Pensare come Ulisse di Bianca Sorrentino (pubblica Il Saggiatore, 2021) è un libro per salvarci dalla disperata ricerca di un luogo a cui appartenere: ritornando alle parole del mito classico possiamo appartenere a tutti i luoghi, sfiorare quel magico senso della durata di cui scrive Peter Handke e di cui Bianca riporta i versi proprio all’inizio del suo libro. Ritornare al mito è ritornare a se stessi, svolgere un percorso di conoscenza passando per le parole degli antichi, perché per capire chi siamo e dove stiamo andando bisogna sempre tornare all’origine. Con Pensare come Ulisse siamo guidati in un incredibile palazzo di Escher del mito; da ogni scala di concetto, quando pensiamo di aver esaurito l’insegnamento degli antichi, ci ritroviamo ad affrontare un altro paragone, la Sorrentino potrebbe andare avanti all’infinito e non ne saremmo mai sazi, questo libro non dovrebbe avere una fine.
Bianca Sorrentino è una creatura speciale, fatta di un materiale misterioso a metà tra il cristallo e l’acciaio, vi condurrà passo per passo dentro alle fragilità del cristallo del mito e contemporaneamente dentro l’inflessibilità e la durata della potenza di quelle antiche parole di acciaio. Se avrete la fortuna di conoscerla di persona Bianca non smentirà questa sua unica composizione, è una donna contagiata dal mito, con Pensare come Ulisse possiamo imparare a farci contagiare anche noi dalla bellezza dei classici.
Ma Pensare come Ulisse non è soltanto un rimando al mito classico, è una testimonianza concreta di come il mito possa inserirsi nel contemporaneo. La Sorrentino per ogni concetto che prende in esame ci fornisce anche un corrispettivo letterario di alto valore più o meno dei giorni nostri. Come ad esempio la splendida versione del mito del Minotauro di Julio Cortàzar del 1949 dove il labirinto non è confinamento e oscurità della ragione, dove il mostro – l’abominio di un accoppiamento rivoltante tra la regina Pasifae e il toro sacro – è rinchiuso perché l’oscurità lo ingoi, ma “luogo di danze e canti, isola felice di creatività che il potere tirannico non tarda ad assoggettare. (…) Non è cioè il soccombere del mostro a garantire la libertà, ma il perdurare del suo insegnamento, che dell’arte si è nutrito e continua a nutrire. Ancora una volta, cioè, il mito, insieme alle sue riletture più recenti, ci fornisce alcuni strumenti per leggere il presente attraverso una prospettiva mai banale. Questo accade perché la letteratura intercetta un mutamento; il contemporaneo strappa la maschera alle ipocrisie, ne mostra l’inane inconsistenza”.
Compito quindi della letteratura di oggi è quello di trovare il seme del cambiamento dentro all’antica mitologia, ribaltarla se necessario, in ogni modo il mito squarcia la banalità contemporanea, ci ricorda che nonostante i nostri tentativi di originalità (falsati dalla nostra immensa ignoranza) siamo figli suoi. Al mito dobbiamo rendere grazie ogni giorno. Nella pietra di Delfi infatti è incisa la massima dei Sette Sapienti “Conosci te stesso”, un imperativo necessario per condurre una vita all’insegna di “nulla di troppo”, dove l’equilibrio è fatica e costanza, una lotta continua tra le nostre oscurità e le nostre luci. Due sentenze che vengono completamente ignorate e rovesciate nella vicenda di Edipo: l’oracolo di Delfi gli aveva predetto “Ucciderai il padre, sposerai la madre”. La tragedia di Edipo dovrebbe servirci ancora oggi da profondo monito per le nostre scelte quotidiane. La non conoscenza di noi stessi ci spinge a testare sul prossimo le nostre potenzialità e i nostri fallimenti, intrappolandoci a volte in relazioni da cui vorremmo poi scappare. Restando in matrimoni, con tanto di prole, dove le promesse urlano di grida dentro di noi. Essere fedeli alla propria natura non è un lusso, è un sacro dovere. Tradire noi stessi è forse molto peggio che tradire l’altro. Avremmo potuto evitarlo però se solo avessimo riflettuto e fatto nostro l’insegnamento di Edipo.
Per tornare al senso della misura un altro insegnamento valido è quello dettato da Ercole, dove il limite è un concetto sacro, un luogo oltre il quale non bisogna spingersi. In una società che si piega all’estremo in tutti i sensi, dall’obbligo di chiusura che ci opprime da un anno alla frenesia di vivere appena ci viene concesso qualcosa, affamati e disperati, il senso del limite non può che avere una sola accezione: quella negativa. Ecco che la rilettura del mito può invece servire per provare a riappropriarsi di un concetto positivo di questa difficile parola. “Valicare il confine, questo sì, sarebbe stato un eccesso oltraggioso, meritevole di una impietosa punizione: la hýbris, la dismisura, era severamente castigata da Nemesi, la dea della vendetta, dalla cui cintura pendeva un temibile scudiscio, spaventoso strumento di flagellazione. Di fronte alle inopportune sproporzioni, all’esagerata ricchezza, alla troppa felicità o, al contrario, dinanzi a una smodata disgrazia, la potenza divina interveniva a ristabilire l’ordine, per senso di equilibrio e di profonda equità”. Possiamo quindi riflettere come l’esagerazione, l’estremo e le vette che vogliamo raggiungere a tutti costi non siano in realtà così necessari, temere la hýbris può essere un ottimo modo per considerare il percorso già fatto e non solo quello ancora da compiere. Un esempio calzante, che nel tempo è diventato simbolo di un amore tragico e struggente, è la vicenda di Orfeo ed Euridice. “La vita che desideriamo condurre è un’esperienza della vertigine, un tentativo di negare l’esistenza di confini invalicabili, persino di rinviare l’appuntamento con la morte”.
Per chiudere voglio riportare l’analisi splendida che Bianca Sorrentino ha scritto nel capitolo Femminile singolare sul racconto mitico di Atalanta, cantato da Ovidio nelle Metamorfosi. Atalanta era una vergine fiera e inarrestabile, audace nella corsa, emblema ancora oggi di dote sportiva. Un oracolo avverte la ragazza di non sposarsi poiché avrebbe perduto se stessa, senza morire. Nel mito si racconta che Atalanta aveva posto la condizione che si sarebbe sposata soltanto quando un uomo la avrebbe superata nella corsa. Ippomene chiede l’aiuto di Venere per vincere la competizione, la quale gli fornisce l’espediente delle mele d’oro: quando si sente in difficoltà deve gettare per terra le mele e distrarre così Atalanta facendola rallentare. Però Ippomene, vinta la gara, si dimentica di ringraziare Venere e lei per punizione trasforma entrambi in due leoni furiosi, creature che possono solo spaventare incapaci di comunicare anche tra di loro. La Sorrentino ci suggerisce la rilettura del mito da parte di Paola Mastrocola in L’amore prima di noi: “Così l’autrice, con la serenità meditativa del suo dettato, chiarisce il significato del simbolo intorno al quale ruota la vittoria di Ippomene: dietro le mele d’oro non si cela un dono per il giovane che chiede aiuto a Venere, ma una punizione nei confronti della creatura selvaggia che preferisce i boschi all’amore. La dea ‘non può tollerare che una fanciulla preservi la sua bellezza, non la consumi asservendola al tempo che tutto corrompe. Nessuno può esimersi dall’amare, perché nessuno può sottrarsi al tempo. Il legno brucia al fuoco, il frutto cade dopo il sole. Perché la luce declini, dobbiamo farci giorno pieno, accettare questo destino. (…) Se ti sposerai cambierai aspetto, le aveva predetto l’oracolo. Non sarai più tu. Atalanta se lo ricorda. E si chiede ora, negli ozi della sua nata di belva feroce, quale luccichio dorato glielo abbia fatto dimenticare‘”. Pertanto negare se stessi equivale a mutilarsi, a trasformarsi in animali, il peccato di Atalanta sta – per il mito – nell’aver tentato una emancipazione ante litteram, di aver cercato nella corsa e nell’esercizio un luogo di completamento del sé. Su questo nemmeno il mito era pronto ed ecco che sta a noi il compito di poterlo ribaltare e farlo esaltare in tutta la sua feroce verità.
Clery Celeste