13 Luglio 2020

“Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto in ogni mio intuire”: un monologo per Pier Paolo Pasolini

Essere. Questo è il problema. O meglio poter essere. Perché qualcuno inciampi sull’imprevisto o perché qualcuno, almeno, lo veda. Non può esistere un bottegaio che non sia masticato dalla grande distribuzione, non può esistere un operaio che non parli la lingua di un amministratore delegato o che non aspiri a farlo ricacciando la sua rabbia nello stanzino delle riparazioni, non può esistere un legame, sarebbe troppo stringente, assai vincolante, vieppiù deprimente. E neppure una cesura reale. Solo il farsi da soli nel rullo delle occasionali “connessioni”. Rapide e indolori. Niente direzioni, nessuna decisione. Solo opportunità, anzi “opportunities”. Intermittenti, luccicanti. Un neon buono a ipnotizzare moscerini. Luce per anime elettriche. On off. Senza nulla negli intermezzi di questa alternativa apodittica che brucia rapidamente, continuamente. E non s’arresta, esattamente come tutto il resto. Non resta che dibattersi nel dibattito. Far controversia senza esser contro né verso alcunché. Riavvolgersi nel nastro da pacchi dell’inquietudine, d’una posa pensosa, del ti regalerò una rosa, del basta odio, del prima gli italiani, i mulatti, i cremisi, sedotti da pixels scambiati per visi e pure in certi gesti che paiono solidali non c’è più un individuo solo sequenze seriali. Ora quale tensione ideale, quale cultura, può crescere nell’arsenale privato in dotazione ad ogni ego che di nulla ha cura, che niente può coltivare, poiché ogni attardarsi sull’intelletto cosciente ha il fiato corto contro la formidabile macchina del ciarlare corrente che automatizza ogni vivere e qualsivoglia filosofare come fosse un aggeggio del linguaggio, un arnese metallico per etichettare. Così l’azione, la virtù, la sapienza, il dileggio, ogni arguto motteggio, persino un freddo libeccio di trivialità lerce, non sorge da chi vive pensa e si concepisce, ma è mera merce.

Fabbricata per crepitare a gettone nello sguardo di chi la crede autentica. Per essere ammirata. Per attirare l’occhio come un luccichio. E farsi luce, evidenza senza ombra o dubbio. Accecare come piatto bagliore. Una patina luminescente che incendia la scelta e di mercanzie, tra cenci di spirito e morsi d’attrattiva, innalza l’aguzzo monte e fa dell’accesso all’uso, del consumo, l’orizzonte. Sviluppo, progresso, conservazione, innovazione, parole calamitate dalla medesima agnizione. Chi ne vide l’ustione, chi ne percepì le ferite, prima ancora che all’incendio annichilente fosse abbinata musica da pianobar? Chi per primo scorse la morte, dietro all’alme troppo pianeggianti e ai sorrisi cartonati?

Chi riuscì a vedere la mano di mazzieri invisibili protetta e accarezzata dai variopinti cortei contro mazzieri inesistenti? Un volto antico che sa vedere la ferita del sole e scovarvi dentro tutte le domande dimenticate e sacrificate a un’idea tecnica e organizzativa dell’esistere. Il corpo della voce che ancora pronuncia quelle domande è di Pier Paolo Pasolini. Vedere il contrario, il differente, l’assurdo, l’osceno, immergersi nelle contraddizioni, viverle. Essere contraddizione.

Per cogliere il tempo odierno meccanizzato e la sua asseveratività da automa, l’innaturale chirurgia di promesse stereotipe che tende a eliminare ogni supposto respiro malposto, imporre una qualche temperatura d’aria filtrata e svellere umanità convenzionalmente indesiderata o meglio tollerata dal grembo dell’umanità. Una pedagogia della falsa tolleranza si scopre a normativizzare la coscienza pubblica, sovrappone il nuovo al vero e rende costitutivo il pregiudizio abituando a chiedere solo ciò a cui si è ormai avvezzi ad aver diritto. Al contempo, il diritto si trasforma in una cella confortevole ove il tenore di vita è la vita, i tipi umani che vi scorrono dentro, gli unici ammessi, sono i prodotti, lo sviluppo è il progresso ossia l’accumulo del prodotto. Questo “sistema di produzione” è anche un sistema d’umanità che per la prima volta nella storia, essendo ostile ad ogni alterità in essa non compresa, dagli anni del boom ad oggi, ha definito rapporti sociali sempre più immodificabili. Una vasta e inesauribile rappresentazione dove i chierici dei diritti concessi hanno la fame vuota e oggettiva degli acquirenti, il loro apostolato estremistico altro non è che la rabbia del borghese povero contro il borghese ricco, del borghese giovane contro il borghese vecchio, del borghese piccolo contro il borghese grande. Un’inconscia guerra civile su cui in molti appongono abusivamente un cartello luminoso con le insegne intermittenti: “Lotta di classe” “lotta tra i sessi”, “lotta tra nazionalisti e internazionalisti”. Et cetera. La moltiplicazione di queste variopinte battaglie promozionali è soltanto un atto di svuotamento dei conflitti reali e concreti, la sorgente di moltitudini di indossatori d’ una camicia di forza su misura. Nessun regime era arrivato a tanto. Pasolini è inquietudine e pietà, rabbia e perdono per questo esercito di uomini mutanti, contingente immenso e inutilmente aggressivo che cambia automaticamente e per conto terzi e si fa cosa senza rapporto alcuno con la cosa, si indigna senza indignazione, si impegna senza impegno, ha smarrito qualunque espressione realistica e i suoi membri sono puerilmente attivi come una povera generazione calvinista che avrà lacrime senza vita, perché non saprà neanche riandare a ciò che “non avendo avuto non ha nemmeno perduto” e ora “osa”, usa parole libertarie per meglio omologarsi e omologare o per professionalizzare chierici zelanti di un tecno nichilismo servile con una sempre nuova e pubblicitaria morale commerciale di passioni da esibire.

Lo scrittore friulano sentiva la separazione dal bazaar dell’esistenza per via della sua disperata vitalità, una diversità degradante, un non poter più essere compreso. Avvertiva l’estraneità da un tempo algido metallico, umiliante sofferto fino all’istante in cui, per dirla con Giovanni Testori, “si resta soli, prigionieri senza scampo, dentro la notte che è negra come il grembo da cui veniamo e come il nulla verso cui andiamo, quando comincia a crescere dentro di noi un bisogno infinito e disperato di trovare un appoggio, un riscontro, di trovare un qualcuno che ci illuda, fosse pure per un solo momento di poter distruggere quella solitudine, di poter ricomporre quell’unità lacerata”. Ed è proprio mentre sta cercando la persona che interpreterà Gesù nel Vangelo secondo Matteo che annota:

“Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto
in ogni mio intuire. Ed è volgare,
questo non essere completo, è volgare,
mai fu così volgare come in quest’ansia,
questo “non avere Cristo” – una faccia
che sia strumento di un lavoro non tutto
perduto nel puro intuire in solitudine,
amore con se stessi senza altro interesse
che l’amore, lo stile, quello che confonde
il sole, il sole vero, il sole ferocemente antico,
– sui dorsi d’elefante dei castelli barbarici,
sulle casupole del Meridione – col sole
della pellicola, pastoso sgranato grigio,
biancore da macero, e controtipato, controtipato,
– il sole sublime che sta nella memoria,
con altrettanta fisicità che nell’ora
in cui è alto, e va nel cielo, verso
interminabili tramonti di paesi miseri…”

Fabrizio Baleani

*Il testo di Fabrizio Baleani, “La pelle. Biografia corsara”, è un monologo radiofonico sul corpo scritto di Pier Paolo Pasolini, andato in onda su Radio Nuova in Blu; l’immagine in copertina è tratta da qui

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