08 Marzo 2019

“Non esiste gioia senza lotta, e un nuovo inizio è sempre possibile”: dialogo con Giovanna Rosadini

Penso che Giovanna Rosadini non vada letta. Giovanna Rosadini – forse l’ho già detto – va strappata. Con i suoi libri, intendo, non si può avere un rapporto da lettori qualsiasi, avvertiti o meno, avventurieri o narcotizzati dalla lirica, che vogliono trarre godimento d’intelletto. La Rosadini – poeta, per altro, formalmente impeccabile – va vissuta, vuole essere esplorata, estrapolata, strappata. La poesia è la prima parte di un dialogo che sei tu a dover adempiere e rilanciare – e mai completare. Pattuglia i giorni, la Rosadini, li perimetra con il barometro poetico, sguinzagli i cani da caccia del verbo. E pretende, da te, non di essere accudita: si dà in pasto. Di Fioriture capovolte (Einaudi, 2018), per dire, sorprende già l’anomalia del titolo: come se qualcosa, nonostante il capovolgimento, nonostante tutto, continui a fiorire, a esplodere vita, vizio e virgulto di gioia. “Notte medusa che mi mangi il sonno/ e mi sprofondi in abissi senza sponda,/ dammi il conforto di ritrovare un senso/ a ciò che sembra essersi perduto”. Che nitidezza oraziana, classica, in questo gesto di istoriare lo stipite della notte con versi beneaugurali. Poi mi segno questo, “La nascita ci consegna a un nome,/ ne custodiamo l’arbitrarietà sino a farlo/ nostro”: amo l’enigma che c’è qui dentro, la responsabilità del nominare, una risonanza di bronzo.  Poi, tra liriche piene di acqua, di acquari e di nebbia – ciò che è offuscato rasenta la visione millimetrica – amo questa, di ghiaccio, come di uno che abbia scuoiato pezzi di tramonto per farne cibo agli uccelli carnivori: “Benvenuta nebbia che occulti e attutisci/ potessimo disfarci nel tuo corpo di latte/ impunemente senza strascichi o rinvii/ come un errore finalmente rimediato/ come un dolore finalmente riassorbito”. Da qui, dunque, dallo stato di spostata, di sposa all’estate dei persi, senza pesi (“Incinta di vento – vuota, inquieta,/ sparsa come un gregge di foglie”), invito Giovanna al dialogo. (d.b.)

Intanto. Da dove nasce questo libro? Voglio dire. C’è sempre, in te, un desiderio di ricapitolazione – di resurrezione? – nella poesia, di dare forma ai giorni, di fabbricare gli annali minimi della propria biografia: è vero?

Caro Davide, hai centrato il cuore della mia poesia. Ogni mio libro è un libro sulla possibilità di cambiamento e di rinascita, sempre attuabile, credo, in qualsiasi momento della vita. È quello che riassumo nella poesia di apertura del Numero completo dei giorni, corrispondente alla parashà di Bereshit, o, ebraicamente parlando, “Dell’inizio”, Genesi per la tradizione cattolica. Un nuovo inizio, legato a una possibilità di rigenerazione, è sempre possibile, anche se la nostra cultura (parlo del retaggio europeo) fatica a concepirlo: in una cultura più giovane e dinamica come quella americana è la norma. Si può mettere a fuoco la propria ispirazione anche a cinquant’anni, e lasciare il proprio lavoro routinario per mettersi a studiare musica e diventare direttore d’orchestra, o mettersi a dipingere, o assecondare una nuova inclinazione sentimentale… Poi, sì, scrivere poesia è un modo per dare forma ai giorni, scavare nel senso del tempo che passa fermandolo in un segno, coagulandone l’essenza.

Dimmi. Qual è l’idea complessiva del libro. Che la memoria, forse, è il veleno della vita a venire? Che la lotta – tra vetri e fratture – è ancora conservare il distillato della gioia? Che cosa è questo “residuo immedicabile del mondo”?

Più che il veleno direi forse il nettare, se si è avuta una vita sufficientemente buona come credo sia stato per me. Non penso che ci sia un’idea complessiva del libro, se non quel filo rosso che lega le mie opere che ho precisato sopra. Detto questo, venendo al tema della lotta, Michel Houellebecq ha scritto un meraviglioso libro di poesie intitolato Le sense du combat. Pieno di energia, vitale, lucidissimo.  Ho rimosso questo aspetto essenziale della vita fino alla fine del decennio dei miei trenta, cresciuta com’ero in una cultura/società di benessere garantito e indiscusso, in cui non si dava la necessità di competere per soddisfare le proprie necessità… il mondo della mia infanzia è un mondo di buoni sentimenti e di buona educazione, pacificato e garantito. Crescendo, mi sono resa conto che non era così, e ho maturato nuove consapevolezze, a contatto con le asperità del mondo. Si è trattato di un lungo ma necessario percorso, che è sfociato nella legittimazione della mia scrittura. Non si dà affermazione di se stessi e delle proprie istanze senza lotta, in senso più o meno figurato. Senza di ciò non si può pervenire alla gioia di trovare e riconoscere il proprio ruolo nel mondo.  Anche quando si ha la fortuna di raggiungere individualmente questo obiettivo, è facile che rimanga un quid di irrealizzato, non compiuto, e credo proprio che per la maggioranza delle persone sia così… C’è sempre qualcosa che manca, un inciampo, un fatto imprevisto che cambia la vita, e lo stesso, per estensione, nelle cose della vita e del mondo. Imperfetto per definizione. Abbiamo assistito, nel Novecento, al fallimento della realizzazione pratica dell’ideologia comunista, con il suo portato di riscatto sociale e di egualitarismo… È uno degli esempi possibili. La realtà è irreggimentabile. Per quanto ci si possa avvicinare dal punto di vista personale a un compimento, e da quello sociale a una buona organizzazione e gestione, ci sarà sempre un deficit, qualcosa che non funziona o non è abbastanza soddisfacente… È questo, “Il residuo immedicabile del mondo”. Qualcosa di connaturato e non emendabile, che possiamo trovare anche in natura. Qualcosa con cui tutti dobbiamo fare i conti, o imparare a fare i conti. Per dirla con le parole di Philip Roth: “Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui”.

Da un lato, certo, le fioriture, il fiore che poi marcisce alla terra per fecondarla di nuovi sensi e gesti. Dall’altro, molte immagini rimandano all’acqua, all’acquario, al fossile, al luogo della nascita originaria, dove tutto passa e nulla si dimentica. Ci sono forse dei simboli-ossessioni in questa raccolta?

Forse. Non ci avevo ancora pensato in questi termini. Di certo, l’acqua è un elemento ricorrente, presente in ogni sezione del libro… Dal mio mare di Liguria agli abissi oceanici popolati di creature inquietanti e all’acqua morta (da una suggestione del poeta cinese Wen Yiduo) della sezione Lo spazio bianco, fino all’acqua di Venezia dell’ultima sezione, dove rievoco gli anni universitari che vi ho trascorso. Acqua come elemento materno, rigenerante, ma anche ricettacolo oscuro e misterioso. Poi, direi, tutto il libro è attraversato dalla dicotomia luce-ombra, chiaro-scuro, la luce dell’infanzia e la cupezza dell’adolescenza, le luci e le ombre del sentimento amoroso, gli slanci e le inquietudini della giovinezza… Poi, c’è il luogo mitico per definizione della mia infanzia, la grande casa affacciata sul mare dove sono cresciuta, col suo giardino circondato dai cipressi e pieno di piante e fiori: il luogo dove si è incarnata la mia immaginazione emotiva, oggi purtroppo perduto. Probabilmente è questo, il luogo della nascita originaria, quello dove si è formata la consapevolezza di chi sono.

Poi, a un certo punto, arrivi pure a benedire la nebbia, preghi di poterti disfare in essa, “come un errore finalmente rimediato”. Poesia bellissima, arcana e arcaica, ‘classica’. Significato agghiacciante. Cos’è allora la vita, cosa sono i rapporti umani?

La poesia della nebbia è quella in apertura della seconda sezione, Lo spazio bianco. Qui affronto il lato rovescio della vita, i suoi momenti faticosi e difficili, quelli in cui mancano le risorse per affrontare il mondo e la realtà. In una parola, parlo di depressione. Condizione oggi comune a molti, e a me del tutto sconosciuta prima del mio incidente. Dopo, ho imparato a farci i conti e a gestirla, naturalmente con l’aiuto di persone competenti a me vicine. Ho a poco a poco imparato a non temere i momenti no, quelli che spaventano e che cerchiamo, quando li sentiamo avvicinarsi, di tenere a distanza. La scrittura mi ha aiutato. Accogliendo questi momenti, ho capito che era possibile attraversarli e uscirne, se non incolume, più consapevole e talvolta fortificata. È il tema dell’episodio biblico della lotta di Giacobbe con l’angelo, che ho affrontato nel Numero completo dei giorni. Detto questo, credo che la vita sia un percorso ininterrotto di ricerca, innanzitutto di senso. E il senso lo troviamo proprio, se abbiamo la capacità e fortuna di trovare prima noi stessi, nei rapporti umani, nella possibilità di una comunione affettivo-emotiva con gli altri. Assumendoci il rischio e la responsabilità di fondare dei legami profondi. Sono gli altri, i testimoni della nostra esistenza, a darci consistenza e presenza nel mondo: una verità che ho vissuto sulla mia pelle con l’esperienza del ritorno alla vita dopo il coma, e che ho descritto in Unità di risveglio.

La raccolta è costellata da una serie di epigrafi tratte da diversi poeti contemporanei. Che azzardo. Esiste, allora, davvero, oggi, una ‘comunità’ di poeti?

La comunità dei poeti esiste da sempre, o, per meglio dire, esiste in senso sincronico e diacronico, ci sono i poeti a noi contemporanei che scrivono in ogni lingua e parte del mondo e ci sono i poeti che ci hanno preceduti, e continuano a parlarci con i loro versi. E ci sono i poeti che verranno dopo di noi, e leggeranno i nostri versi perpetuando in questo modo il nostro spirito e la nostra essenza. Attraverso la reciproca lettura, nostra di coloro che sono stati e che coloro che verranno dopo di noi faranno dei nostri testi, si attua una compresenza che supera le barriere temporali e, nel caso in cui leggiamo un poeta di un altro paese o continente, spaziali. Se non è una straordinaria comunità questa! Poi, sul piano personale, ci sono i legami e le relazioni, vive e concrete, con gli amici che scrivono poesia. Io credo di essere particolarmente fortunata, perché ho potuto conoscere, negli anni in cui lavoravo in Einaudi, personalità e maestri come Alda Merini, Giovanni Raboni, Raffaello Baldini e altri. Successivamente, quando io stessa ho cominciato a pubblicare, si è venuta formando una rete di amicizie e legami, quando non affinità elettive, davvero formidabile. Fondamentale lo scambio e il supporto con le mie sorelle di penna, da Maria Grazia Calandrone a Laura Pugno, Daniela Attanasio, Elisa Biagini, Giovanna Frene e Laura Liberale. Ciascuna di noi ha una poetica e una modalità di scrittura differente, ma è proprio questo il bello, e qui sta l’arricchimento reciproco. Poi ci sono le maestre di poesia, Mariangela Gualtieri, Antonella Anedda: ciascuno dei loro libri ha influenzato la mia scrittura. Ma ci sono anche gli amici poeti e scrittori, come Cristiano Poletti, l’estensore di questa intervista e Tiziano Scarpa, un’amicizia fondamentale lunga una vita.

“Si scrive sul vuoto e sull’assenza… ed è una lotta con l’ombra”. Vuoto, lotta. Forse scrivere è compiere gesti marziali, nel vuoto. Lotta intrattenuta con gli assenti. Dimmi. Poiché il poeta sembra sempre avere parole definitive e mai assolutorie. Che rapporto c’è con la morte, con i legami che sono morti e moribondi? E ora… cosa andrai scrivendo?

La scrittura, soprattutto quella poetica, è un esercizio di memoria, di ricostruzione del senso, una tessitura che recupera mancanze, perdite, incompiuti, lutti. Quindi una lotta con qualcosa che si sottrae, a cui bisogna dare una sembianza. Un risarcimento, una fune lanciata verso una sponda incerta. La poesia è categorica? Forse, un certo tipo di poesia, quella più orfico-oracolare… La mia credo sia più una poesia di evocazione, di introspezione e di figura. Una poesia che condensa storie. La morte risulta così esorcizzata, ma è sempre sullo sfondo, c’è un sentimento di quieta accettazione. Per quanto riguarda me stessa. Per ciò che concerne i legami, lascio andare senza rimpianti quelli che non hanno più motivo di essere, e lotto per conservare quelli senza i quali la mia vita non sarebbe più la stessa. Ma, come noto, non c’è nulla di più complicato, tortuoso e spesso incomprensibile delle relazioni umane. È ancora presto, ora, per dire cosa andrò a scrivere, anche se è da un po’ che rimugino un progetto narrativo… chissà!

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