14 Novembre 2017

Ode a Czeslaw Milosz, il poeta che ha vinto la brutale ferocia della Storia

Sono una tradizione, sono una falange. Scrittori e poeti che nel secolo scorso hanno trovato patria negli Stati Uniti. Nel bene e nel male. Sono una truppa. Da Thomas Mann a Vladimir Nabokov, da Isaac B. Singer a Saint-John Perse, per qualche decennio o per sempre. Alcuni di loro hanno conservato la loro lingua d’origine – che è poi la sola patria dello scrittore – altri si sono attrezzati di un english capace di cambiare la storia della letteratura inglese. Lolita (Nabokov) e i saggi di Iosif Brodskij (che in poesia preferiva attenersi al russo) sono due esempi clamorosi. Nel 1960 negli Usa approda anche il poeta polacco Czeslaw Milosz, dopo essersi ribellato al regime comunista della neonata Repubblica Popolare di Polonia. Nel 1951 il poeta aveva chiesto rifugio politico alla Francia, da Parigi, e per questo era sfottuto da Pablo Neruda, megafono leninista, con l’epiteto “L’Uomo Che Scappa”. Dieci anni dopo, l’Università di Berkeley, California, gli offre una cattedra di slavistica. milosz libroNel 1980 Milosz, le cui poesie sono edite in Italia da Adelphi, ottiene il Premio Nobel per la letteratura, seguito, qualche anno dopo, nel 1987, da quell’altro esiliato negli Usa dopo la grande fuga dal comunismo, Brodskij. Anche Charles Simic, che è uno dei massimi poeti americani di oggi (La vita delle immagini è stato pubblicato quest’anno da Adelphi), è un poeta dell’emigrazione e dell’emarginazione. Simic, infatti, è nato a Belgrado nel 1938 e si è trasferito negli Stati Uniti da ragazzo. La sintonia tra questi autori Lost in America (così un capitolo della cangiante autobiografia dell’ebreo polacco Isaac B. Singer, Ricerca e perdizione) è ribadita da un potente articolo di Charles Simic pubblicato sul The New York Review of Books, dal titolo-emblema, Poems from the Abyss, che piglia spunto dalla recente biografia di Andrzej Franaszek, Milosz: A Biography (Harvard University Press, pp.526, $ 35.00). Così attacca Simic. “Milosz, il poeta polacco, lo scrittore, il diplomatico, l’esiliato, il Premio Nobel, è una figura che sembra incarnare gli sconvolgimenti del Ventesimo secolo. Ha vissuto entrambe le guerre mondiali e la Rivoluzione russa, ha sperimentato il fascismo, il comunismo e la democrazia, ha vissuto nell’Europa orientale e in quella occidentale e infine negli Stati Uniti, ed è ritornato continuamente in questi fatti nella sua scrittura… Quando gli fu chiesto della sua casa, Milosz disse che veniva da un altro pianeta, da un altro tempo, da un’altra epoca. Milosz è nato nel 1911 in Lituania – allora parte dell’impero russo – in una di quelle regioni dell’Est Europa di cui anche gli europei occidentali hanno una vaga idea, dove milioni di persone sono state uccise e sfollate durante le due guerre e dove i sopravvissuti, tutti, senza eccezioni, hanno vite pazzesche da raccontare”. La storia di questo uomo a cavalcioni tra i mondi, che nel 1939, con l’occupazione nazista di Varsavia, viene separato dai parenti, che trova lavoro come magazziniere nella libreria universitaria e lì “compie la sua educazione intellettuale, imparando l’inglese dai libri di T. S. Eliot, Robert Browning, Edgar Lee Masters, William Blake e John Milton”, in effetti è davvero pazzesca. Cresciuto a Vilnius, “straordinaria città barocca dove coabitavano cattolici, ebrei e ortodossi”, educato in una scuola cattolica e poi all’università di Varsavia, Milosz racconta così del ghetto diventato mattatoio nazi. “Primavera 1943, bella notte di quiete, in campagna, alla periferia di Varsavia, in piedi, sul balcone, udii le urla dal ghetto… Urla che ci fecero venire la pelle d’oca. Urla di migliaia di persone assassinate. Passammo attraverso gli spazi silenziosi della città tra rossi grappoli di fuoco, sotto stelle indifferenti, in mezzo al silenzio benevolo dei giardini dove le piante laboriosamente emettevano ossigeno, l’aria era frizzante, e l’uomo pensava che fosse un bene essere ancora vivo. C’era qualcosa di decisamente crudele nella pace di quella notte, la cui bellezza e il crimine umano hanno contemporaneamente frantumato il mio cuore. Non ci guardammo più negli occhi”. Simic fa di Milosz l’eroe del poeta espatriato: ostile alle dittature, promotore della libertà di scrittura e di pensiero. Non un ‘testimone’, un ‘uomo di dolori’, tuttavia. Un poeta. Sempre e comunque. Cioè, un uomo che porta la luce e la speranza, ad oltranza. “In un mondo che continua a essere pieno di gente sradicata la cui maledizione è di trovarsi alla mercé della forza bruta della storia, Milosz ha ancora molto da dirci. Per tutta la vita si è sentito un apolide, rifiutando di identificarsi come lituano o polacco. Gli anni della guerra gli hanno insegnato che il poeta non prende la penna per comunicare la sua disperazione o la sua sconfitta”. Proprio così. Nell’ultima ‘lezione’ di Milosz tenuta ad Harvard nei primi anni Ottanta e raccolta nel mirabile libretto La testimonianza della poesia (Adelphi, 2013), il poeta s’interroga Sulla speranza. “L’unificazione del pianeta comporta costi elevati”, conclude Milosz. “Attraverso i mass media il poeta di qualsiasi lingua riceve notizie su ciò che avviene sull’intera superficie terrestre: torture inflitte da esseri umani ad altri esseri umani, fame, schiavitù, umiliazioni. Ai tempi in cui la sua conoscenza della realtà era limitata a un villaggio o a un distretto non doveva portare un fardello così grande. Come stupirsi che sia moralmente esacerbato, che si senta responsabile, che nessuna promessa di trionfi ulteriori della scienza e della tecnica possa oscurare le immagini di caos e follia umana che lo assillano? E quando cerca di immaginare il futuro prossimo, non vi trova nulla eccetto la probabilità di crisi economiche e guerre”. Eppure, “qui entra in gioco la speranza, che però non è chimerica né folle. Ogni giorno si possono vedere segnali che testimoniano come ora, in questo preciso istante, stia nascendo qualcosa di nuovo, e su una scala mai conosciuta prima: un’umanità che si configura come una forza elementare conscia di trascendere la Natura – perché solo l’uomo ha ricevuto in eredità quel tesoro che è la memoria, ovvero la Storia”. Il poeta non è quello che scrive in borbottanti endecasillabi il proprio aureo piagnisteo e intona la geremiade dal pulpito del proprio ombelico; è la zattera che ci porta verso il futuro. Migliore. Almeno nelle intenzioni.

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