “Non ho mai visto triste il mio maestro Caeiro”.

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Gli eteronimi di Pessoa sono raffinatissimi pupi in attesa del puparo. Certe didascalie di personaggi meno nitidi, irrisolti, intendo, sembrano i blocchi di partenza di un romanzo. Friar Maurice, ad esempio, “mistico senza Dio, cristiano senza credo”, probabile alter ego di Alexander Search, “il più prolifico eteronimo di lingua inglese” di Pessoa, autore di raccolte come Death of God e Documents of Mental Decadence. Oppure Dr. Gervásio Guedes, che appare per darci una caustica descrizione del popolo inglese, “sonnambuli che camminano verso il precipizio… bambini che giocano a barchette di carta in un pitale”. Oppure il Barone de Teive, figura apocrifa, suicida, invalido – gli mancava la gamba – aristocratico; si ammazzò nel 1920, dal suo manoscritto (“La professione dell’improduttivo”) Pessoa stralciò qualche passo per inserirlo nel Libro dell’inquietudine, il cui autore più importante, tuttavia, è Bernardo Soares, che con Pessoa “condivide lo stesso lavoro, gli stessi posti della città, la stessa solitudine, la passione per lo scrivere… la coincidenza di cenare entrambi alle nove e mezzo di sera”. Insomma, sogno una città di nome “Pessoa” abitata da tutti gli eteronimi del sommo portoghese, desidero un editore visionario che affidi a differenti romanzieri, a casaccio, uno per ciascuno, uno degli eteronimi di Pessoa dicendogli, di questo tizio, ora, scrivetemi la biografia. Immagino la delizia.

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La cosa curiosa sarebbe assemblare i giudizi e le opinioni che gli eteronimi hanno del loro creatore, Pessoa. Uno pseudonimo non fa che esagerare il nostro ego – un esercito di eteronimi è quasi un esercizio di cannibalismo. “Fernando Pessoa sente le cose, ma non si smuove, nemmeno interiormente”, scrisse di lui, nel 1931, Álvaro de Campos. Questo forse è il carisma di tutti i creatori, una audace, immotivata indifferenza: parlano, e dalle labbra appare un volto, poi una vita in miniatura. (d.b.)

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La vita di Fernando Pessoa si divide in tre periodi. In una lettera al “British Journal of Astrology”, l’8 febbraio del 1918, lo scrittore ammette che sono solo due le date che ricordi con precisione: il 13 luglio 1893, la data della morte del padre per tubercolosi, quando aveva solo cinque anni, e il 30 dicembre del 1895, il giorno in cui la madre si è risposata, evento che coincide con il trasferimento a Durban, dove il patrigno era stato nominato console portoghese. Nella stessa lettera Pessoa segnala una terza data, il 20 agosto del 1905, il giorno in cui lasciò il Sudafrica per tornare definitivamente a Lisbona.

Il primo breve periodo fu segnato da due perdite: la morte del padre e del fratello minore. La terza perdita fu Lisbona, l’amata. Nel secondo periodo della sua vita, a Durban, Pessoa imparò a parlare con agio in francese e in inglese. Non era uno studente comune. Un suo compagno di scuola ha descritto Pessoa come “un piccolo uomo dalla testa enorme. Decisamente brillante, intelligente, piuttosto arrabbiato”. Nel 1902, sei anni dopo essere arrivato a Durban, vinse un premio per aver scritto un saggio sullo storico britannico Thomas Babington Macaulay. In effetti, passava il tempo libero a scrivere o a leggere, aveva già iniziato a forgiare i suoi alter ego immaginari, o meglio, come li definì più tardi, eteronimi, per i quali è famoso e con cui ha scritto racconti e poesie: Karl P. Effield, David Merrick, Charles Robert Anon, Horace James Faber, Alexander Search… In uno studio recente, Eu sou uma antologia, Jéronimo Pizarro e Patricio Ferrari elencano 136 eteronimi, fornendo biografie e bibliografie di ogni autore fittizio. Di questi eteronimi, nel 1928, scrisse Pessoa, “Sono esseri con una vita propria, con sentimenti che non mi appartengono e opinioni che non accetto. I loro scritti non sono miei, ma a volte lo sono”.

Il terzo periodo della vita di Pessoa iniziò a 17 anni, quando rientrò a Lisbona senza fare mai più ritorno in Sudafrica. Per vari motivi – problemi di salute, scioperi studenteschi, tra gli altri – abbandonò gli studi nel 1907, divenne un visitatore abituale della Biblioteca Nazionale, leggeva di tutto: filosofia, sociologia, storia, in particolare letteratura portoghese. All’inizio visse con le zie, dal 1909 in camere prese in affitto. La nonna gli aveva lasciato una piccola eredità, nel 1909 usò quei soldi per comprare una macchina da stampa necessaria per creare la sua casa editrice, Empreza Íbis. La casa chiuse nel 1910, senza aver pubblicato un solo libro. Dal 1912, Pessoa iniziò a collaborare con varie riviste, nel 1915 fondò la rivista “Orpheu”, insieme a un gruppo di artisti, tra cui Almada Negreiros e Mário de Sá-Carneiro, entrando a far parte dell’avanguardia letteraria di Lisbona, coinvolto in movimenti letterari effimeri come l’Intersezionismo e il Sensazionalismo.

Faceva il traduttore commerciale freelance di inglese e francese, scriveva per i giornali, ha tradotto La lettera scarlatta di Hawthorne, i racconti di O. Henry, le poesie di Edgar Allan Poe. In vita pubblicò poco: un esile volume di poesia in portoghese, Mensagem, e quattro saggi sulla poesia inglese. Quando morì, nel 1935, all’età di 47 anni, lasciò nei suoi bauli fatali (almeno un paio) un tesoro di scritture – circa trentamila pezzi di carta – ordinati grazie all’aiuto di amici e di studiosi, che ne hanno esaltato il genio.

Pessoa viveva per scrivere e scriveva su qualsiasi supporto: pezzi di carta, buste, volantini pubblicitari, sul retro di lettere commerciali, nelle pagine bianche dei libri che leggeva. Attraversò tutti i generi – poesia, posa, teatro, filosofia, critica, politica – sviluppando un profondo interesse per l’occultismo, la teosofia, l’astrologia. Ha elaborato oroscopi non solo per se stesso e i suoi amici, ma anche per molti scrittori, per celebri morti come Shakespeare, Oscar Wilde, Robespierre, oltre che per i suoi eteronimi, un termine adatto – rispetto a pseudonimo – per descrivere con maggiore accuratezza l’indipendenza stilistica e intellettuale di queste creature dal loro creatore. Talora gli eteronimi interagivano tra loro, criticando o traducendo uno il lavoro dell’altro. Alcuni erano semplici abbozzi, altri scrivevano in inglese e in francese, i tre eteronimi lirici – Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Álvaro de Campos – hanno scritto in portoghese, producendo, ciascuno, un’opera autonoma, autentica.

Margaret Jull Costa    

*In copertina: Fernando Pessoa nel ritratto di José de Almada-Negreiros (1954), tra i cofondatori di “Orpheu”

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