05 Giugno 2020

Parliamo perché è bello (anche se non abbiamo nulla da dirci). Piccolo discorso sull’incomunicabilità: da Pirandello a Kafka, da Shakespeare a Wislawa Symborska

“Come sono sciocchi” scrive Pirandello, “tutti coloro che dichiarano la vita un mistero, infelici che vogliono con la ragione spiegarsi quello che con la ragione non si spiega!”. Domande e spiegazioni, messaggi, simboli, significati – di questo si compone il tessuto della rete che ci unisce in quanto esseri umani. La parola come simbolo, spiega Susanne Langer, rappresenta la linea di confine tra Umano e Animale: di qua l’essere razionale e parlante, di là la bestia. Tuttavia, sempre secondo la Langer, il linguaggio simbolico con cui ci esprimiamo è puro artificio, e come tale confinato nella sua limitatezza. Se le parole che usiamo per comunicare sono condannate a restare a un’ineluttabile anche quando minima distanza dall’oggetto che vogliono significare, perché ci ostiniamo a parlarci?

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L’etimologia stessa della parola discorso è legata a un senso confusione: il latino dis-cursus significa “correre di qua e di là”, “scorrere”, e infine “trascorrere con la parola da una cosa all’altra”. Ecco allora che la terminologia del parlare ci suggerisce – suggerisce perché non può realmente dire – che comunicare in maniera chiara non è possibile. Che un’adesione completa tra significato e significante, tra essere ed esprimere quello che si è, semplicemente non è raggiungibile. E il poco che abbiamo a disposizione sono compromessi e approssimazioni.

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Il linguista Roman Jakobson ha schematizzato il sistema della comunicazione verbale identificandone sei aspetti. Quando la comunicazione avviene sono sempre presenti sei fattori: il locutore, il messaggio che viene comunicato, il destinatario che lo riceve, il contesto in cui i due si trovano, un codice comune agli interlocutori attraverso cui comunicare (la lingua), e una connessione che è condizione necessaria affinché locutore e destinatario siano disposti ad esprimersi e ascoltare. Questo modello, qui semplificato, serve a dare appena un’idea di quanto sia complesso il sistema su cui si basa anche la comunicazione più semplice. L’interazione tra soggetto parlante e ricevente non può prescindere da quello che essi sono e dal modo in cui pensano. Non può prescindere quindi da tutta la loro storia precedente. Nel momento in cui avviene il contatto, in cui cerchiamo di trasferire il contenuto del nostro pensiero in un sistema di pensiero altrui, le inevitabili differenze tra i due soggetti creano nel mezzo come una nebbia, impediscono una comunicazione trasparente. Non si può mostrare il pensiero, e così siamo condannati al sistema di Jakobson: io, te, e nel mezzo la solita distanza.

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La poetessa e premio Nobel per la Letteratura (1996) Wislawa Symborska esprime con arguzia l’eterno conflitto tra dire e voler dire nella sua poesia Sulla Torre di Babele. Lo esprime efficacemente perché lo mostra senza parlarne. Con delicatezza, si limita a indicarlo al lettore. Nel testo due amanti, o quelli che presumiamo tali, provano a parlarsi e immancabilmente non ci riescono. “- Che ora è? – Sì, sono felice” recita il primo verso. I due continuano a parlare in quella che in definitiva è la maniera più onesta possibile: parlano di due cose diverse. Serenamente, rinunciano a trovare il tanto agognato punto di contatto – e finalmente si ritrovano vicini. “Non so che ora sia” termina la poesia “e non lo voglio sapere”. Nei versi della Szyborska le parole non significano né vogliono significare: semplicemente sono. Si possono allora, e finalmente, apprezzare in tutta la loro bellezza. E come suonano dolci una volta alleggerite dal peso del senso. Il titolo stesso della poesia merita una riflessione: l’immagine è presa in prestito – forse meglio rubata – dal libro della Genesi, ma in realtà ha radici molto più lontane. La Torre di Babele, in tutte le sue versioni, rappresenta il punto nel tempo in cui capirsi è diventato impossibile, la creazione di quel piccolo vuoto che c’è tra tutti gli uomini, eternamente separati tra loro dall’invenzione della lingua.

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E ancora si ritrova in Kafka la stessa nozione. Nella celebre conclusione de Il Processo: “la logica è incrollabile, ma non resiste all’uomo che vuole vivere”. Il protagonista cerca di spiegarsi durante tutto il romanzo senza mai riuscirci e il lettore percepisce tangibile l’incomunicabilità della sua innocenza – e la frustrazione che questa genera. Il linguaggio è questione di vita o di morte anche nell’outsider di Albert Camus, ma in questo caso secondo l’autore “l’eroe del libro è condannato perché si rifiuta di prendere parte al gioco”. Meursault muore perché si rifiuta di mentire e di conseguenza, spesso, di parlare. Simboli ai simboli e reale al reale.

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“She speaks,” dice Romeo della sua Giulietta sotto il noto balcone “and yet she says nothing”. Parla, Giulietta, eppure non dice niente. L’eloquenza è tutta nei suoi occhi, che Shakespeare fa stelle. Nello spazio tra il balcone e la strada stanno parole e fraintendimenti. Al contrario degli amanti della poesia della Szymborska, Michele e Lisa ne Gli Indifferenti di Moravia parlano la stessa lingua – il lettore segue un dialogo che ha perfettamente senso, non fosse per i pensieri e le intenzioni dei due che incastrati tra le battute non potrebbero essere più distanti. Tra le pagine del romanzo che raccontano il loro primo colloquio si coglie la quintessenza dell’incomunicabilità.

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Quando la comunicazione si presta al linguaggio amoroso le complicazioni aumentano. Invece di oggetti o idee si pretende ora che le parole esprimano sentimenti. “Una parola dopo l’altra” scrive Barthes in Frammenti di Un Discorso Amoroso, “mi logoro a dire in modo diverso la stessa cosa della mia Immagine, a dire impropriamente quello che è proprio del mio desiderio”. Lo studioso parla di “limite estremo del linguaggio”: parlare si può, ma esprimersi con le parole è possibile solo fino a un certo punto. E così è comune agli amanti la sensazione di insuccesso che viene dal non riuscire a dire. “Ti amo, ma non riuscirò mai a spiegarti quanto”. Le parole non sono un mezzo adeguato né sufficiente.

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È possibile che sia necessario accettare una realtà diversa: che, platonicamente, significato e significante, parola e oggetto, realtà e linguaggio semplicemente appartengano a due Mondi diversi. L’uno immagine dell’altro, ma mai coincidenti. È forse il caso di darla vinta a Pirandello, e che i simboli restino tali. Che la realtà, al di sotto e al di sopra del simbolo, resti inespressa, aleggiante, onnipresente. Come nei ritmi della musica africana: nel modello occidentale a cui siamo abituati e in cui veniamo educati, chi suona uno strumento lo sa, suonare senza contare non sembra possibile. Niente musica senza numeri. Eppure c’è: basta guardare un po’ più in là e in un modello uguale e opposto, quello della musica africana appunto, per trovare musicisti che alla domanda “questo come si conta?” ti guardano storto. Il ritmo è ritmo, e coi numeri non ha nulla a che fare. Una volta che si accetta questa idea il contrario suona decisamente assurdo. C’è, esiste ed è possibile un universo in cui si lasciano i simboli ai simboli e la musica alla musica.

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Ma è possibile fare lo stesso con realtà e parole? Si può accettare davvero la parola come vuoto simbolo? Se si, allora perché continuare a parlare, scrivere, comunicare? Qual è il punto? E come non sfociare dopo queste riflessioni in un facile e francamente piuttosto scontato nichilismo?

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La risposta è semplice: ci parliamo perché è bello. Perché cogliamo la bellezza anche nella frustrazione, e perché in una società in cui sembriamo essere ossessionati dall’efficacia e terrorizzati dal fallimento è un modo per ammettere che va bene non riuscire. Come nel mito di Sisifo continuiamo a spingere la nostra roccia sul pendio di una montagna, a sperare ingenuamente, con tutta l’innocente purezza che abbiamo, che alla fine ce la faremo. Alla fine capirai, saprai quello che sto cercando di dirti e io capirò quello che dici tu – alla fine ci incontreremo. Il masso però continua a rotolare, caderci addosso, schiacciarci. Ancora una volta mi hai frainteso, ancora una volta non so. Il peso della pietra toglie il respiro. Puntualmente ci rialziamo e continuiamo: sappiamo che sotto il peso c’è solo la morte. Ricominciamo a spingere il sasso, con tutta la fatica che comporta. Ogni volta un po’ più consapevoli, eppure inarrestabili. Non c’è nessun motivo in fondo per cui non dovrebbe essere così.

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Si dovrebbe anzi parlare sempre, dare la forma più bella possibile al pensiero e fare uso abbondante e sensibile di questo strano e artificiale sistema di simboli, la parola, che è tutto ciò che abbiamo a disposizione. Anche se parlare significa mentire, anche se – e anzi proprio perché – afferrare il reale non è possibile. Anche se nessuno capirà mai. Si dovrebbe, anche, rispettare ogni tipo di linguaggio, e prestare attenzione alle parole di cui di compongono i nostri dialoghi, prendersi del tempo per sceglierle con cura e poi divertirsi mentre si corre di qua e di là. Mentre ci si corre incontro senza raggiungersi mai. Si dovrebbe imparare a riconoscere e amare i limiti del nostro modo di esprimerci. Anche imparare a stare zitti, quando serve, ad attendere, a guardarci, ascoltarci, interpretarci meglio. E poi perderci al confine, immersi nella nebbia. Arrendersi davanti all’idea che tu non potrai mai conoscere il contenuto del mio pensiero e imparare ad apprezzare l’interpretazione che ne dai anziché combatterla. Abbracciare la frustrazione. Allora nell’inevitabile distanza tra me e te non ci sarà più vuoto ma soltanto meraviglia.

Matilde Moro

*In copertina: Piero della Francesca, “Doppio ritratto dei duchi di Urbino”, 1465-1472

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