07 Agosto 2018

Ode a Robert Redford, l’anarchico che disintegrò l’icona del bravo ragazzo americano. Sapeva commuovere e uccidere

Mia madre era una di quelle che piagnucolava guardando La mia Africa. Mi costringeva a vedere quel film – che evidentemente è entrato nei miei patetici muscoli – innumerevoli volte. Il profilo di spregiudicata classicità di Meryl Streep, il K 622 di Mozart che si eleva dal grammofono lungo la savana e poi lui, biondo e irraggiungibile, Denys Finch-Hatton. Icona anarchica dell’inquietudine occidentale: l’uomo che domina l’Africa su biplano e vince la ferocia del leone, per poi morire, in corsa, eternando il tedio dorato.

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Aurei capelli, viso perfetto, pareva l’incarnazione del bello americano, Robert Redford, figlio di una casalinga e di un lattaio che diventò basso borghese come contabile per la Standard Oil. Ha fatto di tutto per sconcertare la didascalia che gli volevano imporre, Robert, non soltanto con il Sundance Institute, una manna per gli indipendenti, una mannaia per Hollywood. Ad esempio, è stato uno degli attori più ‘letterati’ che le scene ricordino. Non solo per quel film tratto dal libro di Karen Blixen. Redford ha messo in scena Tennessee Williams (Questa ragazza è di tutti), Francis Scott Fitzgerald (Il grande Gatsby; qualsiasi paragone per ‘Leo’ Di Caprio è improponibile), Bernard Malamud (Il migliore).

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Aumentavano le rughe ed esponenzialmente cresceva la sua bravura: che differenza tra il tenero Paul Bratter di A piedi nudi nel parco e lo scaltro Nathan Muir, agente della Cia, in Spy Game; che rigorosa distanza tra il Sundance Kyd di Butch Cassidy, il sagace giornalista di Tutti gli uomini del presidente e Il cavaliere elettrico. Eppure, l’Academy ha pigliato un po’ per il c**o il grande ‘Bob’: Oscar alla regia nel 1981 per Gente comune (non un capolavoro) e un risarcimento “alla carriera” nel 2002. Lo hanno sempre ritenuto un divo di secondo livello, buono a far straziare le mamme: in realtà, era troppo sofisticato per i lacchè delle major.

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Certo. Daniel Day Lewis è più bravo, Robert De Niro più estremo, Marlon Brando è immortale, il dio Crono del cinema americano, li divora tutti; Al Pacino è più ruvido, Jack Nicholson più feroce, Sean Penn più adorabile, Paul Newman più bello. Ma è nel giusto mezzo, al mezzogiorno, che dimorano gli dèi, i fauni, quelli che con dedizione fanno la rivoluzione.

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Ora che abbandona le scene, Redford diventa divino. Eppure, il cinema non lo ha spossessato della sua personalità, non ha inciso i suoi canini nel cuore.

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Fossimo un millennio fa, lo avrebbero messo a capo delle Crociate; due millenni fa gli avrebbero dato il trono in qualche satrapia d’Oriente, lui, Redford, immagine del sole. L’attore che fa lacrimare (Come eravamo) e che sa usare la pistola (Ucciderò Willie Kid), che è dolce (L’uomo che sussurrava ai cavalli) e spietato (I tre giorni del Condor).

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Ma io ricordo Redford con la barba ruvida di Jeremiah Johnson, il veterano che a metà dell’Ottocento vive sulle Montagne rocciose, mordendo la solitudine. Ferocia, liturgia dello sconfinato, sfida. Corvo rosso non avrai il mio scalpo. Il silenzio percorre come un giaguaro delle nevi il film, e lui, Jeremiah/Redford, che domina le forze ostili e rosola la vendetta, è indimenticabile.

 

 

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