11 Settembre 2019

“Se sono perduto io, allora, chi può essere salvato?”. Il capolavoro di Patrick White, il Nobel misconosciuto (ed elogio del suo traduttore, il grande poeta Piero Jahier)

La ‘novità’ più interessante degli ultimi mesi editoriali l’ha pubblicata Mondadori. Si tratta di un romanzo di sessant’anni fa – 1957, per la precisione – pubblicato in Italia da Einaudi nel 1965 e riproposto – al netto di qualche inevitabile correzione – pari pari, oggi, nella traduzione letteraria e sgargiante di Piero Jahier. Il romanzo s’intitola Voss, dal nome del protagonista, in Italia fu edito come L’esploratore, a questo giro hanno sintetizzato in L’esploratore Voss. Il romanzo è stato scritto – nonostante il cognome – da un oscuro australiano, uno dei Nobel per la letteratura più misconosciuti della storia: lui si chiama Patrick White, Voss è un capolavoro. (In ambito editoriale, insomma, c’è poco da speculare, basta ‘vedere’ ciò che già c’è, curare il giardino).

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Che fosse ‘difficile’ lo sapeva anche lui – un uomo difficile che scrive in modo difficile. Thomas Keneally, nell’intro pubblicata in questa edizione Mondadori, recupera alcune parole di White (“Sono un romanziere antiquato, che quasi nessuno legge, o se lo fanno, la maggior parte dei lettori non capisce di cosa sto parlando. Certo, vorrei non aver mai scritto L’esploratore, che ha l’aria di diventare una condanna per tutti, come l’albatro ucciso dal vecchio marinaio”), convincendoci che quel romanzo, sgargiante, burrascoso, gnostico, è l’Everest di un genio. “Ecco qui, dunque, l’albatro di White, un uccello che conserva la propria vitalità prodigiosa e irradia luce dalle sue ali”. Naturalmente, l’oscuro White non può che essermi simpatico.

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Di Australia sappiamo quasi nulla – tolta Nicole Kidman, che però è nata a Honolulu, Nemo, i canguri e Russel Crowe. Picnic ad Hanging Rock, di Peter Weir, può essere un ottimo incipit, La riva fatale di Robert Hughes è un libro necessario, ma L’esploratore Voss è il romanzo fondamentale, una specie di Esodo, scritto con il brio linguistico di un Joyce disidratato dalle pietre, disgregato di luci. La complessità di Patrick White è speculare a quella di Les Murray, solo che il primo è un severo gnostico l’altro un gaudente cristiano.

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Johann Ulrich Voss è un tedesco, eroe dell’espatrio, folle Artù senza terra e con una landa di pietre per Graal, che va per il deserto d’Australia, in una specie di catabasi, di espiazione. L’unica persona che lo svela, che lo ama, che ne comprende il carisma sotto l’occhio allucinato dall’ambizione, in quell’esaurito Ottocento, è Laura Trevelyan: “Lei è così enorme e brutto… La potrei paragonare a qualche deserto con rocce, rocce di pregiudizi e, sì, anche di odi. Lei è così isolato. È per questo che è affascinato dalla prospettiva di località desertiche nelle quali potrà trovare la sua situazione naturale o meglio, glorificata. Lei, a volte, ha qualche parola gentile e un po’ di poesia per gli altri, che presto si rendono conto di quanto si erano illusi. Lei si prende tutto”.

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L’Australia ti evangelizza alla rinuncia, alla deriva tra incubi e perduti, dice il romanzo. La scrittura ha solidità di poema (“Ormai l’erba alta era quasi secca, cosicché ne usciva un sospiro più tagliente quando il vento soffiava… Tutto il giorno cavalli e bestiame nuotavano attraverso questo mare d’erba. Tutta la notte gli animali si satollavano di rugiada e d’erba, ma nei sogni degli uomini onde di erba e onde di sonno diventavano presto un’unica cosa. I cani acciambellati entro ricoveri d’erba tremavano e arricciavano il pelo mentre galleggiavano sui loro sogni”), ed è una malia prodigiosa, serrato round di incanti. Tutti, in fondo, vogliamo perderci, situarci tra gli aborigeni, che qualcuno, un estraneo, ci detti sulla schiena il tatuaggio capace di crittografare il destino, l’evidenza di un futuro.

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Uomo difficile, White, nel 1973, non andò a ritirare il Nobel che gli era stato assegnato. Inviò un amico, l’artista Sidney Nolan. I dotti camerieri di lassù non lesinarono di sottolineare che “Patrick White è un autore piuttosto difficile non solo per le idee e i problemi che immette nei suoi libri, ma anche per l’inusuale combinazione di qualità epiche e poetiche della scrittura”. Nella nota biografica scritta per un volume collettivo sui premi Nobel, White ricorda la genesi di Voss. “Nel 1940 ebbi l’incarico di ufficiale dell’intelligence dell’aereonautica militare, nonostante la mia completa ignoranza in merito. Dopo alcune settimane da capogiro tra i papaveri della RAF, fui inviato a zigzagare tra Groenlandia e Azzorre, in una nave mercantile di Liverpool, zeppa di ufficiali dell’intelligence grezzi quanto me. La parte che ho giocato durante la guerra è stata piuttosto insignificante. Gran parte del tempo lo ho speso in avanzate e ritirate nei deserti, in tende piene di polvere – oppure in quell’altro deserto, il quartier generale. Ho visto quasi tutti i paesi del Medio Oriente. Bombe e colpi di mitraglia, occasionali, avrebbero dovuto riportarmi alla realtà, ma la rendevano ancora più remota. Non potevo scrivere, ma è in quel contesto, nel deserto occidentale egiziano, che ho concepito l’idea di scrivere un romanzo su un megalomane tedesco, un esploratore nell’Australia del XIX secolo”.

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Dopo la guerra, White, che aveva studiato in Inghilterra, prediligendo il vagabondaggio, ritornò in Australia, “acquistai una fattoria nei dintorni di Sydney: durante la guerra avevo pensato con nostalgia al paesaggio australiano. La nostalgia, il cimitero di Londra e l’ignobile desiderio di riempirmi la pancia, mi hanno spinto a bruciare i ponti europei”. Fuori dal mondo, Patrick White fonda, di fatto, la tradizione del romanzo australiano ‘moderno’, con libri, da The Aunt’s Story a The Tree of Man e Voss, più letti altrove che nel suo paese. “I miei libri, ben accolti in Inghilterra e in Usa, erano trattati con disprezzo e incredulità in Australia… Voss, per i critici australiani, era ‘mistico, ambiguo, oscuro’; un giornale pubblicò una recensione dal titolo eloquente, ‘Il romanzo più illeggibile d’Australia’”. Figlio di proprietari terrieri, White lotta per diventare scrittore – “Essere un artista era impensabile. Come tutti i miei parenti, ero destinato alla terra” – l’asma, di cui soffre fin da piccolo, gli consente tanta solitudine, ricoveri e laute e inattese letture. Anche in Italia, pur ornato del Nobel, Patrick White è un autore pubblicato in modo disordinato, letto pochissimo.

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Arroccata nell’attesa, Laura a un certo punto si esaspera. “Ma sapere non è guarire. Era assediata da ogni genere di cupe disperazioni, che potevano diventare ossessioni. Se sono perduta io, allora, chi può essere salvato? era abbastanza egocentrica da chiedersi. Desiderava immensamente scontare le colpe altrui”. Un romanzo bellissimo, crudo – i lampi lirici saranno ripresi da scrittori come Cormac McCarthy – da assumere più che leggere.

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Alle spalle di Patrick White, inevitabile parentesi, c’è il suo traduttore, Piero Jahier, che condivide la stessa bulimia d’oblio. Traduttore di genio, perfino ‘spericolato’, Jahier ha raffinato la lingua di Graham Greene e di Joseph Conrad e di Robert Louis Stevenson, ma ha tradotto anche Murasaki Shikibu, per Bompiani, la gran dama del romanzo nipponico – su pentagramma inglese, però – e il Chin P’ing Mei, il “Romanzo cinese del secolo XVI”. Per lo più, Jahier, affratellato ai ‘vociani’, fu poeta, e grande, del primo Novecento. “Figlio di un pastore valdese, Jahier nacque nel 1884 a Genova, dove il padre era venuto per esercitare il suo ministero, finendo poi suicida per essersi reso colpevole di adulterio. Il figlio del pastore che non aveva potuto perdonarsi il proprio peccato recava nel sangue la tradizione calvinista dei suoi avi e il senso della realtà povera ma dignitosissima dei luoghi d’origine, quella Val Chisone aperta sul Piemonte”, scrive Elio Gioanola. Sostanzialmente, Jahier fu poeta intorno alla Grande Guerra – un secolo fa esce il bellissimo Ragazzo – continuando a meditare i suoi versi – per Vallecchi, nel 1964, cura l’opera smilza delle sue Poesie, morirà due anni dopo – ispirati, anche per misura narrativa, a Walt Whitman, Paul Claudel, Charles Péguy, costruendo una “esperienza estremamente originale, quasi unica in Italia” (Gioanola), “consegnando di se stesso un’immagine invariata di alta fedeltà” (Mengaldo). Bisognerebbe ripescare pure lui, sarebbe un’altra ‘novità’. (d.b.)

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L’angelo verderame che benedice la vallata
e nella nebbia ha tanto aspettato
è lui che stamani ha suonato adunata
è lui che ha annunziato:

Uscite! perché la terra è riferma e sicura
traspare cielo alle crune dei campanili
e le montagne livide accendono di rosa di benedizione

Uscite, perché le frane sono tutte colate
è finita la vita sicura
e sulla panna di neve si posa il lampo arancione

Ingommino le gemme,
rosseggino i broccoletti dell’uva
e tutti gli occhiolini dei fiori
riscoppino nel seccume

Si schiuda il bozzolo nero alla trave
e la farfalla tenera galleggi ancora sul fiato.

Scotete nel vento il lenzolo malato
e risperate guarigione
scarcerate la bestia e l’aratro
e riprendete affezione.

Piero Jahier

Gruppo MAGOG