“Pangea” va in Finlandia. In altri termini, dovrei dire, “vado a fare un ciclo di incontri su Dante”. Silenzio di rito. Pare che mi appropinqui a vincere il Nobel per la letteratura, invece sono sempre il solito, svanito, lunare, spiantato d.b., più minuscolo di così – sminuirsi è vanità decuplicata – si diventa niente. L’occasione finlandese, però – di lì conosco soltanto il poema nazionale, il ‘Kalevala’, Babbo Natale e la Lapponia di Johan Turi – è francamente imperdibile. Grazie al Parco Letterario Terre di Dante, per tramite del presidente, Ivan Simonini, che è l’anima delle gloriose Edizioni del Girasole in Ravenna, porto Dante al Nord, sperando di incedere nella purezza, da sconcio quale sono. Parlerò di Dante e dell’esilio come stigma poetico. Qui un brano della conferenza, per chi ha voglia. Da lassù, ogni giorno, vi farò le cronache finlandesi – ma vi rendete conto?, leggono Dante sotto l’aurora boreale, studiano la ‘Commedia’ a dorso di renna… Spero di avere freddo. (d.b.)
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L’esilio è la condizione che condiziona lo scrivere. Dal momento che ogni scrittura è un ritorno, la natura dello scrittore, del poeta, è l’esilio. Naturalmente, l’esilio non è per forza una condizione biografica, come quella di Dante, ma è soprattutto uno stato esistenziale. Lo scrittore è in esilio, ad esempio, dal tempo di questo mondo – il tempo della letteratura e della meditazione ha diverse geometrie, vertigini, galassie rispetto a quello misurato dall’orologio – è in esilio dalla lingua del proprio tempo perché insegue la promessa di una lingua definitiva, più definita.
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L’esilio di Dante, anzi tutto, è un esilio dal linguaggio, è una battuta di caccia. Nel De vulgari eloquentia Dante rappresenta la lingua che cerca, che tenta, il volgare, nella figura della pantera. “Abbiamo battuto i boschi e i pascoli d’Italia senza trovare la pantera che inseguiamo… nell’intento di avviluppare nei nostri lacci questa fiera che fa sentire il suo profumo ovunque senza mostrarsi in nessun luogo”. La pantera, inafferrabile, è figura, secondo i bestiari medioevali, di Cristo: “dopo ogni pasto questa belva dormiva per tre giorni e al proprio risveglio ruggiva emettendo un fiato così profumato da attirare tutti gli animali eccettuato il dragone”. In effetti, è nell’esilio che Dio sancisce un patto con Israele: la “promessa” esiste perché si è conficcati nell’esilio. Nel Vangelo, poi, i cristiani, non circoscritti in Israele, sono in esilio da Dio, ogni terra è una promessa, esiliati perfino dalla lingua ebraica (il “dono dei linguaggi” che accade durante la Pentecoste; San Paolo, ebreo, scrive in greco e muore a Roma – il cristiano è espatriato, la vera patria è la ‘vita nuova’, in Cristo).
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La Commedia è il racconto di un esilio: Dante è in esilio da sé, è nella “selva oscura”; va in esilio dal mondo – e dal proprio ristretto rione politico, Firenze – negli altri mondi, dove lui è effettivamente espatriato, esiliato: è l’unico uomo in carne e ossa. All’esilio segue, assecondando il racconto biblico, il ritorno, purificati, nella terra, nella promessa.
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Nella Commedia l’Inferno è lo stato de “l’etterno essilio” da Dio; ma in assoluto “essilio” è la vita terrena, un allontanamento da Dio che sarà sanato con la morte. In particolare, quando usa la parola “essilio”, Dante si riferisce a Severino Boezio, l’autore del De Consolatione Philosophiae, un testo che gli è particolarmente caro perché la Filosofia appare a Boezio “dimostrandogli la vanità, la ‘fallacia’ dei beni terreni, e come la vera felicità si trovi soltanto in Dio” (Chiavacci Leonardi). Boezio, come Dante, è un uomo tra due mondi – nel suo caso, quello romano e quello cristiano – che subisce, per la sua ansia di verità, ostracismo da parte del potere, senza indietreggiare dal proprio compito, fino all’estremo. Già senatore di Teodorico, Boezio viene incarcerato e messo a morte nel 526 dal medesimo sovrano per eccesso di onestà nell’esercizio del suo incarico pubblico.
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Boezio è incastonato nel X del Paradiso, nel cielo dei sapienti, quello del Sole, dove sfolgora Tommaso d’Aquino. Il nome di Boezio è esiliato, relegato al mondo carnale, egli è presentato semplicemente come “l’anima santa che ’l mondo fallace/ fa manifesto a chi di lei ben ode/… essa da martiro/ e da essilio venne a questa pace”. Il mondo per sua natura è fallace, perché manca di Dio; il contrasto, poi, è tra ‘martiro’ e ‘pace’.
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Paradiso è il luogo dell’esilio dall’ego, dall’io terreno, defunto. Boezio non è indicato con il nome proprio – d’altronde, chi sceglie Dio in Terra, entrando in clausura modifica il proprio nome, si ri-nomina, sacrifica il nome a Dio. Così, Dante, rivolgendosi alle anime del cielo del Sole non si ‘presenta’ – ciò che si è stati è esilio da ciò che si è, ora, davanti a Dio – ma “Ringrazia”, gli dice Beatrice. “Ringrazia il Sol de li angeli, ch’a questo/ sensibil t’ha levato per sua grazia”. Il ringraziare si associa, si dissolve nella grazia. Quando si prega, si ringrazia, il ringraziamento è inizio e termine del dialogo in Paradiso, il luogo in cui si è ‘graziati’.
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Il Paradiso è il luogo dell’esilio dal linguaggio terreno, umano, parziale; il linguaggio sbanda, si sbriciola, sbava in Paradiso. Continuamente Dante annuncia il fallimento del linguaggio per dire l’indicibile, cioè il mondo dei beati, Dio. Il linguaggio si sgretola fino a disfarsi nel silenzio, come, nella poesia moderna, le poesie di Friedrich Holderlin e di Antonin Artaud, di Giuseppe Ungaretti e di Paul Celan, del tardo Giorgio Caproni e di Yves Bonnefoy. Si scrive dicendo la propria incapacità di dire, soggiogati dalla luce. La formula classica “a l’alta fantasia mancò possa” del XXXIII del Paradiso, non è una ammissione di sconfitta – qui la facoltà di far apparire le cose, la capacità descrittiva muore, manca – ma di abbandono: non c’è più bisogno di pensare, di scrivere, di dar nota dell’invisibile, occorre agire, cioè amare. Eppure, una prima formula è nel X del Paradiso, il grande canto dell’esilio da sé, folgorati dal Sole. “Perch’io lo ’ngegno e l’arte e l’uso chiami/ sì nol direi che mai s’imaginasse;/ ma creder puossi e di veder si brami”. Nonostante io chiami a me ingegno, arte ed esperienza, non potrei dire ciò che ho visto perché il lettore possa immaginarlo. Ingegno, arte ed esperienza sono inutili, ora: al lettore è chiesto il rischio della fede, il ‘creder’, a ciò che il poeta non può più evocare. Ecco il punto dell’azzeramento completo del poeta – che comunque, con monastica ostinazione, continua a poetare, cioè a pregare – e della poesia. Il poeta, in fondo, chiede l’avvenimento di qualcosa che incendi tutte le sue parole, cerca quella cosa per cui non ci sono parole, così vasta da annientare ogni grammatica, ogni definizione.
Davide Brullo