08 Ottobre 2018

Ode malinconica a Nick Drake, il cantautore di culto che lasciò tutto per forsennati, insonni giri in macchina e che morì troppo giovane, ignaro della fama

Tanto per cominciare, mettete su un suo pezzo. Uno a caso. Anzi, no: ascoltate prima di tutto Northern Sky, che è la più bella canzone d’amore mai scritta. C’è qualcosa nei suoi versi, nella melodia, nel canto, qualcosa che assomiglia al misterioso sentimento della vita, sfuggente, aurorale, dolcissimo, un misto di euforica scoperta e di malinconica rinuncia. È come se insieme alle parole della canzone anche noi andassimo enumerando tutte le cose che stiamo vivendo per la prima volta: «I never felt magic crazy as this / I never saw moons knew the meaning of the sea / I never held emotion in the palm of my hand / Or felt sweet breezes in the top of a tree / But now you’re here / Brighten my northern sky». Parole che rimandano a un pensiero così primigenio, così essenziale – la luna, il significato del mare, il vento sugli alberi, la natura che partecipa all’emozione vibrante dell’animo umano e quasi dà risonanza al sentimento amoroso, che è un sentimento di scoperta, prima di tutto, o di ri-scoperta – parole che a sentirle cantate in quel modo, con quegli accordi di chitarra – e con quell’accompagnamento discreto dell’organo, quegli agili guizzi di pianoforte, quei delicati tocchi di celesta, tutti suonati da John Cale – ci sembra, incredibilmente, di aver dimenticato. È un disvelamento, insomma. È come tornare bambini, quando si pongono continuamente domande stupide («Would you love me for my money / Would you love me for my head / Would you love me through the winter / Would you love me ’til I’m dead»), ma allo stesso tempo si dischiude un nuovo occhio interiore («Oh, if you would and you could / Straighten my new mind’s eye»).

Nick DrakeNon aveva una grande voce, Drake, ma la sapeva usare alla perfezione per le sue canzoni, con quella incrinatura malinconica, quella tonalità inconfondibile, quel timbro che aveva una sensualità un po’ tenebrosa, ma carezzevole. La melodia dei suoi brani non era mai banale, la sua tecnica alla chitarra, suonata quasi come un pianoforte, era insolita, originale, piena di inventiva (accordava lo strumento in maniera diversa per ogni brano). Incise solo tre dischi: Five Leaves Left, esordio folgorante, di una luminosa bellezza, e Bryter Layter, album perfetto, sia nel suono che negli arrangiamenti, senza nessun punto debole (entrambi del 1969) e Pink Moon (nel 1972), un canto del cigno di una essenzialità quasi ascetica. Tre gioielli assoluti di folk acustico, dark e delicatamente barocco, che segnano anche un percorso solitario, rigoroso, alieno da qualsiasi compromesso commerciale. Come confessò Flaubert all’amica George Sand, anche Drake si è sempre sforzato con la sua arte di «andare all’anima delle cose». Basta ascoltare il suo ultimo disco, Pink Moon, per capire che cosa intendo: concepito durante l’estate del 1971 in Costa del Sol, è tuttavia un disco notturno, inciso in poche ore, solo voce e chitarra (tranne una breve linea melodica di piano nella title-track); un disco dove è stato eliminato tutto il superfluo, qualsiasi orpello, abbellimento, per costringere l’ascoltatore a guardarsi nello specchio, a riflettersi nelle proprie disillusioni, nei ricordi, nelle insofferenze. Tre perle di musica – questi tre dischi – che caddero nell’indifferenza e nel silenzio del mondo discografico. Dopo aver pubblicato Pink Moon, Drake decise allora di rinunciare. L’album aveva venduto ancor meno dei due precedenti, e si era rivelato un clamoroso insuccesso. Un insuccesso segretamente voluto, forse, poiché il giovane cantautore aveva un carattere schivo, taciturno, ed era terrorizzato dal pubblico: rifiutava qualsiasi promozione e rifuggiva dalle esibizioni pubbliche, convinto com’era che le sue canzoni dovessero camminare da sole, con la forza della musica. Così, si ritirò dai suoi genitori, nella campagna del Tanworth, un piccolo villaggio a nord-est di Birmingham, a «Far Leys», una villetta in mattoni rossi, a due piani, dove aveva vissuto la sua infanzia felice. Qui passò i suoi ultimi due anni lontano da tutti e da tutto. Dopo un ricovero di cinque settimane in un ospedale psichiatrico si andò chiudendo in un isolamento sempre più greve, tra antidepressivi, notti insonni e lunghi, solitari giri in macchina (si metteva in macchina e guidava per chilometri e chilometri, allontanandosi senza meta, finché non gli finiva la benzina e allora chiamava dal primo telefono pubblico qualche amico o i familiari, affinché gli portassero una tanica di benzina per tornare a casa). Fece un viaggio a Parigi, ma la sua depressione non migliorò. La cantautrice Françoise Hardy ricorda una cena da amici dove lo incontrò. Drake si sedette davanti a lei e restò tutto il tempo a fissarla senza dire una parola. Quando tornò a casa registrò ancora una manciata di canzoni, lasciandole incomplete. Era così malmesso che non riusciva a cantare e suonare insieme, per cui fu costretto a registrare prima la musica e poi la voce. L’ultima canzone, Tow the line, è tesa, nervosa, cupissima; la voce di Drake è fuori tono, impastata dagli psicofarmaci, mentre canta: «This day is the day that we rise or we fall / This night is night that we win or lose all». È il suo congedo dal mondo. Cadrà, perderà tutto. La sua giornata, la sua notte, la sua vita volgevano al termine.

Nick DrakeSul piatto del suo stereo, la mattina del 25 novembre 1974, girava ostinatamente, mutamente, la puntina alla fine del disco dei Concerti Brandeburghesi di Bach, quando fu trovato morto nel suo letto dalla madre, verso mezzogiorno, il corpo sdraiato sopra le coperte. Aveva solo ventisei anni, e un’overdose di Tryptizol lo aveva stroncato dopo l’ennesima notte insonne. Se ne andò senza sapere che sarebbe diventato un cantautore di culto, senza poter immaginare che le sue canzoni sarebbero diventate così famose da essere utilizzate perfino come colonna sonora di importanti spot pubblicitari (proprio quella Pink Moon così triste, solitaria e finale).

La sua morte, il suo suicidio mi fanno sempre pensare al protagonista della poesia del suo amato Robert Browning, Orlando cavaliere giunse alla Torre Scura. Impegnato in una ricerca disperata, attraversando un paesaggio spettrale e desolato, il cavaliere di Browning sente di essere prossimo all’insuccesso, proprio come Drake nei suoi ultimi giorni. Memore dei tanti cavalieri che lo hanno preceduto, troppe volte ha udito profezie di fallimento e adesso che è vicino alla meta, la cosa migliore gli sembra «fallire come loro». Ma ha un unico dubbio: sarebbe stato all’altezza del fallimento? Non so, francamente, che cosa sarebbe capitato a Drake se avesse vinto questo dubbio, quella notte di novembre in cui mise fine alla sua vita. Mi domando soprattutto, come spesso in questi casi, quanto il fallimento abbia contribuito a mantenere intatta la sua ispirazione e quanto, viceversa, il successo ne avrebbe guastato la purezza. Non lo sapremo mai. Ci restano, però, i suoi tre bellissimi dischi, che ci accompagnano e ci consolano, nei lunghi inverni del nostro scontento. Ascoltateli, iniziando da Northern Sky: vi farà innamorare dell’amore, innamorare della vita. Come stringere un’emozione nel palmo della mano. E per questo gli sarete grati per sempre.

Fabrizio Coscia

 

Gruppo MAGOG