29 Maggio 2020

“In nome della sicurezza, ci tolgono la libertà. Dobbiamo rischiare”. Patrice Franceschi, elogio dell’avventuriero

Me l’aveva portato mio padre dalla biblioteca. Anche oggi il libro ha una consistenza importante – allora, mi sembrava vasto come un oceano. S’intitolava Le grandi scoperte, stampava Mondadori, era il 1982, il tomo era firmato & disegnato da Piero Ventura e Gian Paolo Ceserani. Prediligevo le escursioni di James Cook, e la sua fine. Ammazzato all’altro capo del mondo – coltelli simili a un vascello, verso peregrinazioni celesti – sviscerato, sezionato, bollito, le ossa esposte come le reliquie di un dio del Pacifico. Poggiavo il dito sulla rotta di Cook, lo ritraevo, dal libro, e l’unghia sapeva di sale, perché l’immaginazione è già fatto, l’intenzione una impresa. Più tardi, rubai dalla biblioteca di uno zio un’edizione ottocentesca dei diari di Cook: non so navigare, per cui m’imbarco nelle narrazioni altrui. Due giorni fa, ho confessato a un caro amico la remota idea di perdermi tra i meandri argentini, lasciando evaporare il nome, dimentico di tutto da tutti dimenticato. Nelle grandi escursioni il desiderio di El Dorado va di pari passo a quello dell’annichilimento.

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Ammetto. Sulla carta d’identità – esisteranno ancora dal momento che lo Stato conosce la nostra identità più di noi stessi? –, alla voce professione, mi piacerebbe la scritta avventuriero. Non per caso ho adornato la mia rivista con quell’aggettivo, avventuriera. Patrice Franceschi, classe 1954, figlio di un generale d’armata, paracadutista, corso, è definito, nelle note Wikipedia che ho sotto mano – francese e inglese – con quell’aggettivo. Avventuriero. Dagli anni Settanta ha compiuto decine di esplorazioni: in Africa – da Rimbaud a Michel Leiris meta sempre fantomatica –, in Amazzonia, in Nuova Guinea, nel Pacifico, ovunque. Con una goletta del 1916, “La Boudeuse”, ha girato il mondo. Tra un viaggio e l’altro, Franceschi scrive. Esploratore e lottatore – è stato in diversi ‘teatro di guerra’, in Kurdistan, in Somalia, in Bosnia – l’anno scorso ha pubblicato con Grasset un “piccolo manuale di combattimento per tempi disorientati”, s’intitola Éthique du samouraï moderne. Mi irrita chi si erge a maestro – ho ancora da meditare la maestria di Giovanni Climaco, di Isacco di Ninive, di Ryokan – eppure Franceschi, spigliato e guascone, ha una sua verità. Nel 2015 ha vinto un Goncourt con Première personne du singulier; quest’anno Gallimard ha pubblicato un suo saggio – che traduco sotto – dal titolo accattivante, Bonjour Monsieur Orwell, ma poco esatto.

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A partire da un dato comune – la società del controllo di massa, lo Stato di polizia permanente sotto egida del virus, il contagio della paura, la coercizione economica – Franceschi più che evocare fatidici mondi orwelliani, insiste su un dato totale. Una vita degna di essere vita è una vita in lotta. Una vita libera. Una vita dentro l’orca del rischio. L’uomo si adatta alle circostanze, in effetti, ma non si lascia addomesticare dalle mode; la sua natura è centrifuga, anche quando è concentrato su di sé, perennemente in viaggio.

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Franceschi, piuttosto, compie un elogio dell’avventuriero nell’era moderna. Parola vetusta, bistrattata, bastonata, avventuriero. Ora stinta nel concetto di “chi va per il mondo in cerca di avventure e di fortuna”, o peggio, di “chi conduce una vita equivoca” (Treccani). Tra avventura e avventatezza non c’è distanza: l’avventuriero è colui che afferra il vento come fosse una corda. Idiozia. L’avventuriero, invece, è chi va a ventura, chi asseconda la sorte, chi accetta modellando l’assalto, chi si costruisce un destino – foss’anche malaugurato, ma proprio. L’avventuriero, ora, è chi prende il virus per un segno e lo sfida, non lascia ad altri il crisma del fato. Una probabile etimologia fa derivare rischio da scoglio: c’è chi si sfracella contro lo scoglio, chi ne fa il proprio regno, chi lo supera, perché del mare è più affascinante l’anomalia che la norma. (d.b.)

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Bonjour Monsieur Orwell

Il progetto di tracciamento digitale delle nostre vite, ai fini di limitare la diffusione del Covid, è difficile da attaccare fino in fondo perché è progettato per “il bene comune”. È quindi molto probabile che faccia parte del nostro futuro, che faccia presa su di noi. Esso gioca sull’erosione della nostra volontà collettiva di vivere liberi, si basa sulle infinite possibilità offerte dalle nuove tecnologie. Dobbiamo, tuttavia, contestarne l’idea profonda: il principio di una sorveglianza di massa, la cui natura totalitaria può sorprendere soltanto un idiota. Le voci che dicono il contrario e parlano di mere fantasie sono invalidate dal fatto che si basano su una nostra colpa presunta: non essere “abbastanza moderni” e non voler fare abbastanza per salvare la vita ai nostri simili. In ogni caso, abbiamo il diritto di considerare che un principio intellettuale e spirituale sovrasti tutto gli altri, dando loro un senso. Questo principio non appartiene al passato, al presente o al futuro. Esso afferma che non c’è nulla che possa essere messo al di sopra della libertà in generale e della libertà particolare, dell’individuo, nemmeno la sicurezza – per non parlare della schiavitù. Libertà, ovvero: capacità di agire e pensare per se stessi.

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Il problema sollevato dal Covid-19 non è dunque sanitario e economico. Prima di tutto, pone in modo brutale l’eterna domanda metafisica sul significato dell’esistenza – una domanda che abbiamo messo da parte. Perché vivere se non esiste la liberta?, questa è la prima domanda che dovrebbe porsi un governo. Le generazioni che ci hanno preceduto hanno dovuto lottare per sostenere il principio della libertà, accentando di mettere tra parentesi la propria sicurezza. Perché dovremmo rinunciare a questo spirito se ci è concessa una mezza libertà o perfino tre quarti di libertà? O si è liberi o non lo si è. Ed è solo quando si è liberi che si vive in un regime democratico. Ciò non impedisce che i cittadini accettino una limitazione temporanea della libertà, se è in gioco l’interesse pubblico, ma questo non significa in alcun modo consentire a mezzi intrusivi di gettarsi nel cuore della nostra vita, della nostra intimità. Nel caso in cui ciò accadesse, andremmo incontro a un pericoloso sconvolgimento dell’idea stessa di democrazia. Se modernità e progresso tecnologico implicano che persone di cui non sappiamo nulla sappiano tutto di noi, dobbiamo rifiutare questo contro-progresso, perché viola la dignità umana. E accettare di pagare il prezzo di questo rifiuto.

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Questa posizione di rifiuto non è nuova, non è un presunto radicalismo: appartiene alla nostra storia e potrebbe diventare di nuovo nostra. Le sue origini risalgono alle scuole stoiche dell’antichità dove la vita libera era il presupposto della vita buona – la paura della morte, in effetti, è l’inizio della schiavitù. Uno dei simboli più potenti di questa visione dell’esistenza è Catone. Quando la democrazia scompare, dopo la vittoria di Cesare su Pompeo, Catone si suicida, ritenendo che vivere in una dittatura significhi una non-vita. Oggi, ovviamente, non occorre essere tanto estremi, ma la lezione di Catone è utile. Insegna che se vogliamo continuare a porre la libertà sopra ogni altra cosa, dobbiamo mettere in discussione tre concetti che riguardano tutti: sicurezza, rischio, morte.

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La morte, prima di tutto. Non ci è più familiare. Il terrore che ispira ci spinge ad accettare senza difficoltà ciò che una volta avremmo recisamente rifiutato. Settant’anni di pace e di prosperità ci hanno allontanato dalla tragedia della vita e della sua finitudine, ancora riservata ad altri popoli, di cui ammiriamo, da lontano, le prove incessanti. Ciò non significa screditare gli inestimabili progressi portati dalla pace, sarebbe ridicolo, ma capire che quegli stessi progressi hanno reso la morte un tabù e questo comporta delle conseguenze sul prezzo che siamo disposti a pagare per la nostra libertà.

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Il rischio. Qualsiasi cosa pensiamo, esso è consustanziale alla vita. Appartiene alla nostra umile condizione mortale. Fino a poco tempo fa ammiravamo gli uomini in grado di raggiungere il loro obbiettivo varcando grandi rischi. Per inventare, scoprire, progredire, devi prenderti un rischio. Tutto questo è finito. Nella nostra era, post-eroica – dove la fine del coraggio è stata teorizzata per decenni – il rischio ha cambiato valuta. È diventato riprovevole e condannabile, è qualcosa da evitare in ogni circostanza. Il tempo presente ci impone di fare di tutto per vivere senza rischi. In ambito militare questo rifiuto ha portato al concetto di “guerra con zero morti”, che è manifestamente impossibile – a meno che non accettiamo di perdere tutte le guerre, cosa che in effetti sta accadendo.

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La sicurezza, infine. È stata sempre una delle ricerche dell’umanità, ma senza avere la precedenza sul resto. Una delle equazioni della vita ci insegna che esiste una relazione costante tra sicurezza e libertà: aumentare l’una significa ridurre proporzionalmente l’altra. Per molto tempo, abbiamo bilanciato in modo intelligente questo rapporto, garantendo una vita pressappoco sicura e pressappoco libera in un mondo imperfetto, fugace, instabile. Di recente, abbiamo infranto questo patto per fare della sicurezza il nuovo standard delle nostre società, relegando la libertà a un accessorio opzionale. Nella lotta contro il virus, le “personalità” che ci impongono di cedere una parte della nostra libertà in funzione della “tracciabilità digitale” sono la maggioranza. Le ascoltiamo anche se non possiamo non addormentarci di fronte alle parole rilassanti, mediatrici di nuove ipotetiche garanzie, come “dati anonimi”, “aggregati”, “consenso informato”, “eccezione digitale”. Una neolingua si va formando.

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Chi parla di restrizione delle libertà pretendendo che questa restrizione sia temporanea, ignora il funzionamento della natura umana e la sagacia del potere. Si rifiuta di vedere o di capire che quando si tratta di controllo e di progresso tecnologico, non si torna più indietro. La sorveglianza digitale è così efficace che vi ricorreremo di continuo, perché ci sarà sempre un “virus” a minacciarci. Avrà altri nomi – “terrorismo”, ad esempio – che giustificheranno il controllo continuo, finché non diventerà norma. Accettare oggi una simile restrizione significa mettere in moto una marcia irreversibile, intraprendere una scalata fatale, accettare la rottura della diga.

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Il buon senso ci obbliga a non fare altri passi sulla scala del totalitarismo che minaccia le società moderne – un totalitarismo che non uccide ma tacita la vita. Senza negare la sofferenza e l’assoluta necessità di lottare insieme, non esiste un rischio di morte tanto alto da giustificare la scomparsa delle molte libertà comuni che abbiamo già perso e che rendono ognuno di noi un uomo autentico e non un animale domestico. Dobbiamo difenderci, ora, perché, al di là della crisi sanitaria che stiamo attraversando, i tempi non sono mai stati tanto orwelliani. Nel suo trattato Sui doveri, Cicerone scrisse, venti secoli fa: “Quando le circostanze e le necessità lo richiedono, dobbiamo entrare nella mischia e preferire la morte alla schiavitù”. Questo pensiero agisce nel profondo della nostra cultura, non è invecchiato, può applicarsi perfettamente all’attuale pandemia. Essere liberi o soggiogati: devi scegliere. Di modo che non esista un giorno la domanda: libertà?, perché?

Patrice Franceschi

*In copertina: Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà (1852-1905), grande esploratore naturalizzato francese, fotografato da Nadar

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