06 Maggio 2019

Ci siamo costretti a vivere in un inferno: 45 anni fa Paolo Villaggio aveva capito tutto. In appendice, la Biblioteca del ragionier Fantozzi (tra Borges, Kafka e il fatale Felisberto Hernández)

Un nome e un concetto dicono tutto. E anche una osservazione, non proprio marginale.

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Il nome è Felisberto Hernández. Uruguaiano, pianista autodidatta che s’industriava ad accompagnare i film del cinema muto, è uno dei titanici scrittori sudamericani del Novecento. Me ne parlò Hebe Uhart, la scrittrice argentina morta lo scorso autunno, “legga Felisberto Hernández, il grande narratore uruguaiano, è il mio maestro”. Io non lo conoscevo. Lui invece sì. Paolo Villaggio, intendo.

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Felisberto Hernández è stato tradotto poco in Italia. Nel 1974 Einaudi esce con Nessuno accendeva le lampade. Poi più nulla, prima della recente riscoperta, dal 2012, da parte de La Nuova Frontiera. Beh: il 12 ottobre del 1975, davanti ai microfoni della Radiotelevisione svizzera, stimolato da Arturo Chiodi, appena reduce dal primo Fantozzi (regia di Luciano Salce), Paolo Villaggio cita Hernández tra i suoi scrittori preferiti (“una grande scoperta è stata per me un quasi sconosciuto pianista uruguaiano che si chiama Felisberto Hernández. Mentre suonava nei pianobar di Montevideo ha scritto in sessant’anni sette raccolte di racconti, che sono sette gioielli, il meglio della letteratura sudamericana”).

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Pazzesco, fantozziano. Che scelta particolare, da gourmet della letteratura. Dal dettaglio occorre risalire, a ritroso, all’osservazione. Paolo Villaggio era un grande lettore. Un maniaco del libro. Passata la “mania giovanile che è Hemingway”, si ciba di Borges e di Bulgakov, di Kafka e di Musil, dimostrando inesauribili raffinatezze nel gusto. Il dettaglio, appunto, rivela il dato di fatto, troppo spesso dimenticato: Villaggio, poi triturato dal successo clamoroso di Fantozzi, nasce come scrittore. Fantozzi, intendo, nasce, nel 1968, come soggetto letterario, su L’Europeo diretto da Tommaso Giglio – e su cui scriveva Oriana Fallaci – diventa libro nel 1971, per Rizzoli, poi torna in libreria nel 1974 (Il secondo tragico libro di Fantozzi, sempre Rizzoli), per poi, infine, tramutarsi in film. Di libri su Fantozzi, Villaggio ne scriverà ancora tanti, fino a Fantozzi totale (Einaudi, 2010) e a Fantozzi rag. Ugo. La tragica e definitiva trilogia (Rizzoli, 2013); di libri in generale, Villaggio, micidiale aforista, continuerà a scriverne sempre.

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Il Villaggio bibliofilo è una delle scoperte esaltanti in Kafka? Qui siamo all’apice della piramide nevrotica, libro d’arte (con copertina realizzata appositamente da Ugo Nespolo) edito da De Piante Editore. L’altra è la coerenza etica (diciamo anche ‘politica’) che fonda l’invenzione di Fantozzi. Ecco il concetto che vi ho promesso in cima. “L’uomo credeva di essere felice con le autostrade, le macchine, e gli intasamenti, mentre in realtà il mondo in cui è costretto a vivere è un inferno”. Rotondo, preciso, azzeccato, da indossare ogni giorno. 45 anni fa. Villaggio aveva capito tutto.

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In particolare, sentite cosa dice Villaggio. “Ora vanno di moda, rilanciati dal cinema americano, il tema della nostalgia e il catastrofico. A mio avviso la risposta italiana alla catastrofe hollywoodiana è appunto Fantozzi, cioè il piccolo impiegato, l’omino che per anni è vissuto nel boom consumistico e che ha ricevuto da tutti i mass-media uno stimolo preciso, quasi un ordine, a consumare, ad acquistare, a vivere secondo determinati schemi. E lo schema di questa filosofia era precisissimo: se compri e ti attrezzi in determinati modi, cioè secondo la chiave consumistica, potrai essere felice e vivere contento per mille anni”. In realtà, Villaggio lo sapeva ieri noi lo ribattiamo oggi, si consuma per frustrazione, il consumo non rende felici, più acquisti meno hai. Uomo, animale viziato dal tormento. Bisogna imbracciare questo Villaggio, allora, come manuale per scampare dalla palude della mefistofelica infelicità. (d.b.)

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Per gentile concessione di De Piante Editore si riproduce un brano da: Paolo Villaggio, “Kafka? Qui siamo all’apice della piramide nevrotica” (2019).

Ho avuto una mania giovanile che è Hemingway. Quando lo rileggo torno ogni volta a quel tipo di emozione provata quando lo lessi a sedici anni, cioè un’emozione molto viscerale, epidermica, fatta di commozioni rabbiose. L ’intento di Hemingway era un po’ quello in effetti. Era un segno dei tempi, un grande della letteratura, però lui era anche un grandissimo giornalista che aveva mitizzato la virilità e determinati modi di vivere. Ogni tanto rileggo Morte nel pomeriggio, che è un trattato di tauromachia che gli spagnoli contestano e di cui non vogliono sentir parlare. Poi in quel periodo mi è piaciuto molto il mondo di Zelda e di Fitzgerald. Poi ho scoperto improvvisamente, a trent’anni, un grandissimo sudamericano: Borges, un matematico che fa costruzioni quasi perfette. I racconti La biblioteca di Babele e La lotteria di Babilonia sono straordinari, così come Funes, o della memoria. Però Borges è un autore poco fertile che ha dedicato un’intera vita allo studio della cultura europea. Poi con Marquez e Cent’anni di solitudine, che naturalmente ho letto con grande entusiasmo, gli editori italiani hanno scoperto tutti gli altri autori sudamericani. Ma una grande scoperta è stata per me un quasi sconosciuto pianista uruguaiano che si chiama Felisberto Hernández. Mentre suonava nei pianobar di Montevideo ha scritto in sessant’anni sette raccolte di racconti, che sono sette gioielli, il meglio della letteratura sudamericana. C’è un po’ di tutto: il surrealismo di Marquez e il rigore matematico di Borges. Un altro grande è Bulgakov: la sua opera Il maestro e Margherita è la più poderosa, incredibile e straordinaria satira dello stalinismo. Credo che nulla di più sferzante sia stato mai scritto contro i regimi totalitari. Basta ricordare la rappresentazione in teatro di Woland con i suoi aiutanti: un pezzo memorabile. Dimenticavo un altro mio grande amore giovanile, forse il più grande: Kafka. Qui siamo all’apice della piramide nevrotica. Le nevrosi kafkiane sono di ogni tempo. Mentre l’umorismo invecchia, Kafka e i grandissimi – i classici – non invecchiano mai. Io per anni sono stato in libreria, poi da quando ho incominciato a fare questo lavoro non ho più letto. Per quattro anni non ho più letto niente. Ho fatto una fatica terribile…

Nella mia biblioteca, avevo un mattone grosso, bello, preciso, che avevo quasi deciso di non leggere prima di morire: L’uomo senza qualità di Musil, tre volumi, inquietanti ed enormi. A quarant’anni ho incominciato improvvisamente a leggerlo e sono entrato in una nuova stagione della mia vita. Questo matematico per trentadue anni, tutte le sere, ha scritto un enorme saggio autobiografico sulle mille variegature dell’animo umano. Vi consiglio di leggere Musil, ma leggetelo con attenzione perché c’è tutto. Se volete avere la chiave per risolvere i vostri problemi, per capire che cos’era l’Europa pre-Rivoluzione russa, pre-Prima guerra mondiale, che cos’è il nazismo e l’anti-ebraismo in Germania, per capire l’uomo del nostro secolo, in Musil la trovate, la trovate in questo signore di Klagenfurt che faceva il matematico. Quando sai che Fantozzi è stato scritto in tre settimane e che in genere un libro oggi viene forgiato, cucinato e poi messo alle stampe in due o tre mesi o in un anno, e vieni poi a sapere che Borges ha scritto le sue opere in una vita, che Felisberto Hernández ci ha messo sessant’anni, che Marquez ha vissuto dodici anni in una pensione di Parigi scrivendo Cent’anni di solitudine e che il grande Robert Musil ci ha messo trentadue anni per scrivere il suo capolavoro, allora ti rendi conto che forse loro meritano un’attenzione particolare.

Paolo Villaggio

Gruppo MAGOG