09 Ottobre 2020

Bisogna leggere per sporcarsi, per sentire addosso il sale. “Cambiare l’acqua dei fiori” sarà pure un caso editoriale, ma non mi ha lasciato nulla. Non basta una buona storia per fare un grande libro

Cambiare l’acqua ai fiori, pubblicato in Italia da Edizioni e/o, e tradotto da Alberto Bracci Testasecca è un caso editoriale. Pubblicato in Francia a febbraio 2018, senza ricevere troppo entusiasmo dai lettori, esce in Italia nell’estate del 2019. Anche qui non svetta nelle classifiche. Ma dopo la quarantena il lettore italiano ha cominciato ad acquistare il libro della Perrin e le vendite sono impennate. Un vero caso editoriale perché pare che tutto sia partito da un passaparola, nessuna pubblicità indotta, solo consigli tra lettori.

Parto dal buono. Il libro l’ho letto, ovviamente in traduzione: diamo onore al traduttore che ha reso fluida la lettura, accattivante. Trascina. La struttura del libro è interessante, fatta a regola d’arte, una alternanza tra la narrazione del presente e quella del passato, con l’inserimento di diari privati, trascrizioni di dialoghi, lettere e ricordi. Quasi tutto in prima persona, una mossa vincente. Non possiamo sottrarci dall’identificarci con ciò che leggiamo.

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Vi faccio un riassunto della storia (solo l’inizio, tranquilli). “I miei vicini non temono niente. Non hanno preoccupazioni, non si innamorano, non si mangiano le unghie, non credono al caso, non fanno promesse né rumore, non hanno l’assistenza sanitaria, non piangono, non cercano le chiavi né gli occhiali né il telecomando né i figli né la felicità. (…) I miei vicini sono morti”. Da manuale. Dovete per forza girare pagina, perché i vicini sono morti? dove siamo? Violette Tuissant (che in francese significa ogni santi) è una donna di circa cinquant’anni che fa la guardiana a un piccolo cimitero. Ci dice subito quello che ci vogliamo sentir dire, è stata una donna annientata, ma l’infelicità non può durare, ha avuto una vita difficile. Un uomo bussa alla sua porta sconvolto, la madre ha chiesto che le sue ceneri vengano deposte accanto alla tomba di un uomo sepolto lì, che però non è il marito. Mistero.

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Il libro me l’ha regalato un caro amico, avido lettore e amante del cinismo originale di Woody Allen (che invece io detesto perché mi dà sui nervi). Insomma un amico poco romantico ecco. Quando ho cominciato a leggere questo libro mi sono chiesta cosa lo avesse spinto a regalarmelo: due anni fa mi ha regalato Chiodi di Agota Kristof per il compleanno. Niente da fare, la quarantena ha spostato davvero gli equilibri. Il libro della Perrin ha fatto impennare le vendite semplicemente perché la storia è ben costruita con un misto di romanticismo, mistero, ambientazione noir che però non crea disgusto o necessità di distanza da parte del lettore. Te lo divori, vuoi sapere come va a finire, chi sono i colpevoli del dolore della protagonista.

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Questo libro scorre, e scorre bene. Quindi ancora grazie al traduttore. Ma ci fermiamo qui coi ringraziamenti. La trama è un susseguirsi di tragedie, piccole gioie, ricadute nell’abisso, frasi scontate sul concetto di morte, frasi buone per instagram, poggiate lì come ricami di uncinetto a bordo di una tovaglietta di cotone semplice. Se volete il libro da ombrellone ve lo consiglio, potete surfare sulla disgrazie e sulle gioie della protagonista in superficie senza mai cadere dall’onda. Insomma un’onda che si appoggia alla riva delicatamente. Esiste un’onda di due metri che poi si poggi buona buona alla riva? No, appunto. Alla fine del libro non vi è rimasto niente. Niente che vi abbia davvero scosso o fatto riflettere.

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Certo, durante la lettura qualche lacrimuccia può pure uscirvi, ma poi? Il fatto che una storia possa essere commovente, organizzata bene per tenervi incollati alla lettura non vuol dire che poi vi lasci qualche deposito. Per me le letture che meritano di essere ‘casi editoriali’ sono quelle che mi lasciano il fondo sporco, quelle in cui alla fine della lettura riprendi il libro in mano per ritrovare i passaggi che hanno aperto dei varchi. Quelle in cui cerchi quella parola che ha grattato la superficie. Una bella narrazione non basta, una bella storia neanche.

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La letteratura dovrebbe non solo raccontare storie ma educare al dolore, alla gioia, alle sfumature dell’amore e della passione. Se da un libro ne usciamo illesi, che senso ha averlo comprato? La parola deve essere usata come un’arma, dobbiamo reimparare a tremare davanti alle storie raccontate. Io non voglio finire un libro e restare quella di prima. Io voglio che un libro mi cambi la vista, come un paio di occhiali nuovi per un miope. Voglio sentire che all’ultima pagina qualcosa dentro di me è stato strappato e poi restituito. Leggere una storia, anche commovente, che non mi si incolla addosso è come andare a fare un bagno in mare senza sentire sulla pelle il sale. Si va in mare per poi mangiarsi reciprocamente la pelle salata. Se volevate restare puliti stavate a casa. La lettura è uguale, leggete per sporcarvi e ripulirvi dopo.

Clery Celeste

*In copertina: Roland Topor, “Pinocchio”, 1972

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