“Dopo tutto, la guerra ci ha reso liberi”: conversazioni con i poeti ucraini
Cultura generale
Ilya Kaminsky e Katie Farris
“Andrà tutto bene”: Forse è più opportuno domandarsi – non per vieta filosofia, ma per radicalità del reale – se stiamo tutti andando verso il bene. Andare è verbo d’origine incerta, d’altronde è incerto anche il suo orientamento, la sua postura. Dove stiamo andando? Intanto, si va, chi vivrà vedrà. Con quale andamento andiamo, qual è l’andazzo? Un andare senza direzione non è il vagabondaggio del folle di Dio – il suo zenit non riguarda l’orizzonte degli eventi, la sua sola ‘meta’ è lassù, è Dio; ciò che ai nostri occhi è un vagare in lui si chiama provvidenza – è semplicemente – disperatamente –, vagare nella vaghezza. Ad esempio. Ci è chiesto, anzi, ci è imposto un sacrificio, a causa di una emergenza – l’emersione dell’imprevisto. A un sacrificio, però, non si obbedisce: un sacrificio si compie. Senza parole accurate, adatte – e si è parlato, finora, di norme, restrizioni, punizioni, coercizioni – al sacrificio manca il sacro. Cioè, è inutile. Certo, la vita è sacra, ma la vita si può anche sacrificare – chiusi nel tabernacolo delle nostre case siamo ostie o una lacerazione in acido, simulacri, meridiane frustrazioni?
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Non andrà tutto bene perché per alcuni è andata male. Il bene non è mai per tutti, non è dappertutto – non ha a che fare con il tutto. E poi, così è il bene? Il sommo bene, il benessere, il benestare, il perbenismo? L’avverbio connesso all’aggettivo buono – ma… siamo tutti buoni? – significa, appunto, “in modo buono, retto, giusto, o conveniente, opportuno, vantaggioso, in modo insomma da dare soddisfazione piena”. Perché dovrebbe andare tutto bene? Piuttosto, siamo certi che tutto non deve andare come prima, come se niente fosse. Anzi, nulla sarà come prima. Siamo in grado di maneggiare parole che ustionano come bene e bontà? “Esisteva un uomo buono? E se esisteva, come doveva essere? Era qualcuno che se ne stava in disparte oppure poteva muoversi liberamente in mezzo agli altri, reagire alle loro sfide ed essere ugualmente buono?”, si domandavano Elias Canetti ed Hermann Broch. Come si sa, i due riconoscono il prototipo del buono nel fatidico “dottor Sonne”. Costui, sapiente elettrizzato e pudico, poeta in oscurità di fama, “aveva riguardo verso tutto ciò che gli fosse vicino… il suo rispetto verso i limiti altrui era assoluto”. Sonne non parla del tutto, non specula sul bene, non ha dove andare: resta. Immutabile, in sé. Il suo andare nel bene, in relazione con il tutto, è verticale, in picchiata.
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Lucilio Santoni mi scrive una lettera sul perché non andrà tutto bene.
Everything is gonna be ok è la frase ricorrente nei filmacci americani. E noi l’abbiamo ripresa pari pari come fedeli sudditi di quella cultura: “andrà tutto bene”. Non ci siamo sforzati neppure di esprimere qualcosa in parole nostre. Tutti luoghi comuni e frasi fatte che ci piacciono molto. Con un lieto fine anticipato che ci rassicura. Invece, probabilmente, nothing is gonna be ok. Ci sono e ci saranno lacrime e sangue. Rimarranno ferite nella nostra anima e nella nostra mente.
Questo per dire che sono arcistufo di chi mette bandierine arcobaleno sui balconi, cioè di chi guarda la vita solo da lontano. Certo, se la guardi solo da lontano, la vita, con i suoi strepiti e le sue risate, è una commedia. Ma, se la guardi da vicino, ti accorgi che è una tragedia: di questo bisognerà cominciare a farsene una ragione, e nella tragedia quasi mai ‘va tutto bene’.
Tragedia è lo spaesamento di trovarsi al mondo, gettati sulla terra senza uno straccio di fondamento. Allora il deserto, la cancellazione, la cenere, il silenzio, diventano compagni di viaggio. Si preferisce rimanere zitti e in disparte. All’ubriacatura da immagini si sostituisce la sete di domande con le quali interrogare in primo luogo se stessi. E poi rifiutare il senso offerto bello e pronto; diffidare di tutto ciò che viene dato per certo; essere precari per stare più vicini agli altri. Inquietudine che diventa dialogo, accoglimento e comunità. Occupare uno spazio vuoto che, proprio in quanto tale, l’universo dell’uomo e l’infinito della sua anima vi trovino posto.
Se si è tragici, si può camminare nei cimiteri costituiti dai nostri cuori senza essere lugubri, anzi, si può danzare leggeri ai margini della sofferenza e del lutto, stando spensierati sull’uscio della casa segreta della morte prima che essa ci raggiunga.
Qualsiasi progetto di vita, per essere autentico, deve contemplare gli anfratti, le crepe, i terreni sconnessi. Non potendo più contare sulla solidità del sociale e sull’emancipazione, dobbiamo cercare lingue diverse, rudi, dialetti incomprensibili; dobbiamo accogliere gli indisciplinati, i claudicanti, coloro che camminano a un metro dal baratro e dalla poesia. In mancanza di governi stabili e di amministrazioni intelligenti, vanno coltivati i viandanti, i furibondi, i contemplativi. Guardare e divagare; abbandonando ogni riparo sicuro per abitare, invece, case dalle finestre rotte, con porte fuori dai gangheri, in un tempo che è fuori dai gangheri, come diceva il tragico Amleto.
In definitiva, quando la vita è davvero una questione aperta, fanno sorridere le incurie della politica, gli imbrogli delle istituzioni, le furbizie dei vicini di casa; quando l’instabilità della vita è strutturale, la fermezza dello spirito raggiunge vette impensate. Non importa se intorno ci sarà poca gente, ci saranno erbacce e tuguri, animali randagi e negozi chiusi; scuole cadenti e spiagge deserte. È lì che potremo frugare per cercare il nostro vitalizio di dignità. Nella disperazione cercheremo la speranza, nella solitudine una promessa di vita.
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Priva di cinismo e di istinto predatorio da provocazione, questa lettera dice, con sgargiante limpidezza, che c’è una regalità nel soffrire, che la vita va ammirata senza finzioni, come ciò che dilania e ama. Annientare la verità della vita con lo slogan spiccio non fa bene.
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Nelle strade vuote di uomini gli alberi sembrano camminare – per scavalcare il sonnifero del soffocamento dobbiamo guardare le stelle, che fiammano. Ricomporne le storie, austere, che come nodi legano le nostre caviglie all’indifferenza cosmica. Nel Mathnawi il grande poeta persiano Jalal-alDin-Rumi – cito la traduzione di Gabriele Mandel per Bompiani, 2006 – scrive:
Tranne l’amore del Signore generoso, tutto è in realtà tortura dello spirito, anche se sembra delizioso come zucchero.
Che cos’è la tortura dello spirito? È avanzare verso la morte e non riuscire a prendere l’Acqua della Vita.
Le persone fissano il loro sguardo sulla terra e sulla morte: hanno cento dubbi sull’Acqua e sulla Vita.
Fa sì che quei cento dubbi diventino novanta. Va’ nella notte, poiché così, se dormi, la notte si allontanerà da te.
Nella notte nera, cerca il Giorno; segui la Ragione che dissipa l’oscurità.
Nella notte dal colore sgradevole c’è un bene grande: l’Acqua della Vita si trova nelle tenebre.
Leggo frammenti di Rumi frantumandoli all’aria, sventolandoli dal balcone, perforando l’anonimo della sera. Le luci nelle case mi sembrano lettere di fuoco: qualcuno, nel garage, costruisce una sedia.
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Per andare a fare la spesa passo da un parco, nel gorgo di Riccione. Ora è chiuso. Pare un pezzo di giungla. Gli aironi stendono vasti nidi sugli alberi. Gridano. Il loro grido fa sanguinare il cielo – appena l’airone grida accade il tramonto. Un airone vola, con l’eleganza di una pittura. Ecco, la vita, il tutto, qualcosa che ha l’indecente parvenza del bene. (d.b.)