19 Novembre 2018

“Ogni bottiglia ha una sua anima e il vino, come le donne, è buono all’età giusta”: Gianni Brera, l’Omero del calcio, vi spiega come si beve (segue ubriacatura linguistica)

In una memorabile – anzi, utilissima, che è meglio – antologia degli scritti di Gianni Brera sul calcio, Il più bel gioco del mondo (Bur, 2007), Massimo Raffaeli, che eccelle in una professione pressoché scomparsa, come gli spazzacamini nell’era di Mary Poppins o i costruttori di candele all’epoca di Melville, quella del critico letterario, dimostrò che il Brera fu grande scrittore in assenza di grande romanzo (Il corpo della ragassa è giudicato “romanzo dignitoso ma non eccezionale”). Senza tema d’inferiorità – chi l’ha detto che è scrittore soltanto chi ha il romanzo in cassa?, che visione indegna dell’arte aleatoria e inafferrabile della scrittura – Brera è un grande scrittore perché è stato “il solo capace di inventare un lessico sportivo coniugandolo a una cultura molto originale… che non aveva eguali tra quanti scrivevano di sport… firmatario di una prosa intrigante e difficile, mescidata e intarsiata, sul cui estro dominavano i capricci di una Musa speciale da lui detta ‘Eupalla’”. In effetti, soltanto uno scrittore ‘in barrique’, pepato il giusto, di quelli che gli Usa si sognano, è in grado di firmare un ‘coccodrillo’ – il morto è Giuseppe Meazza – così: “È morto a Lissone Peppìn Meazza. Se n’è andato in silenzio, vergognoso di morire come si dice dei gatti, alla cui specie sorniona apparteneva. Era da tempo malato… Sulla sua faccia gonfia affioravano vene di color rosso plumbeo. Gli occhi grandi, bovini, parevano costantemente assonnati. Pesanti palpebre calavano le lunghe ciglia a proteggere lo sguardo non timido ma talora impacciato e sfuggente”. Che genio. E finita qui. Brera non fa metafisica, affronta le frattaglie della vita, cioè l’autentico del vivere e del respirare, non morde l’aria, come troppi romanzieri nostri, ma la carne.

BreraIndimenticabile Omero del giornalismo sportivo, istrione della scrittura che dribblava i luoghi comuni, Gianni Brera, “figlio legittimo del Po” (parole sue) “apprezzava Bacco, tabacco e Venere” (parola del figlio Paolo). Lo diceva anche Luciano Bianciardi: “Gianni Brera è più bravo come scrittore. Poi viene il gastronomo. Ultimo il giornalista”. Riguardo al flirt con Bacco, è testimonianza un formidabile ‘divertimento’ del 1986, Così si beve il vino – il cui dattiloscritto è deposto presso la Fondazione Mondadori di Milano – ora stampato dai raffinatissimi De Piante Editore (e presentato martedì 20 novembre, ore 19,30, presso Villa Ottolini-Tosi a Busto Arsizio, alla presenza di Paolo Brera, di Velasco Vitali, di Luigi Mascheroni) , che è allo stesso tempo guida per baldi cultori di enologia e spasso per linguisti. Brera, con genio alcolico, si allinea al genere del componimento dedicato a esaltare le esalazioni mistiche del vino – un topos che va da Alceo a Pascoli, da Catullo a Cecco Angiolieri, riassunto nel motto latino in vino veritas – snocciolando una sfilza di deliziosi aforismi (“ogni bottiglia ha una sua anima”; “il vino, come le donne, è buono all’età giusta”; “sarai vero uomo se saprai bere mantenendo costantemente il cervello a pelo di brentina”). Soprattutto, l’impareggiabile ‘Giôann’ offre salutari consigli su come far dialogare il vino alle pietanze: così, ad esempio, per gli antipasti è consigliato “bianco secco freddo”, ad accompagnare le rane “bianco secco se sono fritte, Barbacarlo o Barbera se sono in guazzetto”, mentre sulla carne è necessario “vino rosso e mai freddo”. Chi “ostenta di pasteggiare a champagne” e “lo fa per strabiliare” non è degno di altra astuzia che lo sfottò, “digli che sa di turacciolo: non si merita altro”. Il talento metaforico di Brera non teme confronti neanche in ambito vinicolo: per stigmatizzare “la tecnica di vinificazione eccessiva” ne scrive così, “hai l’impressione, bevendo, di baciare una donna troppo truccata”. Restando in quartiere linguistico, gli appassionati di Brera andranno in brodo ammirando come il funambolo sevizia chi “beve per mero vizio di gola”. Costui, scrive Brera, “gluglueggia con l’epiglottide come le bottiglie mal inclinate alla mescita: per delicato e nobile che sia, il vino se lo pompa come un’oscena birra”. Ad ogni modo, il vino si beve ‘alla Brera’ in tre mosse, definite e definitive: intanto, “va odorato con un lieve moto circolare del bicchiere”, poi “lo si accosta lentamente alle labbra e si alza in modo che la lingua ne sia ragionevolmente bagnata”; infine, “quando si sia definita la classe del vino, allora non bisogna indugiare troppo”. Alla fine, ecco, dopo le speculazioni, si beva, lasciando gli aggettivi a giacere in gola.

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Il vino va odorato con un lieve moto circolare del bicchiere, che lo arrubini e appanni prima di ricomporsi. Poi lo si accosta lentamente alle labbra e si alza in modo che la lingua ne sia ragionevolmente bagnata: papille gustative, terminazioni nervose delle gengive e delle guance, palato, retrobocca danno la misura del gusto, dell’acidità, del vigore e di tutte le doti – o difetti – che ho enumerato più sopra. Ma quando si sia definita la classe del vino, allora non bisogna indugiare troppo. Le ingenue ragazzole che centellinano sorso a sorso lo champagne, trattenendolo in bocca al punto da annegare le papille, quelle sono le più facili a perdere la tramontana. Il bere deve essere lento e continuo, quasi a formare sulla minor porzione di lingua un ruscelletto fluido e costante: meno si spande per la bocca e meno il vino ubriaca. Per contro, i bevitori ingordi si sborniano grossolanamente: ubriacarsi è quasi sempre disdicevole; inebriarsi può essere bello ma è ben presto vietato agli abitudinari; bere senza affogare il cervello è piacere sottile e raro, da veri specialisti. Tutto questo ho imparato girando il mondo e soltanto il mio fegato può trovarci da ridire.

Gianni Brera

*da Gianni Brera, “Così si beve il vino”, De Piante Editore 2018

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