01 Agosto 2018

“Non ce la faccio più a lottare. Allora faccio quella che mi sembra la cosa migliore”: Andrea Caterini ci racconta, tra biografia e critica, Virgina Woolf

Zero.

Bisogna immaginare una donna che una mattina della fine di marzo del 1941 (l’aria fresca e una pioggia sottile che inumidisce l’erba), nella sua casa di campagna – la servitù affaccendata a preparare il pranzo, a rassettare le stanze, a spazzare i pavimenti – prende una decisione importante, addirittura definitiva. Si avvicina allo scrittoio del suo studio, uno studio che era una casetta costruita appositamente per lei nel giardino, separata dalla casa, una stanza che fosse solo sua, tutta per sé, una stanza che era una scatola cranica, un volo della mente, un mondo, apre un blocco di fogli e comincia a scrivere. Più tardi, nello studio, entra suo marito, che stava lavorando in giardino, solamente per salutarla – l’apprensione per la salute psichica di sua moglie lo tiene in uno stato d’ansia continuo. Capisce che sta scrivendo, si ferma un momento, non vuole disturbarla, forse le accarezza i capelli sulla nuca ma con delicatezza, senza invadenza – o forse pensa solamente che potrebbe accarezzarla, ma non lo fa –, non osa sbirciare quei fogli; esce e si avvia verso casa. Lei lo segue, ma i due presto si separano di nuovo – la donna entra nella sua camera da letto e continua a scrivere. Infine, esce dalla stanza, lascia due lettere sopra il caminetto e si avvia col suo bastone da passeggio verso il fiume. Nel tragitto raccoglie due sassi pesanti, li infila nelle tasche, ne misura la consistenza e il peso e si accerta che siano sufficienti allo scopo. Arrivata all’argine dell’Ouse, non si toglie di dosso neppure gli stivali; vi entra così, vestita e senza fretta (il corpo esile, leggero nonostante l’altezza, però fragile adesso che una scossa le attraversa la spina dorsale; anni prima, nel 1925, aveva ritratto Clarissa Dalloway così – ma sono convinto si trattasse di un autoritratto: «aveva una figura sottile, come la pianta del fagiolo, una piccola faccia ridicola, con un naso a becco di uccello. Era vero che si conservava bene, e aveva mani e piedi graziosi, e vestiva bene, considerando che spendeva poco. Ma spesso ora quel corpo che abitava […] quel corpo, con tutte le sue qualità, non sembrava nulla, era nulla. Aveva l’assurda sensazione di essere invisibile; non vista; non riconosciuta»). Cammina finché l’acqua non raggiunge la bocca, il naso e infine gli occhi. Si lascia andare. Non lo sappiamo se dovette resistere a se stessa; se il suo demone, la sua malattia, dovettero lottare con un istinto di sopravvivenza; se la febbre della vita si sia, almeno per un momento, ribellata a quella follia, a quell’assedio di morte. La cosa certa è che se doveva scegliersi una morte, non poteva che essere per acqua, che era il suo elemento, prima che il suo destino (aveva scritto in chiusura del suo romanzo Le onde: «Quale nemico avvertiamo ora avanzare verso di noi, di te e di me che ti monto, mentre fermi su questo tratto di selciato scalciamo impazienti? È la morte. La morte è il mio nemico. […] Contro di te mi slancio invitto e invincibile, o morte!” Le onde si ruppero a riva»). Se dovessimo far fede alla lettera lasciata a Leonard sul caminetto, dovremmo pensare a un eccesso di controllo, di lucidità, di freddezza: «Comincio a sentire le voci e non riesco a concentrarmi. E allora faccio quella che mi sembra la cosa migliore. Tu mi hai offerto la massima felicità possibile. Tu sei stato in tutto e per tutto quello che nessuno poteva essere. Non penso che due persone avrebbero potuto essere più felici di noi, fino a quando non è arrivata la malattia. Non ce la faccio più a lottare. So che sto rovinando la tua vita, che senza di me potresti lavorare. E lo farai, io lo so. Vedi che non riesco neppure a scriverlo in modo appropriato. Non posso rileggere». Ma non era vero che non aveva riletto. Nella sua camera da letto aveva lasciato il blocco di fogli e la prima stesura della lettera: «Io so purtroppo che non potrò mai superare questo momento e che sto rovinando la tua vita. Nessuno potrà convincermi del contrario. Tu puoi lavorare e starai meglio senza di me. Vedi che non posso nemmeno scriverlo, cosa che dimostra che ho ragione».

«Non posso scriverlo», «Non posso rileggere». Eppure aveva fatto entrambe le cose. Non era affettazione. Non si trattava di una delle infinite revisione delle pagine dei suoi romanzi – riletture e correzioni che la sfinivano. Sembrava piuttosto che la riscrittura della lettera fosse un modo per confermare che davvero era la scelta giusta; che l’addio alla vita era irrevocabile; che neppure scrivere le avrebbe più garantito una possibilità di liberazione, di lotta coi propri demoni, di salvezza; che neppure l’ironia, la stessa che aveva mantenuto fino a venti giorni prima del suicidio, sarebbe bastata («Tenersi occupati è essenziale. E ora, con un certo piacere, mi accorgo che sono le sette e che devo preparare la cena. Merluzzo e salsicce. Credo sia vero che, scrivendone, ci si rende in qualche modo padroni del merluzzo e delle salsicce» – dal Diario dell’8 marzo 1941) – nonostante i propositi di gennaio (Diario, domenica 26): «Questo baratro di disperazione non mi inghiottirà, lo giuro».

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ToTheLighthouseNascita di una scrittrice.

Il cognome di Virginia non era Woolf, ma Stephen. La famiglia in cui era nata, il 25 gennaio del 1882, a Londra, esprimeva già una complessità compositiva. Leslie e Julia, i suoi genitori, erano entrambi vedovi e al loro secondo matrimonio. Julia aveva già tre figli di prime nozze: George, Stella e Gerald; Leslie una: Laura (la quale soffriva di gravi disturbi mentali che la costringeranno all’internamento – morirà poi in una casa di cura nel 1945). Sposandosi, i due diedero al mondo altri quattro figli: oltre a Virginia, terzogenita, Vanessa, Thoby e Adrian.

Il rapporto di Virginia coi suoi fratellastri era complicato. Specie quello con Gerald, che la segnerà per tutta la vita. In un testo autobiografico scriverà: «Ecco ho scoperto un’altra componente della vergogna che provavo all’idea di essere colta a guardarmi allo specchio dell’atrio. Dovevo avere vergogna o paura del mio corpo. Un altro ricordo, legato esso pure all’atrio di Talland House, può forse aiutare a capire. C’era una mensola di pietra fuori della porta della sala da pranzo, per metterci i piatti. Una volta, quando ero molto piccola Gerald Duckworth mi sollevò e mi ci mise a sedere, e incominciò a esplorare il mio corpo. Ricordo ancora la sensazione della sua mano che scivolava sotto i vestiti; che scendeva sicura e inesorabile sempre più giù. Ricordo con quanto fervore pregavo dentro di me che la smettesse; come mi irrigidii e cercai di scostarmi mentre la sua mano si avvicinava alle mie parti intime. Ma lui non smetteva. La sua mano esplorò anche le mie parti più intime. Ricordo l’offesa, il fastidio – quale parola può rendere un sentimento così inarticolato e ambiguo? Dev’essere stato intenso, se ancora non lo ricordo. Questo sembra dimostrare che i nostri sentimenti su certe parti del corpo; come non vadano toccate; come sia male lasciarsele toccare; devono essere istintivi. Dimostra che Virginia Stephen non è nata il 25 gennaio del 1882, è nata migliaia di anni fa, e ha dovuto fin dall’inizio fare i conti con istinti già acquisiti da migliaia di antenate nel passato». Su come sia complicata la personalità di Virginia basti dire che, nonostante quello che aveva subito e che subiva da Gerard, riesce ancora a vederne i lati positivi, se in una lettera all’amica/amante Violet Dickinson (dell’11 ottobre 1903) poteva scrivere che con «Georgie e Gerald non si parla: sono una coppia meravigliosa. Una cena insieme a loro è una cosa di cui si ride ancora dieci giorni dopo. Gerald è un po’ geloso, e Georgie è il bravo ragazzo, le cui virtù sono state premiate». Il passo autobiografico però ci rivela molto non soltanto di come le molestie subite segneranno il carattere e la personalità di Virginia per il resto della vita, ma pure su come queste si tradurranno nella sua opera. Se infatti ragioniamo sulla sua idea del femminile in letteratura, che così bene ha espresso in Una stanza tutta per sé e successivamente in Tre ghinee, ci rendiamo anche conto che quelli che sono stati presi come manifesti femministi erano in realtà qualcosa di più profondo. Certo, in Virginia ci sarà sempre l’idea che la donna dovesse avere pari diritti dell’uomo, ma la sua visione della letteratura era più alta di un problema di carattere squisitamente sociologico. Leggendo quel passo nella prospettiva dei libri che scriverà, in particolare quelle frasi in cui ci dice del rapporto col proprio corpo, della percezione che ne aveva, della vergogna che le causava (di nuovo viene in mente il ritratto di Clarissa Dalloway già citato – «Ma spesso ora quel corpo che abitava […] quel corpo, con tutte le sue qualità, non sembrava nulla, era nulla»), capiamo pure, oltre all’evidenza della ferita, che desiderava superare, scrivendo, la questione di «genere». Per Virginia il genere – maschio/femmina – in chi scrive viene superato non tanto in una asessualità, ma in un essere che maschio e femmina comprende in una sola essenza. Quell’essere che più tardi ha voluto incarnare nel personaggio di Orlando dell’omonimo romanzo e che nella Stanza tutta per sé si sviluppa «nella possibilità della mente di oltrepassare non il corpo sessuato, ma il genere, condizionamento culturale e sociale imprigionante per uomini e donne», come scrive Liliana Rampello in una bella monografia dedicata alla Woolf (Il canto del mondo reale).

Gli Stephen erano una famiglia colta e borghese. Il primo matrimonio di Leslie era stato con la figlia del popolarissimo scrittore William Thackeray. Leslie era un saggista di grande autorevolezza: biografo, critico letterario, storico e intimo amico dei maggiori intellettuali del tempo. La sua casa era frequentata da personaggi come Henry James e John Ruskin. Il 25 agosto del 1907, Virginia, scrivendo a Violet, ironizzava (e l’ironia accompagnerà il suo carattere fino alla fine dei suoi giorni), facendogli il verso, proprio su James, del quale aveva però una grande stima intellettuale, come sappiamo dagli articoli critici che a lui dedicherà: «Henry James, guardandomi fisso con quei suoi occhi privi di espressione, che paiono biglie, mi ha detto: “Mia cara Virginia, mi dicono… mi dicono… che tu… degna figlia di tuo padre, anzi nipote di tuo nonno… con alle spalle un secolo… direi… un secolo di carta, penna e… calamaio, sì, sì, sì, mi dicono ehmm m m… che tu, che tu, insomma, che tu scrivi”. […] Nessuna donna ha mai odiato lo “scrivere” quanto me. Però quando sarò vecchia e famosa, anch’io voglio parlare come Henry James». Julia invece, era nata in India, ma presto si era trasferita in Inghilterra e, vista la sua bellezza (il suo profilo «era del periodo classico dell’arte greca», scriverà Virginia), aveva intrapreso una carriera di modella per i maggiori artisti del tempo. La possiamo ancora ammirare, nelle vesti della Madonna, nell’Annunciazione dipinta da Edward Burne-Jones.

Per Virginia, Leslie, che su di lei aveva molte aspettative viste le sue capacità, aveva previsto un’istruzione privata. Nadia Fusini, tra le maggiori esperte della scrittrice in Italia, in un saggio recente ha scritto: «È commovente vedere come tra i molti altri perigli, per crescere Virginia dovrà districarsi da una assimilazione familiare, automatica e di comodo, pronta a schiacciarla per pigrizia interpretativa in una identità pericolosa con i “folli”. I “malati mentali”. I “deficienti”. Se Ginny – così la chiamano in casa da piccola – precocemente impara a parlare e leggere e scrivere; se si applica con determinazione a studiare il latino e il greco, è anche per dimostrare che è “sana” di mente e ha semmai capacità di intelletto non para-, ma extra-normali. Fa di tutto per distinguersi e per dimostrare la sua intelligenza; perché non si dica di lei che è intellettualmente deficiente come Laura. (Sarebbe una delusione tremenda per il padre). O pazza come Jem. Non vuole che s’aggiunga un’altra pecca alla prestigiosa linea di studiosi e intellettuali che decora l’albero genealogico degli Stephen. È dunque anche per il padre, per non deluderlo, che Ginny compie lo sforzo di sottrarsi alla sentenza e alla prigione della “follia”; per lui ogni volta che cade si sforza di risorgere».

Nonostante l’ansia da prestazione, e nonostante molti commentatori dicano dell’influenza negativa che aveva su di lei, la verità è che Virginia vantava un rapporto strettissimo e privilegiato con suo padre. Lo amava follemente. È vero, alla morte della sua seconda moglie, Leslie aveva espresso un dolore profondamente egoista; desiderava essere compatito, quasi non rendendosi conto del dolore che provavano anche i suoi figli, come se la ferita per quella morte – che assumeva toni addirittura patetici – fosse di sua esclusiva proprietà (in Gita al faro, il signor Ramsay, ispirato al padre di Virginia, verrà chiamato dai figli «tiranno», proprio per questo suo evidente egoismo, per questo suo assoggettare tutti a sé e ai propri interessi). Ma questo non ci impedisce di vedere quanto Virginia gli fosse devota e affezionata («Papà è una persona incantevole; andiamo così d’accordo quando siamo soli, ce ne diciamo di tutti i colori», lettera a Violet dell’ottobre/novembre 1902; o ancora, sempre a Violet, il 25 gennaio del 1904: «Papà mi ha regalato un anello davvero bellissimo che adoro: è il primo anello che abbia mai avuto. Persino in questo periodo c’è qualche consolazione. È incredibile quanto ancora mio padre possa darmi – e lui dice che sono un’ottima figlia! È la creatura più deliziosa che ci sia e Dio sa come faremo senza di lui»). Quando la malattia del padre (un tumore al pancreas) lo sta mano a mano uccidendo, era lei che gli stava costantemente vicino. Alla sua morte Virginia aveva 21 anni. Dopo il funerale compie un viaggio insieme ai suoi fratelli per la Francia e l’Italia, ma qui avrà un acutissima crisi nervosa – soffre molto la morte del padre e, oltretutto, si accorge che quella perdita tocca nel profondo solamente lei; che i fratelli, del padre, non ne sentono per nulla la mancanza. Della sua salute si occuperà Violet, portandola nel suo cottage. Virginia tenta per la prima volta il suicidio gettandosi da una finestra. Sarà costretta a curarsi (scrive a Violet nel settembre del 1904: «Sarai contenta di sapere che la tua Sparroy [uno dei tanti soprannomi di Virginia] si sente ormai un uccello guarito. Credo che finalmente il sangue arrivi al cervello. È una sensazione stranissima, come se una parte di me che era morta tornasse in vita. […] Quelle voci che mi dicevano di fare ogni sorta di cose assurde non ci sono più. Nessa [così chiamava sua sorella Vanessa] dice che me le sono sempre e soltanto immaginate. A Welwyn stavano quasi per farmi impazzire; credevo che fossero dovute all’eccesso di cibo, ma non è così perché continuo a ingozzarmi, eppure non le sento più»).

Un rapporto più oscuro invece lo aveva con sua madre, che morirà il 5 maggio del 1895, quando lei aveva solo tredici anni. Julia, invece, ne aveva appena quarantotto. Aveva partorito sette figli; pianto il primo marito, di cui era stata innamoratissima; sposato un altro uomo (Leslie) più vecchio di lei di quindici anni (leggendo i suoi libri, ne aveva provato una grande ammirazione intellettuale, eppure non lo amava; piuttosto aveva deciso di dargli consolazione). Julia sarà per Virginia sempre un mistero. Un mistero che poi aveva sciolto ritraendola in quello che sarà il suo capolavoro narrativo, Gita al faro, nel personaggio della signora Ramsay. «Fino ai quarant’anni e oltre» scriverà in Immagini del passato «fui ossessionata dalla presenza di mia madre. Ne udivo la voce, la vedevo, mi immaginavo cosa avrebbe fatto o detto in ogni momento della giornata. Era una delle presenze invisibili che svolgono tanta parte in ogni vita umana. […] È la verità che mia madre costituì per me un’ossessione fino ai quarantaquattro anni. Poi un giorno mentre attraversavo Tavistock Square pensai, come mi accade talvolta con i miei libri, pensai Gita al faro; con grande, apparentemente involontaria urgenza. Una cosa ne suscitava un’altra, come soffiare bolle di sapone da un cannello: ecco questo può rendere il senso del rapido affollarsi di scene e di idee che mi sgorgavano dalla mente, sicché le mie labbra sembravano articolare parole di loro volontà mentre camminavo. […] scrissi il libro molto rapidamente; e quando l’ebbi scritto, smisi di essere ossessionata da mia madre. Non odo più la sua voce; non la vedo. Probabilmente feci a me stessa quello che gli psicanalisti fanno ai loro pazienti. Diedi espressione a qualche emozione antica e profonda. Ed esprimendola ne trovai la spiegazione e la potei riporre placata». Più avanti, nello stesso scritto, cercherà di razionalizzare la figura materna: «Per lui [si riferisce ad Adrian, l’ultimo dei figli] aveva un affetto particolare; lo chiamava “la mia gioia”. Non posso non tener conto di questo che ho compreso dopo, di lei; perciò capisco ora come una donna di quarant’anni, con sette figli, di cui alcuni bisognosi di attenzione adulta e quattro ancora bambini; e un’ottava figlia, Laura, deficiente eppure in casa con noi; e un marito di quindici anni maggiore di lei, difficile, esigente, dipendente; capisco ora come una donna che aveva da mantenere in vita tutto questo, e sotto controllo, non potesse che essere una presenza generale più che un individuo particolare per una bambina di sette o otto anni. Quando mai, che io ricordi, sono rimasta sola con lei, altro che per pochi minuti? C’era sempre qualcuno che ci interrompeva».

Se l’averla persa troppo presto e non essere mai riuscita ad avere con lei un rapporto esclusivo, unico, sono ferite mai cicatrizzate, bisognerebbe anche riflettere su come, questo rapporto impedito e spezzato con la madre, abbia influito pure su quanto dicevamo a proposito dell’elemento extra-sessuale contenuto nella sua opera. La sua omosessualità, le amanti che avrà anche durante il matrimonio con Leonard, una su tutte Vita Sackville-West, alla quale è ispirato proprio Orlando (romanzo di cui il figlio di Vita dirà trattarsi della «più lunga lettera d’amore della storia»), io credo che non vada vista come una tendenza realmente sessuale. Il rapporto di Virginia col proprio corpo e la propria sessualità resterà sempre ambiguo. Le sue tendenze sessuali erano essenzialmente degli stati mentali. Per esempio, se osserviamo la relazione che aveva avuto in giovane età con Violet, ci accorgiamo, dalle lettere che le spediva, che il suo era un bisogno d’affetto incolmabile; che Violet, dopo la scomparsa della madre, a questa quasi si sostituisce, assumendone in qualche modo il ruolo. Sì, esiste ovviamente quella lettera di Virginia inequivocabile (7 luglio 1903: «Quali profondità, quali ardenti profondità vulcaniche, il tuo dito ha saputo risvegliare in Sparroy – rimasta finora del tutto inerte»), che ci rivela di una scoperta sessuale vertiginosa, ma la gran parte degli argomenti di quell’epistolario sono, a ben vedere, una richiesta di vicinanza, un desiderio d’amore e protezione, una necessità di educazione sentimentale.

Con la morte dei genitori, gli Stephen nel 1904 si trasferiranno in un’altra casa, a Bloomsbury. Della vendita dell’altra casa se ne era occupata Vanessa (la quale riscuoterà più tardi un buon successo come pittrice), che sarà la sorella con la quale Virginia avrà il rapporto più stretto ma anche conflittuale (gelosie e invidie che porteranno la futura scrittrice anche a sedurre e a flirtare col marito di Vanessa) e pure quella che assumerà nella famiglia, per carattere e per anagrafe – era infatti la maggiore delle figlie Stephen –, il ruolo della madre. La casa di Bloomsbury presto si animerà – Virginia e Vanessa invitavano amici, giovani intellettuali e artisti, e passavano le nottate a discutere di letteratura, di filosofia, di arte; discussioni che formeranno, aprendola, la mente stessa della futura scrittrice. Ogni giovedì, poi, arrivavano gli amici del fratello Thoby, che allora veniva da Cambridge. Erano tutti ragazzi eccezionali, i quali più tardi avrebbero scritto anche libri importanti. Tra quegli amici c’era anche Leonard Woolf, il futuro marito di Virginia, il quale aveva un carattere che si accalorava, ma era pure molto emotivo; ebreo, orgoglioso, determinato, aveva perso il padre molto giovane, cosa di cui mai si darà pace. A differenza dei suoi amici, non poteva contare su alcuna rendita, si abituerà presto quindi a faticare, lavorando anche undici ore al giorno nelle colonie inglesi in cui era partito come militare e si era ritrovato poi a svolgere un ruolo di vero e proprio comando. In più, era affidabile e aveva grandi capacità organizzative e pratiche – cosa che, per una come Virginia, sempre smarrita, malata, assediata dai demoni, era l’ideale (quando Leonard si dichiarerà proponendole il matrimonio, Virginia avrà una delle sue tante ricadute psichiche – soffriva di crisi nervose e tendeva a uno stato depressivo –; forti mal di testa e un’ansia insostenibile la costringeranno al ricovero. Il suo stato di salute – tra delirio e ironia – lo si comprende anche da questa lettera che scriverà, il 5 marzo del 1912, poco dopo le dimissioni dalla clinica, proprio al futuro marito: «Ti racconterò delle bellissime storie di pazzi. A proposito, mi hanno eletto Re. Su questo non c’è dubbio. Riunito un conclave, ho fatto un proclama sul Cristianesimo. Ho avuto altre avventure e alcune catastrofi, frutto di una natura troppo appassionata e avida di sapere. Ho evitato sia l’amore che l’odio. Ora mi sento estremamente lucida, calma, e mi muovo lentamente, come uno di quei mastodonti dello zoo»). Per comprendere l’importanza e il sostegno che ha dato a Virginia per tutta la vita, basti dire che prima di sposarla, Leonard le dirà che se con il matrimonio lei avesse smesso di scrivere, lui l’avrebbe lasciata. In quel periodo, quello appunto del matrimonio, Virginia stava scrivendo con molta fatica già da qualche tempo il suo primo romanzo, La crociera, che pubblicherà nel 1913.

Mrs._Dalloway_coverL’atmosfera di Bloomsbury era quindi contro ogni convenzione sociale; un’atmosfera che alimentò le chiacchiere malevole di alcuni, anche di un uomo come Henry James, che quegli atteggiamenti anarchici e libertini ripudiava. Però è necessario vedere già da qui come una libertà di costumi diventerà per Virginia una liberazione narrativa.

Durante un viaggio in Grecia insieme a Vanessa, Adrian e Thoby, i fratelli erano stati costretti a tornare perché Vanessa si era ammala di appendicite. Arrivati a Londra, sarà la volta di Thoby. Le febbri continue illudevano i dottori che si trattasse di malaria, ma in realtà era tifo. Thoby morirà il 20 novembre del 1906. Virginia lo celebrerà facendo di lui il protagonista de La camera di Jacob. Era l’ennesima perdita in casa Stephen; una perdita gravissima. Per Vanessa e Virginia, Thoby era il fratello prediletto, il cui affetto le ragazze si contendevano – Vanessa fingendosi la moglie, Virginia la figlia che vuole sottrarre il marito alla madre (ma di rapporti incestuosi è costellata la vita di Virginia).

Un nuovo cambiamento di vita; un nuovo stravolgimento; una nuova rivoluzione. Vanessa si sposa subito e terrà per lei e suo marito la casa. Virginia si trasferirà poco distante insieme ad Adrian, con il quale però andava poco d’accordo. Ma le serate con gli amici, le discussioni di arte, filosofia, letteratura non finiranno. Anzi, a quelle riunioni si aggregheranno nuovi volti, tra cui il pittore e storico dell’arte Roger Fry, al quale Virginia dedicherà molti anni dopo una biografia (e che sarà anche l’amante di Vanessa), il grande Yeats, che nel 1923 riceverà il Premio Nobel, ed Edward Morgan Forster, che le resterà amico per tutta la vita. Se i futuri scrittori cercavano nuove forme che rompessero il canone imperante, Fry, in particolare, specie organizzando una mostra che era stata molto discussa sui post-impressionisti, in cui aveva portato a Londra opere di Cézanne, di Van Gogh, di Picasso, di Matisse, aveva mostrato a tutti la rivoluzione già avvenuta in campo pittorico. Tra la fine dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecento, l’arte – quella pittorica, così come quella narrativa – stava vivendo una nuova modernità.

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La sede delle cose reali

Quanto siano stati liquidatori e duri i giudizi su Notte e giorno, il secondo romanzo che Virginia Woolf aveva pubblicato nel 1919, lo sappiamo fin troppo bene. Le critiche – quelle, ad esempio, degli amici Edward Morgan Forster e di Katherine Mansfield – hanno di sicuro un fondo di verità. Forster sentiva l’evanescenza dei personaggi, la loro inafferrabilità. Aveva preferito, di Virginia, molto di più il suo esordio, La crociera, sul quale aveva speso parole lusinghiere in una attenta recensione. Mansfield, da parte sua, rimproverava al romanzo di fregarsene della guerra appena conclusasi. Si domandava come si potesse scrivere ancora un romanzo come questo, un romanzo tradizionale, sul modello di Jean Austen, senza considerare l’orrore della storia, e come la storia avesse frantumato l’essenza stessa dell’umano e quindi anche dell’espressione e delle forme. Come poteva non aver agito, quella storia, sul modo stesso di scrivere della sua amica. In una lettera al marito Middleton Murry (direttore di «Athenaeum», la rivista che pubblicherà la recensione a Notte e giorno e sulla quale anche Woolf collaborerà per un paio d’anni), la Mansfield aveva scritto ferocemente che il romanzo era «una menzogna dell’anima». Nella recensione che gli dedicò fu più cauta, ma non meno severa: «Avevamo pensato che questo mondo fosse scomparso per sempre, che fosse impossibile trovare nel vasto oceano della letteratura una nave che fosse all’oscuro di ciò che è avvenuto [si riferisce ovviamente alla Grande Guerra]; eppure ecco qui Night and Day, nuovo, squisito, un romanzo nella tradizione del romanzo inglese. Suscita la nostra ammirazione, e insieme ci fa sentire vecchi e tristi. Non pensavamo che avremmo rivisto libri simili a questo».

Eppure sono convinto che, per quanto Notte e giorno sia indiscutibilmente uno dei romanzi meno riusciti della Woolf, imparagonabile ai suoi capolavori – e penso ovviamente alla Signora Dalloway, a Gita al faro e a Le onde –, questo nasconda una domanda, voglio dire una ricerca, che sarà cruciale per tutti i suoi romanzi successivi. Notte e giorno si pone, alla sostanza, l’interrogativo più stringente – e certo Mansfield, nonostante avesse le sue sacrosante ragioni nel criticarlo (prova ne è che la stessa Woolf, più tardi, nei libri successivi, aveva preso proprio quella direzione intravista dalla sua amica), avrebbe forse dovuto coglierlo in sottofondo: cos’è la realtà? Ma attenzione. La realtà, qui, non è appunto già scoperta e liberata nell’espressione, nella lingua, in una sintassi che ne segua il flusso, che in quel flusso si sprigioni, si liberi. È davvero una ricerca – davvero una domanda. Cos’è la realtà? È l’interrogativo che a ben vedere si pongono tutti i protagonisti del romanzo, arrivando ognuno a conclusioni diverse. Del resto cosa sono (cosa rappresentano) Katharine Hilbery, William Rodney, Ralph Denham, Mary Datchet, Cassandra se non differenti possibilità di vita? Per il personaggio di Katharine Woolf si era ispirata a sua sorella Vanessa (a cui il libro è anche dedicato). Eppure è impossibile non riconoscere in lei anche la stessa Virginia. Katharine si occupa di redigere, insieme alla madre, una biografia di suo nonno, che era stato un celebre poeta. Un lavoro che la stessa Woolf aveva compiuto, anche se non su suo nonno ma su suo padre, il famoso saggista Leslie Stephen. Ma soprattutto Katharine, che è il fulcro del romanzo, colei che muove i fili di tutta la vicenda, vive lo stesso dissidio di Virginia. Se per convenzione sociale dovrebbe sposarsi con William (pure amando Denham, al quale alla fine riuscirà ad unirsi facendo innamorare Rodney di sua cugina Cassandra e lasciando che Mary, promessa invece a Denham, resti con in mano un pugno di mosche, sola nella sua lotta sociale e femminista – ed è forse proprio Mary il personaggio più tragico del libro, colei che è costretta a rinunciare a tutto, pur mai perdendosi), anche lui un poeta e un drammaturgo, dall’altra parte quel patto sociale le va stretto, non risponde a ciò che davvero sente.

Nell’undicesimo capitolo, troviamo un passo fondamentale alla comprensione del libro e anche al dissidio che Katharine (Virginia) sente di vivere: «Mentre lui si cambiava nella stanza accanto, Katharine, in piedi accanto alla libreria, prese dei libri dallo scaffale e li aprì, ma non ne lesse nemmeno una parola. Si sentì certa che avrebbe sposato Rodney. Come si poteva evitare? Come si poteva trovare qualcosa da obiettare? Fece un sospiro e, mettendo da parte l’idea del matrimonio, cadde in un mondo onirico, in cui diventò un’altra persona, e tutta la realtà sembrò cambiare. Era una visitatrice assidua di quel mondo, e la strada la trovò senza esitazioni. Se avesse cercato di analizzare le sue impressioni, avrebbe detto che fosse quella la sede delle cose reali, di cui nel mondo d’ogni giorno distinguiamo solo le mere parvenze; tanto immediate, vigorose e libere erano lì le sue impressioni, in confronto a quelle ispirate dalla vita quotidiana. Lì si sarebbero potute provare delle sensazioni autentiche, se qualcosa le avesse suscitate: la perfetta felicità, di cui qui non assaggiamo che una briciola; la bellezza, di cui possiamo cogliere solo fugaci momenti. […] Anche se le decorazioni di quel mondo immaginario potevano cambiare, esso manteneva due particolarità immutabili. Era un ambiente in cui i sentimenti erano liberi dalle costrizioni del mondo reale; e il momento del risveglio era sempre contrassegnato dalla rassegnazione e da una sorta di stoica accettazione della realtà dei fatti. Lì Katharine non incontrava nessuna delle persone che conosceva miracolosamente trasfigurata, come accadeva a Denham; non vi andava a rappresentare una parte eroica. Ma di sicuro in quella dimensione lei amava un magnanimo eroe, e mentre insieme incedevano maestosamente tra gli alberi frondosi di un mondo sconosciuto, condividevano sentimenti che si riaffacciavano, rapidi e spontanei, come le onde sulla spiaggia. Ma quegli attimi di libertà duravano poco; persino tra i rami di quella foresta arrivava il rumore degli oggetti spostati da Rodney sulla sua toletta; e Katharine si svegliò da quella digressione chiudendo il libro che teneva in mano, e rimettendolo a posto nello scaffale. “William”, disse, con voce piuttosto debole, all’inizio, come se parlasse dall’aldilà. “William”, ripeté con più decisione, “se vuoi ancora che ti sposi, accetto”».

Per quale ragione credo che questo romanzo, pure nella sua oggettiva inferiorità rispetto ad altre sue opere, abbia una sua importanza specifica? Non bisogna dimenticare che Virginia Woolf soffriva di forti crisi nevrotiche. Si era appena alzata da una rovinosa caduta. Leonard, suo marito, controllava ogni sua mossa (teneva anche un diario quotidiano degli sviluppi della malattia della moglie), era attentissimo alla sua salute, misurava anche il tempo che dedicava alla scrittura, terrorizzato che, così come era successo con la scrittura del romanzo precedente, Virginia potesse scivolare di nuovo dentro il fondo nero di se stessa. Se la pubblicazione de La crociera le aveva comunque garantito di non essere completamente pazza, che i suoi deliri, le sue visioni, avevano a loro modo un senso non soltanto per lei ma anche per chi leggeva quanto andava scrivendo, dimostrandole di essere capace anche di esprimerli, quei deliri e quella follia, trovando loro una lingua, di farli diventare insomma letteratura, in Notte e giorno l’esperimento consiste nel comprendere se quello che sente sia reale o solo un’illusione. Contro questa illusione, anzi, contro la possibilità che si tratti di un’illusione, Virginia sarà costretta a cercare una sistemazione, un’organizzazione prima di tutto formale. Sono d’accordo con quanto molti commentatori dicono, che la Woolf voleva comprendere se pure lei fosse capace di scrivere come tutti, se era in grado di porsi nella corrente del romanzo tradizionale inglese. Ma credo anche che usare il canone tradizionale del romanzo le abbia garantito dei paletti, delle regole che poteva seguire anche schematicamente. Se si fosse attenuta a quelle regole forse quella cosa che le premeva scoprire si sarebbe rivelata una volta per tutte (e non è un caso che anni dopo dirà che la scrittura del romanzo le aveva salvato la vita). In questo senso potremmo addirittura dire che Notte e giorno è un libro che Woolf ha scritto più che altro per se stessa, nonostante abbia una leggibilità universale; voglio dire: trattandosi dell’imitazione di un classico (pure non molto distante temporalmente da lei), il romanzo inglese dell’Ottocento, ancora oggi lo leggiamo come qualcosa di tanto anacronistico quanto di universalmente leggibile.

Ma appunto il tema, come si comprende anche dal passo che abbiamo citato, è esattamente quello di un dissidio: realtà/illusione. Un dissidio che, a ben vedere, si complica pagina dopo pagina. L’illusione è quello che immaginiamo oppure sono i fatti, i gesti che compiamo quotidianamente? E di contro: la realtà è il miracolo (o la follia) di una visione, o l’ordinario assecondamento di quel che accade? Cosa è vero e cosa non lo è? Se osserviamo quello che Katharine compie in quel passo (ma è un passo tanto rappresentativo che può essere preso come modello per tutto il suo modo di agire nell’intera vicenda) ci accorgiamo che la conseguenza fattuale di quello che sente si pone esattamente agli antipodi. Come se tra sentire e agire non ci sia nessuna possibilità di continuità. Come se fosse l’azione stessa a opporsi al sentire. Qui Virginia Woolf ci sta facendo spettatori della sua scelta e lo fa dando ordine alle sue visioni. Ma va aggiunto, ed è una questione per nulla irrilevante, che ci dimostra pure che un romanzo tradizionale, un romanzo di “fatti”, così com’è nella migliore tradizione vittoriana, può essere disarticolato dentro le sue stesse leggi. Perché, a ben vedere, in Notte e giorno i fatti sono tanto scarnificati da apparirci quasi insignificanti. Quello che accade è tutto dentro la psicologia dei protagonisti. Solo che è proprio quella psicologia a spaventare Virginia, ed è per questa ragione che la argina con una forma rigida (il romanzo della tradizione), storicizzata al punto tale da metterla al sicuro, da farla sentire protetta, quasi non avesse ancora il coraggio e sufficienti strumenti per abbandonarsi alla realtà. Ancora: quasi che qui volesse esprimere, della realtà, solo un allarme – e infatti «quegli attimi di libertà duravano poco» –, un allarme che, per paura, torna a razionalizzare. Ed è questo bisogno di razionalizzazione che continuamente Woolf ci fa vedere di Katharine, la quale si rifiuta di leggere poesie e romanzi, come spaventandosi di trovare lì, in quel mondo di parole, un motivo in più per perdersi. Katharine, infatti, desidererebbe studiare matematica, come dire un sistema logico che al caos dei propri sentimenti trovi una sua organizzazione. Ma è questo arginare la realtà di una visione con una forma la cosa più interessante del libro, ciò che ci fa percepire tutta la tensione che vi è sottesa.

Il 27 marzo del 1919, scriveva nel suo Diario a proposito del libro che aveva concluso: «Secondo me N. e G. è un libro più maturo, compiuto e soddisfacente di quanto non fosse La crociera; e ha ragione di esserlo. Credo di prestare il fianco all’accusa di gingillarmi con emozioni che non hanno un peso reale. Certo non mi aspetto neanche due edizioni. Eppure non riesco a fare a meno di pensare che, essendo la narrativa inglese quella che è, posso misurarmi abbastanza bene, per schiettezza e originalità, con la maggior parte dei contemporanei. L. [Leonard, suo marito] trova la filosofia di questo libro molto malinconica. Si accorda fin troppo a ciò che lui stesso diceva ieri. Pure, se si ha a che fare con la gente su larga scala e si dice ciò che si pensa, come evitare la malinconia? Non ammetto però di essere disperata: soltanto, lo spettacolo è strano assai, e poiché le risposte correnti non servono, bisogna annaspare in cerca di una risposta nuova; e scartare quelle vecchie, quando non si è per nulla sicuri di cosa si metterà al loro posto, è un’azione deplorevole. Pure, a pensarci bene, quale risposta suggeriscono, per esempio, Arnold Bennet e Thackeray? Soluzioni felici – soluzioni soddisfacenti – risposte che si possano accettare con un minimo di rispetto per la propria anima?» La lotta che stava combattendo Woolf è evidente anche qui. Nonostante avesse finito di scrivere un romanzo così lungo, non era per nulla sicura di quello che aveva scoperto. Quando parla di prestare il fianco alle critiche per essersi gingillata con le emozioni, è ancora dentro la diatriba contenuta nel romanzo, come se ancora non sapesse – come non sapeva la sua Katharine – se quelle emozioni avessero «un peso reale». Ma i dubbi le rimanevano anche sulla forma, come capisse perfettamente che quelle emozioni, se davvero erano una realtà, avrebbero dovuto assumere una forma nuova – che quella forma nuova doveva essere prima o poi la risposta accettabile per il rispetto della propria anima. Siamo ancora lontani, qui, da quanto scrive Sergio Perosa introducendo i romanzi della Woolf per i Meridiani, che in lei «c’è soprattutto, dal punto di vista narrativo, la constatazione della dissoluzione dell’intreccio inteso in senso tradizionale e meccanico, delle rigide categorie letterarie di tragedia e commedia, della “storia” comunemente intesa». Eppure, dietro la paura (e la ricerca in atto) di Notte e giorno, possiamo già vedere come il romanzo si ponga quasi come un preambolo della Signora Dalloway (che comparirà solo sei anni più tardi), lì dove la realtà seguirà finalmente il suo flusso, lì dove «ogni momento», scriverà la Woolf in un saggio del 1927, «è il centro e il punto di incontro di un numero straordinario di percezioni ancora inespresse».

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Il romanzo è una rivoluzione.

TheWavesÈ in un saggio del 1925, Il romanzo moderno, che Virginia Woolf, la quale fino a quel momento aveva pubblicato già quattro romanzi – La crociera (1913), Notte e giorno (1920), La camera di Jacob (1922) e La signora Dalloway (1925) –, anche se solamente nell’ultimo aveva raggiunto la forma a lei più congeniale, esprimeva la sostanza della sua poetica – e conviene citare il passo per esteso: «Ma certe volte, e sempre più spesso quanto più il tempo passa, abbiamo il sospetto di cogliere un dubbio momentaneo, uno spasmo di ribellione, mentre le pagine si riempiono nel modo consueto. Ma la vita è veramente così? È così che devono essere scritti i romanzi? Guardatevi dentro e la vita sembra molto lontana dall’essere “così”. Analizzate per un attimo una mente normale in un giorno normale. La mente riceve una miriade di impressioni – futili, fantastiche, evanescenti, o scolpite con una punta d’acciaio. Esse ci giungono da ogni parte, in uno scroscio incessante di innumerevoli atomi; e mentre ricadono, mentre prendono forma nella vita di un qualsiasi lunedì o martedì, acquistano un accento diverso dal solito; l’attimo importante diventa questo e non quello; quindi, se uno scrittore fosse un uomo libero e non uno schiavo, se potesse scrivere quello che vuole, e non quello che deve, se potesse fondare il suo lavoro sul proprio modo di sentire e non sulle convenzioni, non esisterebbe nessun intreccio, nessuna commedia, nessuna tragedia, nessuna storia d’amore o catastrofe nello stile comunemente accettato, e forse nemmeno un bottone cucito secondo i dettami dei sarti di Bond Street. La vita non è una serie di lampioncini disposti in ordine simmetrico; la vita è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci racchiude dall’alba della coscienza fino alla fine. Non è forse compito del romanziere esprimere questo spirito mutevole, misterioso e indefinito, per quanto possa mostrarsi complesso e aberrante, con una miscela possibilmente priva di elementi esterni ed estranei? Non chiediamo solo più coraggio e sincerità; vogliamo suggerire che la materia del romanzo è un po’ diversa da quella che l’abitudine vorrebbe farci credere».

Consideriamo Le onde (1931), che è un poema in prosa costruito attraverso dei soliloqui. I personaggi che prendono parola e che si raccontano, senza una trama o un filo logico precisi, dall’infanzia fino alla maturità, sono voci che cercano una loro specifica consistenza e concretezza; o forse sarebbe meglio chiamarla una loro realtà, che a ben vedere è qualcosa di assai diverso dalla concretezza, diciamo che i personaggi cercano una realtà nella misura in cui la realtà è per la Woolf l’anima, lo spirito delle cose, quello spirito che le cose le fa essere. Alla metà di novembre del 1931, nel suo Diario aveva scritto che era «la mia prima opera in un mio stile personale». Mi è sempre parsa una frase eccessiva, fuori misura, considerando quello che fino ad allora aveva già scritto – e penso specialmente a La signora Dalloway e Gita al faro (1927). Ma forse, mentre scriveva quella dichiarazione, pensava più che altro a Orlando (1928), il romanzo precedente. Se fosse così, ovvero se in quel momento aveva in mente la sua opera precedente, la dichiarazione si ridimensiona, ha una sua ragion d’essere. Perché Orlando è un romanzo tutto sommato superficiale, nonostante Harold Bloom abbia deciso di mettere in risalto questo e non altri libri nel suo Canone Occidentale (e bisogna dire che accostare il personaggio di Orlando a Don Chisciotte è molto suggestivo – anche se il critico lascia questa intuizione a uno stadio troppo larvale). Per superficiale, intendo dire che quello che il narratore esprime non si incarna mai realmente nel suo personaggio – prima uomo poi donna e contemporaneamente entrambi i sessi. È, detta diversamente, un atto volontaristico della scrittura che non riesce mai a divenire persona – realtà. Eppure, ci accorgiamo che sono proprio le pagine in cui Woolf svela le sue intenzioni, quelle insomma più meditative, le più intense – dico le migliori. Quando infatti in Orlando leggiamo che «quel che pare certo […] è che quell’io di cui aveva più bisogno si teneva lontano perché, a sentirla parlare, Orlando mutava identità con la stessa velocità con cui guidava […] come accade quando per qualche motivo inspiegabile l’io cosciente, che prevale sugli altri e ha il potere di desiderare, vuole essere l’unico e il solo. È quello che alcune persone chiamano il “vero io” e, dicono, comprende tutte le identità che abbiamo in noi, comandate e custodite dall’io-Comandante, l’io-Chiave, che le amalgama e le controlla tutte», ci accorgiamo che quello che di profondo la Woolf sta esprimendo non coincide esattamente con Orlando, quanto piuttosto con il Bernard de Le onde, il quale fino alla fine ha lasciato che parlassero anche gli altri suoi io.

Maurice Blanchot, nel suo articolo dedicato al romanzo e contenuto in Passi falsi, diceva, a ragione, che il vero protagonista de Le onde è il tempo, ma che la forma, l’essenza stessa del tempo veniva incarnata da «Rhoda, pallida e misteriosa figura, che vive in una sorta d’incoscienza, che resta al limitare delle cose, che è come una sonnambula dello spavento»; è lei che, continua Blanchot, «si avvicina decisamente al tempo puro, a quel tempo vuoto che è la più grande realtà del tempo, di quel tempo al di fuori del mondo, al di fuori delle cose, tempo della solitudine, tempo dell’abisso che non ci possiamo raffigurare, allorché sfugge alla propria nozione astratta, se non attraverso l’angoscia stessa del tempo». Eppure, se protagonista è il tempo, non lo è nella misura di un personaggio. Se il tempo allo stato puro è Rhoda, il vero personaggio del libro, «l’io-Comandante», «l’io-Chiave», è Bernard, che pur non essendo tempo allo stato puro è colui che, proprio in virtù del suo non poterlo essere, è però colui che lo esprime, che esprime, quindi, anche Rhoda, il suo vuoto. È insomma lo scrittore che, proprio per la sua impossibilità di non esserci, proprio, dico, in virtù del suo essere ancora nel tempo e nelle cose ma lasciandosi investire da quel vuoto, non può essere «fuori dal mondo», «tempo dell’abisso». Bernard è insomma colui che all’abisso dà forma attraverso lo stile. Bernard è Virginia.

Orlando, al contrario, è un personaggio troppo pensato, troppo letterario, troppo tipizzato. Ed è la sua tipizzazione il motivo del suo successo – e, pure, il motivo per cui la storia è stata presa a modello da una cultura omosessuale e femminista; si prestava insomma facilmente ad assumere un ruolo che poteva essere speso a fini sociali e socialmente utili (ma lo stesso Bloom rifiuta questa associazione ideologica con l’opera della Woolf, scagliandosi, a ragione, contro le letture politiche e specificamente femministe).

Nadia Fusini, rispetto ai personaggi de Le onde, ha scritto che «alla fine non conta tanto distinguerli, perché i loro nomi coprono non personalità o personaggi differenti, ma differenti ipostasi di una stessa sostanza spirituale». A ben vedere è un’intuizione critica, questa, che può essere applicata a diversi romanzi della Woolf. E pensiamo in special modo alla Signora Dalloway. Qui per la prima volta Virginia Woolf sperimenta e trova una scrittura meravigliosamente lirica. Una «sperimentatrice», o meglio: una «poetessa in prosa», era stato il giudizio dell’amico Edward Morgan Forster. Poesia e sperimentazione sono i termini giusti per definire una prosa che era appunto lirica per necessità, prima che per scelta stilistica; una necessità di interrogarsi e interrogare non soltanto la propria coscienza, ma il segreto di ogni relazione umana – fatta certo di parole e gesti, ma soprattutto di silenzi, di sguardi, di menzogne. Ma il lirismo della Signora Dalloway è sempre sul punto di cadere in un sentimentalismo retorico, in una metaforicità troppo dolce, stucchevole; corre su un filo sottilissimo, e a volte poggia il piede a terra, e si teme sia troppo rovinosa la caduta, invece subito si riprende, cioè riprende il ritmo, la musica, la voce si riaccorda alla sua naturale sintassi.

Clarissa Dalloway è ovviamente il fulcro del romanzo (un romanzo che la Woolf voleva intitolare Le ore, perché tutto si svolge in un solo giorno – uno svolgimento che non ha nulla a che fare con l’azione propriamente detta; quello che accade, se accade, è uno spostamento dell’asse mentale). Un fulcro somigliante alla Wolf – lei, che così profondamente viveva il dissidio di una vita tutta misura, aristocraticamente snob e pettegola, con un terribile impulso di morte che la assediava. L’impulso di morte, nella Signora Dalloway, è espresso nel personaggio di Septimus. Più propriamente, Septimus rappresenta l’altra faccia della coscienza di Clarissa. Cosa voglio dire? Che è in realtà il solo personaggio del libro che con Clarissa non abbia nulla a che fare. I due non si conoscono neppure, si incontrano appena la mattina di quel giorno in cui il romanzo è principiato, il giorno, il solo del romanzo, che si concluderà con la festa organizzata da Clarissa in casa sua. I due si sfiorano ma non si parlano, viaggiano su linee parallele, come fossero due storie separate che non si congiungono, se non in un’illusione prospettica di infinità – che è di tempo e di spazio –; o, per dirla con le parole stesse della Woolf, sono due «caverne» («Avrei molto da dire a proposito delle Ore e della mia scoperta: come io scavi bellissime caverne dietro i miei personaggi; questo mi sembra dia proprio ciò che voglio: umanità, profondità, umorismo. L’idea è che le caverne siano comunicanti e ognuna venga alla luce al momento giusto» – dal Diario del 30 agosto 1924).

Septimus è un soldato tornato sconvolto a casa dalle trincee della Grande Guerra. Ha una moglie che lo ama ma che non lo può comprendere, «E poi c’erano le allucinazioni. Era annegato, era solito raccontare, e giaceva su una scogliera con i gabbiani che stridevano su di lui. Guardava dal margine del divano giù nel mare. Oppure udiva musica. In realtà era solo un organetto, o un uomo che gridava, in strada. Ma “Bellissimo!” esclamava lui, e le lacrime gli scorrevano giù per le guance, cosa che per lei era la più dolorosa, vedere un uomo come Septimus, che aveva combattuto, che era coraggioso, piangere. Se ne stava disteso lì, in ascolto, finché improvvisamente gridava che cadeva, cadeva nelle fiamme! A lei pareva di vederle, le fiamme, tanto era vivido. Ma non c’era nulla. Erano soli nella stanza. È un sogno lei gli diceva, e così lo calmava, finalmente, ma era spaventata anche lei. Sospirava, mentre cuciva». Septimus è l’altra faccia di Clarissa. In lui la Woolf ha voluto ritrarre la sua stessa follia. Si potrebbe obiettare che questa sia solo una forzatura, che la follia del personaggio ha a che fare con la guerra e solo con le tragiche conseguenze su chi l’ha vissuta e combattuta sopravvivendogli. Ma non è così: «Una volta che sei caduto, ripeteva Septimus, la natura umana ti possiede». Clarissa e Septimus sono immagini speculari, sono l’uno il risvolto dell’altra. Da una parte la pura superficie, il cristallo di Clarissa, la sua materia rifrangente, imperturbabile; dall’altra l’abisso di Septimus, il demone dal quale è assediato, quell’io che Virginia cerca di tenere a bada. In qualche modo Clarissa è la medicina di Septimus, anche se non può impedire il suo suicidio. Ma del resto non potrebbe; perché quello che la Woolf ci sta mostrando è il modo in cui ha scelto ella stessa di tenere a bada la propria malattia. Clarissa infatti si sposa – così come Virginia aveva sposato Leonard dopo l’ennesima crisi psichica; vedendo in lui, nella stessa vita coniugale, una possibilità di salvezza, di lenitivo della malattia, malgrado non provi per lui alcuna attrazione fisica, nessun trasporto sessuale –, ha una vita sociale e mondana, era sì innamorata tempo prima di un uomo; ma quell’uomo l’avrebbe portata dentro l’abisso. Il matrimonio, solo il matrimonio l’aveva salvata dalla follia. Aveva dovuto insomma dare un ordine, almeno apparente, che tenesse a bada le sue pulsioni di morte. Senza quel matrimonio, Clarissa e Septimus sarebbero stati la stessa cosa – uomo e donna un solo essere, ma senza l’ironia che più tardi avrà Orlando. Per questo La signora Dalloway è il romanzo chiave di tutta l’opera di Virginia Woolf. Perché è qui che Virginia ci farà vedere separati quei due io – quelle due caverne – coi quali convive e che, successivamente, si ricongiungeranno, fino alla tragica decisione finale. Tenerli ancora separati era il suo modo per vedere, dare un nome al suo demone, e nello stesso tempo riconoscere qual era la medicina che le occorreva ancora per sopravvivere.

La particolarità del romanzo consiste esattamente nel fatto che tutti gli altri personaggi all’infuori di Septimus sono un riverbero di Clarissa; vivono proprio come riflesso della sua luce – non sono che sue irradiazioni; forse addirittura lampi della sua stessa coscienza. Non proprio persone reali, insomma, ma proiezioni di un singolo individuo, come se la mente di Clarissa (la mente di Virginia) si moltiplicasse, uscisse e entrasse per infiniti attimi – dilatando, di conseguenza, il tempo – fuori e dentro la propria stessa vita. Non la narrazione di un flusso di coscienza, quindi – come spesso si è scritto –, ma una struttura individuale fluida e che si svela uscendo da sé, entrando o dando vita ad altre forme di vita – le quali, pur non arrivando a essere davvero persone, sono le persone per come noi le immaginiamo, le lasciamo vivere dentro di noi quando non sono davanti ai nostri occhi in carne e ossa. Per questo quel riverbero, quella luce che Clarissa diffonde di volta in volta su ogni singolo altro, è anche un movimento contrario, a ritroso, il riverbero che illumina una parte di sé per mezzo dell’altro a cui ha prestato, o concesso, luce. Ed era questa per la Woolf la rivoluzione di cui il romanzo necessitava per liberarsi dalle gabbie illusorie dell’era vittoriana. Non una vita di fatti (e la sua intuizione era stata precoce, se già l’11 ottobre del 1903 scriveva a Violet: «L’intelligenza britannica si nutre di fatti, non prospera su nessun altro terreno, ma io non riesco a persuadermene. Ti dispiace, pensi che farà di me una scrittrice ridicola?»), ma la realtà dell’umano così come lo percepiamo fuori da ogni accadimento – l’umano nei suoi «momenti di essere», come lo saranno le epifanie per Joyce; come lo saranno le illuminazioni proustiane. Ma se Joyce partiva da una rivelazione tutta letteraria; e se Proust faceva dell’oblio, prima ancora della memoria, il contenitore di tutto ciò che l’io sommerge e conserva, per riemergere poi nella sua verità, quasi come un caso senza causa, tutta nello stile, i momenti di essere della Woolf sono invece parte di un tutto fluido che non si arresta o non si svela in un momento specifico, spezzando in due il tempo in una rivelazione definitiva; sono nella sostanza stessa del vivere, in quel presente perpetuo che è la mente e che trascina dentro di sé tutto il passato, ma non come ricordo, bensì come dissidio; il dissidio tra le illusioni, le speranze, le chimere e la concretezza che le ha seppellite. Quel tutto che non si arresta ha la sua luce specifica: una luce che si esprime nella molteplicità di ciò che ogni giorno siamo; nel nostro lasciar parlare quotidianamente le diverse persone che abitiamo; dare a ognuna di queste persone un volto, una voce fino a trovare quello che in Orlando chiamava «l’io-Comandante» che le controlli tutte, quelle voci, che ne diriga il ritmo pure nei dissidi, negli attriti tra una voce e l’altra. Louie Mayer, la capocuoca a servizio degli Woolf dal 1934 fino alla morte di Leonard nel 1969, racconta, in una sua testimonianza, di quando Virginia, la mattina prima di fare colazione, era solita chiudersi in bagno e recitare a voce alta le frasi dei suoi libri scritte la notte (e pareva «ci fossero due o tre persone lassù con lei») per sapere se suonavano bene. Il bagno della casa, diceva, aveva l’acustica migliore allo scopo. Come se recitare di giorno quello che aveva scritto la notte fosse un modo per dare a quelle voci – le voci che la assediavano fin da ragazzina; voci con le quali aveva imparato a convivere, a cui aveva dato una dignità artistica – un controllo, una forma, sottraendole alla loro realtà abissale e facendole vivere (come farà il Bernard delle Onde) nella verità dello stile.

«La vita è un alone luminoso» abbiamo letto in quel saggio del 1925, «un involucro semitrasparente che ci racchiude dall’alba della coscienza fino alla fine. Non è forse compito del romanziere esprimere questo spirito mutevole, misterioso e indefinito, per quanto possa mostrarsi complesso e aberrante, con una miscela possibilmente priva di elementi esterni ed estranei?». Virginia Woolf, con La signora Dalloway, aveva trovato il suo «alone luminoso», il suo «spirito mutevole, misterioso e indefinito».

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Il limite delle parole

Per quanto indubbiamente ironico, per quanto sia nato per gioco, io credo che Flush. Una biografia sia un libro serissimo.

Lo so, è un romanzo nato per divertimento. Virginia Woolf leggeva la corrispondenza tra Elizabeth Barret e Robert Browing. Tra di loro, tra le parole che si scambiavano, prima ancora che la celebre poetessa inglese decidesse di scappare col suo futuro marito, c’era sempre Flush, il cane di lei. Nel leggere le descrizioni di quell’adorato spaniel che vantava un’origine antichissima, addirittura aristocratica, la Woolf si era talmente divertita da decidere di scriverne la vita.

Ma potremmo aggiungere, a questa motivazione, almeno un’altra altrettanto indubbia. Non era la prima volta che la Woolf provava a rompere i canoni del genere biografico (una specie di ossessione tutta inglese, e che conosceva fin troppo bene perché molto praticata anche da suo padre). Lo aveva già fatto con Orlando, nel quale seguiva la vita di un ragazzo che diventava donna e che viveva almeno cinque secoli; e, pur cambiando di volta in volta lo scenario storico attraverso le età del suo personaggio, era riuscita a mantenere nonostante tutto intatta una coerenza formale. Quel romanzo non solo lo aveva dedicato a Vita Sackville-West, ma a lei, che era sua amica e amante, il personaggio di Orlando era ispirato. Già nominare il nome di Vita, però, complica le cose. Perché se è vero che in Flush tutto è nato per gioco, è vero anche che era stata proprio Vita a regalare alla Woolf un cane, guarda caso uno spaniel. Raccontando quindi la vita del cane di Elizabeth Barret Browing, voleva raccontare la vita del suo stesso cane; quel cane che pure per lei, come per Elizabeth, era stato un dono. Insomma il romanzo nasce, a ben vedere, da un gesto d’amore: quello della Woolf per il suo cane (e di nuovo, come per Orlando, per Vita), e quello che aveva ricevuto da Vita in forma di dono. Infatti, non sarebbe un errore affermare che Flush è sostanzialmente una storia d’amore – pure un amore impossibile come quello tra un cane e un essere umano.

Ma tutto questo, per quanto vero, credo sia riduttivo.

Nell’agosto del 1931 aveva finito di correggere le bozze de Le onde, che uscirà di lì a poco. Nello stesso mese stava già pensando (e scrivendo) a Flush. Si dirà: come potevano coesistere nella mente di una sola persona due libri così distanti? Con Le onde aveva portato al limite la sua sperimentazione romanzesca, spezzato definitivamente il cordone col romanzo tradizionale trovando una voce (o la moltitudine di voci di un unico io) tutta interiorizzata: una spazio che fosse solo mentale. A proposito del romanzo Nadia Fusini ha scritto: «La lingua sogna il silenzio, molti scrittori rivelano. E alcuni sanno concedere alla lingua ciò che essa sogna […]. Il che vuol dire che nel concreto della prova che affronta, nel romanzo, cioè, grazie al quale per la prima volta raggiunge il suo proprio stile […], lì la lingua finalmente tace. E cioè: si fa tutta interiore […]. È una specie di estasi della mente nel suo rovescio, una ricaduta nel recto dell’espressione, dove la parola consegna a un dettato interiore, la cui intensità ricorda la preghiera muta».

Se quindi, alla sostanza, Le onde vuole essere – ed è – un libro assoluto e assolutamente verticale, Flush, al contrario, e nelle stesse intenzioni dell’autrice, vuole essere un romanzo orizzontale, giocoso. Anzi, lo scopo per cui lo aveva cominciato, oltre al gioco, consisteva anche nell’allentare la fatica che le era costata scrivere Le onde. «Una cosa è vera», aveva scritto nel suo Diario il 17 gennaio del 1931 (quando ancora neppure immaginava la storia del cane), «che Le onde è scritto a così alta pressione che non posso prenderlo e leggerlo di seguito fra il tè e il pranzo; posso lavorarci soltanto un’ora circa, dalle dieci alle undici e mezzo. E copiarlo a macchina è quasi la parte più dura del lavoro. Dio mi assista se in avvenire tutti i miei libretti da 80.000 parole dovessero costarmi due anni! Ma mi lancerò, come un cutter inclinato sul fianco, in qualche avventura più facile e svelta: un altro Orlando, magari». Quindi, se a gennaio di Flush non aveva ancora la minima idea, già progettava un lavoro biografico alla maniera di Orlando.

Ma la verità è che nonostante tutti i buoni propositi, la stesura di Flush sarà più lunga del previsto, se ancora il 21 gennaio del 1933 leggiamo nel Diario: «Be’, Flush è ancora in ballo [verrà poi pubblicato nell’ottobre dello stesso anno] e non riesco a sbarazzarmene. Questa è la triste verità». È vero, nel frattempo aveva già cominciato a scrivere il suo romanzo più lungo, Gli anni (che ancora chiamava col titolo provvisorio Parginter). Ma va notato che quello che era nato per gioco – un gioco che però nascondeva anche una speranza economica, perché era consapevole che se un libro complesso come Le onde non poteva raggiungere un vasto pubblico di lettori, al contrario la biografia di un cane avrebbe di sicuro spopolato (e non sbagliava, perché alla sua uscita ne vendette subito diciannovemila copie) – era presto divenuto un peso, qualcosa a cui dedicare la stessa attenzione e cura che metteva per tutti gli altri suoi libri.

Dietro lo snobismo della Woolf, dietro, voglio dire, quel suo atteggiamento liquidatorio nei confronti di Flush, credo vada letta un’insofferenza verso quel desiderio d’assoluto che aveva sperimentato nelle Onde e che, in realtà, invece di allontanarsene, riprendendo contatto con l’ordinaria quotidianità, non aveva ancora abbandonato.

Si legga il momento in cui Elizabeth e Flush sono per la prima volta soli insieme, il momento in cui entrambi riconoscono una somiglianza e al contempo una distanza: «”Oh Flush!” aveva detto Miss Barret. Per la prima volta lo guardava negli occhi. Per la prima vota, Flush vedeva la signora stesa sul divano. Entrambi s’erano meravigliati. Pesanti bande di riccioli incorniciavano il viso di Miss Barret, grandi occhi luminosi brillavano, una larga bocca sorrideva. Pesanti orecchie incorniciavano la testa di Flush e pure i suoi occhi erano grandi e vivaci, e teneva la bocca spalancata. Si somigliavano tanto che, mentre si osservavano, ciascuno pensava: quello sono io – e un momento dopo, sì, certo, ma che differenza! […] Divisi eppure fatti col medesimo stampo, era forse possibile che ognuno riempisse il vuoto dell’altro? Lei avrebbe potuto essere… ogni cosa, e Flush? Ma no. Se ne stavano divisi dal più profondo abisso che separa un essere da un altro. Lei parlava, lui era muto. Lei era una donna, lui un cane. Così incredibilmente vicini e così distanti, si erano guardati ancora. Poi, con un balzo solo, Flush si era sistemato sul divano, nel posto che sarebbe stato suo per sempre, sulla coperta intorno ai piedi di miss Barret».

Bene, e se in questo rapporto tra essere umano e animale, la Woolf non avesse voluto far altro che porre, prima di tutto a se stessa, un problema filosofico? Scrive che mentre si riconoscevano i due percepivano pure la distanza abissale che li separava. Ma cosa significa? Woolf, qui, vuole raccontare, prima ancora di un rapporto d’amore, una somiglianza. Ovvero, il cane, così come ci viene raccontato, cioè così simile eppure così distante, non è che l’immagine perduta dell’essere umano, come dire la sua essenza. E l’immagine è prima di tutto quella di un volto. È lì che la Woolf si sofferma: sulla bocca, sulle orecchie, sui capelli, sugli occhi. Lì che vuole concentrare la nostra attenzione. Se una somiglianza c’è tra essere umano e animale, è nel volto che va prima di tutto riconosciuta. «Divisi eppure fatti col medesimo stampo, era forse possibile che ognuno riempisse il vuoto dell’altro?». Attenzione: se quel volto animale è simile eppure mai uguale, allora la distanza è quella di un vuoto. Ma un vuoto che appartiene a entrambi i volti e che la somiglianza, in qualche misura, colma. Ma cos’è un vuoto se non uno spazio abissale, un inconosciuto che profondamente ci riguarda, l’immagine riflessa di noi che ci somiglia – rivelandoci?

Ho idea che il gioco della Woolf sia molto più serio delle intenzioni con cui era nato. Il sospetto è che avesse in qualche misura spinto ancora più in profondità il contenuto delle Onde. Se lì la molteplicità dell’io era lo spazio interiore cercato e trovato dalla lingua, qui invece la parola – così come lo stile – è addirittura azzerata. Ma se sono le parole a mostrare un’insufficienza rispetto al reale, non è con le parole, sembra dire la Woolf, che lo stesso reale può essere davvero espresso. Ciò che lo esprime è qualcosa di meno interiore, anzi di mera superficie, ma forse di più complesso: è l’altra faccia del nostro volto; un volto non più o non ancora umano, ma appunto animale. Ma se la Woolf comprende che non sono le parole a poter esprimere il reale, riducendo ai minimi termini lo stile (sopprime infatti ogni suo consueto slancio lirico), è proprio dalla prospettiva di chi è muto ma ci somiglia che vuole porsi. Flush, quindi, è lo sguardo sul mondo quando non lo osserviamo, o crediamo di osservarlo senza realmente vederlo, perché «non una sola delle miriadi delle sue sensazioni era mai stata deformata dalle parole».

La Woolf però, e siamo quasi in conclusione, sembra ridimensionare la possibilità di questa interpretazione: «Tuttavia, nonostante sarebbe piacevole per il biografo concludere che la vita di Flush nel pieno della sua maturità fosse un’orgia di piacere trascendente ogni descrizione; sostenere che mentre il bambino, giorno dopo giorno, imparava una parola nuova e si allontanava così dalle sue sensazioni, Flush era destinato a rimanere per sempre in un Paradiso dove le essenze esistevano nella propria intatta purezza, e l’anima nuda delle cose premeva sui nervi scoperti – questo non sarebbe vero. […] Ma Flush aveva riposato su ginocchia umane e ascoltato le voci degli uomini. La sua carne era innervata di passioni umane, Flush conosceva tutte le sfumature della gelosia, della rabbia e della disperazione».

Bisogna tenere presente che dopo Le onde e mentre scriveva Flush (che dalle Onde voleva prendere le distanze senza realmente riuscirci; o meglio, l’ironia e il gioco una distanza l’avevano davvero posta ma solo per tornare agli stessi contenuti in altra forma), la Woolf aveva cominciato a comporre e a essere assediata dall’idea de Gli anni, un romanzo che in qualche misura era un ritorno all’ordine, una razionalizzazione dell’esistente. Inesorabilmente, la Woolf faceva un passo indietro, la sua ricerca della realtà si era spinta fino al punto da non poter più essere sostenuta dai suoi stessi nervi – la malattia, il demone della follia erano un rischio troppo grande, per chi, come lei, con la sua follia aveva sempre convissuto.

Cosa voglio dire, che in questo passo sembra quasi volerci dire che se ha visto «l’anima nuda» del reale, non ha voluto però trattenere l’immagine. O forse sta dicendo ancora qualcos’altro, che se Flush è veramente la nostra anima (ciò che non siamo capaci di essere totalmente, e non soltanto in «momenti»), l’anima, nel momento in cui si cerca di esprimerla, si dissolve, si dissipa, o assume inevitabilmente le sembianze di ogni essere umano, che è soggetto alle passioni («Flush conosceva tutte le sfumature della gelosia, della rabbia e della disperazione»). Flush è insomma l’immagine che ci ricorda che l’essere umano, per quanti sforzi possa compiere, non può mai coincidere realmente con se stesso.

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La verità è un dissidio

Si dirà: troppe coincidenze tra la vita e i suoi romanzi; troppe somiglianze; è una forzatura leggere i libri come fossero il ritratto della vita di chi li ha scritti. Ma il punto è esattamente questo: Virginia Woolf cercava prima di tutto di esprimere la verità della sua vita. E quella verità era un dissidio che non si sarebbe mai esaurito. Non scriveva di fatti; i fatti quasi non esistono nei suoi migliori libri – sembrano addirittura un incidente nella vera vita che le si agita dentro.

Eppure, questo è vero solo in parte. Woolf non è solamente l’autrice di quegli indiscutibili capolavori che sono La signora Dalloway, Gira al faro e Le onde, fino a quell’esperimento ultimo e definitivo, che pure rinnegherà (e che quindi verrà pubblicato soltanto postumo), che è Tra un atto e l’altro. Succedeva che Virginia di quei fatti, alle volte, aveva anche bisogno; che quella vertigine di verità doveva arginarla, controllarla, tenerla a bada. Era così nella vita; era così nei suoi libri. Romanzi come Notte e giorno, o Gli anni (1937), o la biografia che nel 1940 dedicherà al suo amico Roger Fry (il genere biografico, che pure aveva sperimentato in Orlando – ma con una libertà di immaginazione che non aveva nulla a che fare con lo studio filologico, così come accadrà, come abbiamo visto, anche in Flush –, è un’altra forma per attenersi ai fatti), testimoniano questa sua necessità di ritorno all’ordine, questo suo bisogno di razionalizzazione dell’esistente; e sono i suoi libri meno riusciti e pure quelli che più la sfiniranno in fase di elaborazione e scrittura (il 10 novembre del 1936, a proposito del lavoro su Gli anni, scrive nel suo Diario: «Mi chiedo se qualcuno ha mai sofferto per un libro quanto ho sofferto io per Gli anni. Quando ne sarò fuori non lo guarderò più. È come un lungo parto. Penso a quell’estate, col mal di testa ogni mattina, quando mi costringevo ad andare nel mio studio in camicia da notte; e dopo una pagina dovevo sdraiarmi, e sempre con la certezza che fosse un fallimento. Ora, per fortuna, quella certezza è in parte eliminata. Ma ora sento che non mi importa il giudizio di nessuno, pur di liberarmene»).

Si tratta ancora della dicotomia di cui si diceva.

Lo abbiamo accennato. Aveva deciso di sposarsi, nonostante l’assenza di trasporto sessuale per Leonard, perché si era convinta che il futuro marito avrebbe potuto restituire un ordine al proprio caos psicologico; che avrebbe potuto anche curarla dai suoi demoni: salvarla. E a suo modo Leonard l’aveva davvero salvata da se stessa. Sicuramente le aveva permesso di esprimere al meglio il suo talento, di scrivere, di assecondare le sue visioni. Per tenerla impegnata, le aveva anche proposto di aprire una casa editrice tutta loro, quella che poi diventerà la Hogarth Press e che pubblicherà alcuni dei migliori autori contemporanei (da T.S. Eliot a Edward Morgan Forster, da Katherine Mansfield a Sigmund Freud), oltre a tutti i libri di Virginia. La loro casa era divenuta il fulcro di uno scambio intellettuale (come nella giovinezza la casa dei giovani Stephen aveva accolto quello che verrà chiamato il «Bloomsbury Group»). Virginia era divenuta «l’epicentro sociale», dirà di lei Eliot dopo la sua morte, «non soltanto di un gruppo esoterico, ma della vita letteraria di Londra». E questo ci dimostra anche del suo attaccamento alla vita; e di come, secondo molte testimonianze, sapesse essere ironica, spiritosa, divertente, affilata e schietta nei giudizi (di Bernard, nelle Onde, aveva scritto qualcosa che intimamente la riguardava: «Che cosa sono io? mi chiedo. Questo? No, sono quello. Specialmente ora che ho abbandonato la stanza e la gente che parla, e le lastre di pietra rimbombano sotto i miei passi solitari, e vedo la luna che sorge sublime, indifferente, sull’antica cappella – ora diventa chiaro che non sono né uno né semplice, ma molti e complesso. In pubblico Bernard trabocca di vita, in privato è tutto un segreto»). Ma Leonard era forse il solo che aveva anche imparato a riconoscere i segni della malattia, le sue più insidiose manifestazioni; e faceva di tutto affinché non esplodessero.

In alcuni casi, leggendo, studiando, ci sembra che il mondo della scrittrice sia stato tanto interiore da sembrarci inviolabile (e viene in mente la signora Ramsay di Gita al faro, «che nei recessi della mente e del cuore» custodisce, «come tesori in una tomba regale, iscrizioni sacre, atte a solvere ogni dubbio in chi sapesse leggerle, ma accessibile ai soli iniziati, vietate al pubblico», come se qui Woolf, ritraendo sua madre, risvegliando il suo cadavere, resuscitandola, avesse compiuto una simbiosi con la sua persona, a lei si fosse identificata). Ma consiste anche in questo la grandezza della sua scrittura: nel farci comprendere quanto fosse reale il conflitto che viveva nella sua persona – conflitto che era una verità universale. Una verità di cui si poteva anche morire.

Andrea Caterini

*Il saggio pubblicato da “Pangea”, per generosità dell’autore, dal titolo originale “Virginia la pazza”, funge da introduzione a un ciclo di romanzi di Virginia Woolf ritradotti e pubblicati prossimamente dall’editore Rusconi, “Flush”, “Notte e giorno”, “Le onde”.

 

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