10 Novembre 2018

“Non voglio essere la moglie che nessuno si fo**e”: lo psichiatra che tentò di salvare Sylvia Plath (e l’eroismo della figlia Frieda)

Preliminari. Di uno scrittore va letto tutto. Da tempo – inascoltato, è ovvio – propongo agli editori che conosco una collana dedicati ai diari degli scrittori. Prima di stanare l’opera bisogna conquistare la mente dello scrittore: spesso – se l’autore è grande – i materiali, per così dire, ‘sporchi’ rivelano diamanti. Sono un guardone. Voglio leggere le più intime lettere dei poeti che amo – Gallimard sulle Correspondance ha fatto fortuna, ma si sa che i francesi hanno il vizio di guardare dallo spioncino – perché gli incastri del fato e la lordura del destino fertilizzano l’opera.

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Deformazione. Siamo portati a credere che l’autore di un grande libro sia un grande uomo: non dobbiamo temere le delusioni – accade che pochi grandi uomini scrivano grandi libri. “Non mi aspetto che i miei eroi letterari siano per forza gentili e geniali. Le loro imperfezioni, i loro limiti, li rendono più umani. Ma qualcuno sarà turbato dalla lunghezza del libro, dal tono ripetitivo e spossante delle lettere. Leggere un pugno delle sue più abbaglianti poesie, una volta chiuso il tomo, è stato come aprire una finestra. Dopo l’aria muta, finalmente, una brezza così forte da farmi torcere gli occhi”. Con sintesi spietata, Rachel Cooke, dalle colonne del Guardian, ha capito tutto. Insomma. Le lettere di Sylvia Plath, grande poetessa, la cui vicenda biografica ha eccitato le femministe più virili – non lo dico io, lo dice lei, Rachel, “dopo la morte, l’eredità della Plath è stata vittima di una semplificazione ideologica femminista” – ora raccolte da Faber in due micidiali volumi (The Letters of Sylvia Plath: 1940-1956, di 1.424 pagine, e The Letters of Sylvia Plath: 1956-1963, di 1.088 pagine) sono di una noia multipla.

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Alla stessa conclusione giunge Hannah Sullivan nella sua articolessa pubblicata sul TLS – titolo: Revealing Sylvia Plath – tanto che, scrive, “la maggior parte dei lettori sarà tentata di saltare le prime 700 pagine del libro per avventarsi sulle lettere degli ultimi mesi di vita”. Il gorgo, in effetti, è tutto lì, concentrato come un spettro da cui esplodono miriadi di raggi: dalla nascita del secondo figlio, Nicholas, gennaio 1962, alla separazione con Ted Hughes, ottobre 1962, al suicidio, 11 febbraio 1963. Lì, finalmente, libera dall’ambizione di Ted, lottando con il mostro della disperazione, ci fa intendere la Sullivan, Sylvia si compie come poetessa davvero autonoma (in una lettera che segue di poco la separazione da Ted, scrive: “ho avvertito una euforia formidabile; l’ho accompagnato alla stazione con le sue cose, sono tornata a casa, nella casa vuota, aspettandomi di essere abbattuta… ero in estasi”). Sylvia uccide il ‘colosso’, il Minotauro che abita il labirinto della sua vita – ma alla fine, si uccide.

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sylviaVampirizzata dalla madre, Aurelia. Nel secondo tomo delle lettere, concentrate sul rapporto con Ted Hughes, 230 sono inviate alla mamma; le altre 345 sono destinate a 107 corrispondenti diversi. Sylvia abita un labirinto di solitudine. Alla mamma, per lo più, chiede consigli di cucina, la ricetta per essere una brava moglie. Nei diari, invece, di ben altra ustione, il 15 settembre 1958, scrive: “Ho bisogno di una vocazione e di sentirmi produttiva e invece mi sento inutile. Ignorante. Lavorare sulla scrittura mentre mi sento l’anima sconnessa, svitata, vistosa?… Speranza, carriera – la scrittura mi è insostenibile: non voglio un lavoro finché non sarò felice di scrivere – ma è di un lavoro che ho disperatamente bisogno – di una realtà esterna da incamerare… devo stare attenta a non appoggiarmi alla mamma”. Il mondo è un barattolo troppo stretto, che non contiene il grido di Sylvia. Sylvia non ha amici, si rivolge soltanto alle proprie ossessioni.

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Sylvia vive per Ted, si adatta a fare la moglie, si esalta a fare la complice. Come si sa, è su sua ispirazione che nel 1957 Ted invia la prima raccolta, The Hawk in the Rain, a un concorso newyorkese, con W.H. Auden, Marianne Moore e Stephen Spender in cabina di giuria. Lì, vincendo l’agone, comincia il successo lirico di Ted Hughes. E Sylvia ne è fiera, “sono più felice che se avessero pubblicato un libro mio” (alla mamma) – quando parla delle poesie di Ted, del suo successo, usa il “noi”, come se Ted e Sylvia fossero un’unica cosa, come se il colosso avesse divorato Ariel, il Minotauro ha dilaniato la vergine.

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Piccolo sketch. Ted e Sylvia a casa di Thomas S. Eliot. “Sono stata al fianco di una divinità terrena: un tale nimbo di grandezza lo circonda”, scrive. Sentirsi sempre piccola, inadatta, creatura di vento e di cristallo.

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Quando Ted se ne va, l’euforia coincide con la rabbia. La donna di Ted – che, turbata dalla maledizione di Sylvia, si uccide pure lei, nel 1969 – si chiama Assia, viene ribattezzata da Sylvia “Asshole”, la Stronza. Le lettere hanno lo stesso tono, con diversi destinatari: “Semplicemente – Ted se ne è andato. Non lo vedo da due settimane”, scrive alla mamma; poi a un’amica, Kathy Kane, “Ted ci ha abbandonati – non penso di andare in vacanza, sono desertificata”; poi a Ruth Beuscher, la sua analista, “Sola – disperata – Ted mi ha abbandonato – non lo vedo da due settimane”. E poi, ancora a Ruth, “Ted ora è sull’orlo della ricchezza, non vuole darci nulla. Meschino e materialista, pura classe operaia inglese”.

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Diciamolo. Sulle 14 lettere che la Plath invia a Ruth, da cui va in analisi dal 1959 – e a cui scrive l’ultima lettera, il 4 febbraio del 1963 –, si regge l’intero volume. Non è una balla da spudorati mordivergogne: così vuole la figlia di Ted e Sylvia, Frieda, che su quelle lettere giostra la giustificazione, al principio del tomo. “Il secondo volume di lettere continua a mostrare i documenti della vita di mia madre e mostra il percorso delle sue amicizie e relazioni – incluso il rapporto con mio padre raccontato nelle 14 lettere inviate al suo psichiatra, la dottoressa Ruth Beuscher, lettere che non avrei mai pensato di includere in questo libro. Di queste lettere, ora, voglio scrivere”. Di queste lettere – e di una fantomatica messa all’asta – si parlò lo scorso anno, quando furono divulgate sulla stampa alcune frasi agghiaccianti: “Ted mi ha picchiata per un paio di giorni fino a farmi abortire”, scrive il 22 settembre del 1962; poi, “mi sembra che voglia uccidermi” (9 ottobre 1962), “mi ha detto chiaramente che desidera la mia morte” (21 ottobre 1962).

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Le lettere a Ruth Beaucher sono intrise di furente sessualità: “Non voglio essere la moglie che nessuno si fotte”, scrive. L’idillio matrimoniale – fittizio: “il matrimonio è l’esperienza centrale della mia vita… più cruciale di una religione, della carriera, di ogni cosa”, scrive in una lettera, ma nei diari l’opinione è diversa, “tutto è sterile – io sono parte delle ceneri del mondo, qualcosa da cui niente può germogliare, niente può fiorire né portare frutto” – è interrotto. I consigli della psichiatra sono brutali: “Se Ted ha bisogno di una serie di scopate bidimensionali, lascialo fare… stai a lato come una signora all’antica. Se ti capita di andare a letto con lui, fallo”. Tuttavia, ogni considerazione è parto parziale: “Mi ha scritto molte lettere – la maggior parte, le ho bruciate”, ha detto Ruth, interpellata da Paul Alexander su Literary Hub. In un articolo specifico, The Psychiatrist who Tried to Save Sylvia Plath, viene dettagliata la relazione tra la poetessa e il suo analista. Nata a Grenoble, trasferitosi negli Usa da piccola, un vero fenomeno – a 14 anni termina le scuole secondarie, passa al college a 16, si laurea alla Columbia University – Ruth inizia a praticare a 29 anni, nel 1953: “Sylvia è il secondo o il terzo paziente su cui mi sono applicata… quando viveva a Boston, nel 1959, ci vedevamo almeno una volta alla settimana”.

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Non bastano le lettere. Nei Diari – in Italia li stampa Adelphi – il legame con Ruth è costellato di ampie note – la dottoressa Beuscher è il personaggio più citato da Sylvia insieme alla madre. “Ho fiducia in R.B. perché è in gamba, sa il fatto suo e l’ammiro molto… posso dire qualsiasi cosa e lei non si scompone, non mi sgrida e non smette di ascoltare”. Ruth, in tempi precoci, capisce che il rapporto tra Ted e Sylvia è pericoloso e pericolante. “R.B. dice: ‘Avresti il fegato di ammettere di aver fatto la scelta sbagliata?’. Sul marito. Sì, l’avrei… Sto bene con mio marito: mi piacciono il suo calore, la sua molte, il suo esserci, il suo fare, le sue battute e le sue storie”. Interrogata, Ruth dà la risposta di ogni psicoanalista: “Sylvia avrebbe potuto salvarsi… se l’avessi vista due volte alla settimana per tre anni, sono certa che avrebbe potuto superare ogni problema”.

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Ciò che mi affascina sono le pastoie del passato. In questa storia, la figura più potente è Frieda, la figlia di Sylvia e di Ted. Di entrambi restano le opere – soffriggere la reciproca sofferenza cosa aggiunge alle loro mirabili poesie? Di stupefacente bellezza, invece, è la vicenda di Frieda, che ha il coraggio di rispecchiarsi nella madre e di difendere il padre dall’astio degli ignavi. Frieda abita, come Persefone, a metà nel regno dei morti, buca la loro immagine con le dita, ne assaggia i capelli dal sapore di ricino e di zucchero. Il fratello Nicholas si è ucciso nel 2009, impiccato nella casa in Alaska, faceva il biologo marino. Lei sopravvive, e il dolore non la rassegna, non le impedisce il sorriso. (d.b.)

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