21 Gennaio 2019

“Non voglio essere famosa, voglio avventurarmi, voglio essere libera”: sui diari di Virginia Woolf (un evento)

Nel diario non c’è il cuore dello scrittore – lo scrittore ipotizza sempre un ‘pubblico’, fosse la platea dei morti. Il ‘genere’ specifico – il diario – obbliga lo scrittore a confessarsi – ma la confessione non è uno specchio, è una farsa. Si confessano le maschere, si riflettono menzogne.

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Per questo, sono materiali decisivi i diari degli scrittori. Esprimono la loro fiducia nel falso, sono sortilegi autobiografici, l’epifania della leggenda. Attraverso il diario, di solito, lo scrittore cancella le sue tracce, ordisce un’orda di truffe a suo danno, per vanificare, fin da subito, l’opera becera dei biografi, il loro belato da farisei.

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D’altronde, la letteratura nasce dal diario: un uomo che scrive i propri atti, ne prende responsabilità, si perde, e giustifica, sorridendo, i propri errori. Nella notte delle utopie, ho sognato di costruire una collana editoriali di ‘diari’. Gli scrittori, liberi dalla prigionia narrativa, di solito, fanno scempio di sé nei diari, danno mostra di implacabile maestria.

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Tra i diaristi, il ruolo supremo, dicono gli esperti – “è lo Shakespeare del genere diaristico”, ha scritto Anna Jackson; “riluce in essi un risultato letterario pari ai suoi romanzi maggiori”, ha detto Quentin Bell – spetta a Virginia Woolf, la quale, “dal primissimo diario, abbozzato all’età di quattordici anni, riempie i propri diari di vita, di vita che respira” (Barbara Lounsberry). Un vero avvenimento culturale, dunque, è la pubblicazione, per la University Press of Florida, di Virginia Woolf, the War Without, the War Within: Her Final Diaries and the Diaries She Read (2018), che conclude il lavoro di pubblicazione e commento dei diari della Woolf, compiuto dalla Lonsberry, professore emerito alla Northern Iowa University, cominciato nel 2014 con Becoming Virginia Woolf: Her Early Diaries and the Diaries She Read (2014) e inframmezzato da Virginia Woolf’s Modernist Path: Her Middle Diaries and the Diaries She Read (2016). Il lavoro è micidiale perché comprime un’opera di scrittura di sé che va dal 1897 al 1941, “ha scritto i suoi diari fino a quattro giorni prima della morte, collezionando, in totale, 770.000 parole… non esiste ‘un’ diario di Virginia Woolf, ma 38 diari diversi, pensati in momenti diversi dalla scrittrice e con motivazione diverse. Leggendolo come un unico lavoro, il diario della Woolf può sembrare simile all’Ulisse di Joyce o alla ‘Recherche’ di Proust: qualcosa di abnorme, di monolitico, la creazione di un autore olistico e unico di capolavori canonici. Ma la Woolf, come noi, non era una singola persona bensì una cascata di voci, emozioni, personaggi differenti – tutti complementari tra loro, in lotta tra loro” (così Colin Dickey in una bella articolessa pubblicata da “The New Republic” come A Series of Selves).

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Il diario non è l’espressione di una singolare personalità ma il metodo attraverso cui lo scrittore sarchia se stesso. Il diario è una lama con cui affilarsi, un luogo del patimento: lo scrittore scrive per non adempiere a ciò che si è promesso, per deviare dal patto, per sputtanarsi.

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Nel 1933 la Woolf appunta: “Non sarò mai famosa, grande. Continuerò ad avventurarmi, a cambiare, ad aprire la mia mente e i miei occhi, rifiutando di diventare una didascalia e uno stereotipo. Liberare se stessi: trovare la propria dimensione, non essere ostacolati”. Lo scrittore non attende altro che l’inatteso, non scrive per la fama ma per l’avventura, l’unica forma accettabile di grandezza è l’indipendenza, l’inadempienza alle norme dettate dallo stile. Lo scrittore, in effetti, non ha uno stile, semmai stilizza la propria fuga in una narrazione. La sua fama è sfamare l’inquietudine – travolgere la grammatica della dote quotidiana – fino a inabissarsi con le pietre in tasca. (d.b.)

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