18 Settembre 2018

Oscar Wilde è l’antidoto ai noiosi romanzieri di oggi e Doran Gray è l’influencer che vorrei… Dialogo con Vincenzo Latronico, che ha rifatto il viso al “Ritratto”

In un pamphlet che ho imparato ad apprezzare – all’epoca non mi convinceva punto – che s’intitola Il futuro a vapore. L’Ottocento in cui viviamo (Medusa, 2004), Alessandro Zaccuri, in combutta con Giuseppe Genna, dice, sostanzialmente, che il nostro millennio ha più a che fare con il XIX secolo che con il secolo passato, defunto. Il punto era, anche, letterario: si diceva che in effetti era proprio l’Ottocento, il secolo in cui il romanzo si raffina e si perfeziona in ogni foggia possibile, ad aver dato i libri maggiori, davvero ineludibili. Il Novecento ne è un cugino disfattista, in fondo letterariamente stanco, stantio. Dialogando con Vincenzo Latronico, mi è tornato in testa quel libro. Anche Latronico, scrittore di una certa notorietà (esordio dieci anni fa, con Ginnastica e rivoluzione, per Bompiani, che stampa anche il suo ultimo libro, La mentalità dell’alveare), usa Oscar Wilde come antidoto alla banalità del romanzo odierno. Va detto che Latronico ha coraggio, come coraggio ha avuto il suo editore, Bompiani, che sotto il logo “Vecchio dunque nuovo” ha varato una nuova collana di ‘classici’ – dida ambigua e ondivaga – ri-tradotti da scrittori più o meno grandi. Come a dire, in tempi di macelleria editoriale – si pubblica troppo, di tutto – meglio spingere sull’usato sicuro. Beh, Latronico ha messo penna nel Ritratto di Dorian Gray che tra i ‘classici’ vanta un numero cospicuo di traduzioni (ne ho contate una decina, da quella di Augusta Guidetti a quella Ugo Dèttore, da Benedetta Bini a Franco Ferrucci), con un certo brio. Latronico, che per un attimo è stato tentato a tradurre Il ritratto con il titolo più adesivo “L’immagine di Dorian Gray”, ha agio nell’attualizzare i temi del romanzo, d’indimenticabile potenza suggestiva (“Ovviamente ci sono molte e profonde differenze fra i dandy del XIX secolo e gli hipster del XXI, fra il ritratto di Dorian Gray e il suo profilo su Instagram. Ma ci sono anche alcuni punti di contatto: ed è attraverso di essi che si può cogliere, sotto la patina dell’età e la coltre dello stile, l’attualità di questo romanzo, il fatto che parla di noi”), soprattutto, lo sottrae allo spietato abuso pop che se ne è fatto (“Wilde è stato oggetto di un capillare, spietato processo di ‘baciperuginizzazione’. Un’infinità di frasi più o meno sue, più o meno decontestualizzate, sono diventate aforismi su diari e magliette, epigrafi dolenti di filmacci e romanzucoli, citazioni pensose per dare lustro a un profilo su Facebook. Molte sono tratte da questo romanzo”). Al di là della rumba di speculazioni – a Latronico ho chiesto, anche, di giustificare la sua traduzione – resta lo scintillio emotivo, ogni volta che si entra in Wilde, stilista nelle sintesi estreme, fino a restare memorabile (“Essere un artista vuol dire creare cose belle. Scopo dell’arte è mostrare se stessa e nascondere l’artista. Essere un critico vuol dire tradurre in un’altra modalità o in un nuovo materiale la propria impressione di una cosa bella”; “Non esistono libri morali o immorali. Esistono libri scrit- ti bene e libri scritti male. Nient’altro”; “Tutta l’arte è completamente inutile”), e non se ne vuole più uscire, predati da una scrittura che pare un pitone. (Davide Brullo)

WildeAncora Dorian Gray. Ancora Oscar Wilde. Ma che c’importa, ora, dal punto di vista letterario, di Wilde? Perché ancora ci affascina, Wilde?

Personalmente, credo che certa letteratura di quel periodo – la fine dell’Ottocento, il primissimo Novecento – possa fornire oggi un modello molto più interessante e fertile di tanta parte del canone successivo. Wilde si faceva beffe del realismo di stretta osservanza che oggi sopravvive, sempre più micragnoso, nelle sue iterazioni statunitensi o aspiranti tali; non aveva paura di fare una letteratura di idee, senza che questo gli impedisse di renderla appassionante e accessibile e a tratti anche estremamente divertente. La sua scrittura nasce da una poetica estremamente complessa e rivela una maestria linguistica con pochi rivali, eppure risulta infinitamente più leggibile e generosa di quella che il modernismo ci ha abituati a ritenere ‘letteratura alta’. Oggi la spinta del realismo mi sembra via via più fiacca, e la sperimentazione, qualunque cosa sia, sterile e antistorica; mi pare che Wilde offra una via d’uscita da questa dicotomia un po’ falsa, come anche da quella fra romanzo letterario e di intrattenimento, visto che Il ritratto di Dorian Gray è entrambe le cose. È un romanzo di critica sociale, ma anche – il termine suona quasi anacronistico, il che è già rivelatorio – un libro di fantasia.

Quanto all’importanza, per così dire, ‘sociale’ del romanzo, tu sei esplicito: “Il tema profondo del libro – la negoziazione fra ciò che siamo e come vogliamo farci vedere dal mondo – è la stessa questione psicologica alla base del successo dei social network, e dell’impatto che hanno sulle vite dei loro utenti”. Insomma, Gray è il prototipo dell’instagramer, dell’influencer?

A prima vista il parallelismo è semplice. Come il patto diabolico di Dorian, anche Instagram ci permette di presentarci agli altri nel nostro lato migliore, nascondendo gli aspetti della nostra vita che non corrispondono all’immagine che vorremmo proiettare. E anche in quel caso, come nel romanzo di Wilde, questa discrepanza finisce per generare angoscia e infelicità – e parecchie testimonianze di influencer più o meno pentiti lo confermano. C’è una differenza, però: nel caso di Dorian l’immagine bidimensionale era quella veritiera, da nascondere, mentre la sua vita quotidiana era quella falsa e brillante. Con i social è il contrario. Chiunque li usi molto ha ben presente quel particolare genere di frustrazione, di senso di mancanza, che si ha quando si pubblica una foto con l’inquadratura studiata e i colori sgargianti – o una notizia personale positiva, o una battuta brillante – e all’accumularsi dei commenti e dei like ci si rende conto di quanto poco tutto ciò corrisponda alla nostra realtà; la nostra vita ci appare un filo meno interessante, meno perfetta, di quanto potrebbe essere se solo corrispondesse al nostro profilo. Eppure l’endorfina dell’approvazione, il brivido delle notifiche, ci porta comunque a replicarlo, spingendoci di fatto a insistere in un comportamento che in ultima analisi finisce per svalutare, ai nostri stessi occhi, la nostra vita. Insomma, il parallelismo mi sembrava interessante; e mentre traducevo ho giocato un po’ con l’idea di scrivere una specie di attualizzazione del romanzo di Wilde. Per fortuna ci ho ripensato in tempo.

Nella giustificazione alla traduzione, dici di aver pensato a un titolo diverso, più corrispondente, ‘L’immagine di Dorian Gray’, rispetto al ‘Ritratto’. Ecco, partendo da qui ti chiedo: come sei riuscito a trovare un tuo linguaggio per tradurre uno dei romanzi più tradotti in Italia, per altro da traduttori-scrittori non di secondo piano?

Lo stile di Wilde è tutto giocato su un gradiente estremamente fluido fra alcuni picchi di retorica elaboratissima e un tono generalmente molto scorrevole, vivace. Da autore di teatro Wilde sapeva bene che sarebbe stato inutile o controproducente cercare la naturalezza nella sua scrittura (anzi, la rifiutava esplicitamente): però nella sua voce sempre artefatta non si sente mai la puzza di artificiosità. Ecco: queste caratterizzazioni (‘scorrevolezza’, ‘elaborazione’, ‘artificiosità’) sono sempre relative allo standard cui è abituato il lettore, e lo standard cambia nel tempo: una formulazione che poteva parere limpida cinquant’anni fa risulterà probabilmente un po’ arcaica per un ventenne di oggi. Questi marcatori di età (le persone che si danno del ‘voi’, termini come “delizioso” e “perbacco”) non erano presenti nel romanzo di Wilde, quindi risultano delle (inevitabili) falsificazioni. Anche solo per questo vale la pena ritradurre continuamente: le traduzioni invecchiano molto più in fretta degli originali. In aggiunta a questo, nel caso specifico del Ritratto di Dorian Gray sentivo che le traduzioni passate spesso non riuscivano a trasmettere appieno la profonda ambiguità al cuore del romanzo – che è una storia d’amore omosessuale in cui l’amore non si vede mai, ma aleggia, per dir così, nell’aria. Questo non è necessariamente un segno di censura: le ambiguità sono proprio ciò che in traduzione spesso si perde, e alcuni studi cruciali sul linguaggio in codice della comunità gay in epoca vittoriana non erano ancora stati pubblicati. Però mi sembrava che ci fosse spazio per qualcosa di diverso.

Che c’entra Wilde con la tua specifica ricerca narrativa, di scrittore?

In parte ho già risposto sopra, mi sembra. Fa una letteratura di idee, elegante ma sempre limpida, fieramente irrealistica eppure accattivante come pochi. Dove si mette la firma?

…che libro, ora, vorresti tradurre, e perché?

Questa è la stessa domanda che mi ha posto la redazione dei classici Bompiani quando ho consegnato la traduzione di Wilde, e con mia somma incredulità hanno accettato: Il conte di Montecristo, di Dumas. In una pagina de Il superuomo di massa, Eco racconta di aver provato a tradurlo ‘scorciando’, senza operare tagli, ma asciugando tutte le ridondanze dovute alle circostanze della scrittura – la necessità di ricapitolare periodicamente le puntate precedenti, e l’interesse a dilungarsi dell’autore pagato a parola. Sto provando a fare una cosa del genere, e mi pare che regga. Oltre al fatto che è il mio romanzo preferito, penso che sia il mio modo di misurarmi con Netflix.

 

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