18 Gennaio 2020

Beckett non deve vincere il Nobel, è deprimente. Svelati gli archivi del 1969: tra i papabili, il solito Borges, Pound, Paul Celan, e una sfilza di sconosciuti. (Per l’Italia gareggiava pure Pietro Ubaldi)

Chi si ricorda del poeta arcadico Anders Österling? Appunto. Accademico di Svezia per svariati decenni – morì quasi centenario, nel 1981 – Österling s’impuntò per non assegnare il Nobel per la letteratura a Samuel Beckett. Diceva che la scrittura del genio irlandese “ha una natura decisamente negativa, improntata al nichilismo”, sostanzialmente “deprimente”, perciò in contrasto con l’alloro fondato da Alfred Nobel, teso a onorare il sorriso, gli ideali solari, le sorti umane & progressive… Nel 1968 Österling riuscì nell’intento di boicottare Beckett: il premio cascò tra le mani di Yasunari Kawabata, per altro splendido romanziere. Nel 1969, però – così svelano gli archivi del Nobel, dissotterrati ogni anno a distanza di cinquant’anni dall’assegnazione, manco celassero dei segreti di Stato – vinse la fazione guidata da Karl Ragnar Gierow, misconosciuto – per noi – regista e scrittore, accademico svedese di pregio, ricco. Il savio Karl mise un po’ di sale tra gli accademici zucconi spiegando loro, per sommi capi, che l’oscurità è necessaria per verificare la luce: “Cosa si ottiene quando si stampa un negativo? Un positivo, una chiarificazione, con il nero che esalta la luce del giorno e le parti più profonde dell’ombra intrise di chiarore”. La metafora alchemica sortì fiero effetto. Non ci voleva un consesso di geni per premiare Beckett, tra l’altro: nel 1969 Samuel aveva dato alla letteratura tutto ciò che doveva, romanzi capitali (Molloy, Malone muore, L’innominabile sono editi tra il 1951 e il 1953), testi teatrali rivoluzionari (Aspettando Godot, Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp sono editi tra 1952 e 1958). A Beckett, dicono gli archivi, stavano per preferire André Malraux – già plenipotenziario ministro della cultura con De Gaulle. In lizza, spiccano il solito Borges, Graham Greene, Pablo Neruda – che avrà il suo premio due anni dopo, nel 1971.

La cosa più divertente, appunto, è sfogliare il dattiloscritto con i nomi dei papabili. Per il 1969 sono 103. A parte nomi di lusso, ricorrenti – Jorge Amado, Louis Aragon, W.H. Auden, Heinrich Böll, Elias Canetti, E.M. Forster, Günter Grass, Eugène Ionesco, Vladimir Nabokov, Ezra Pound, Raymond Queneau – sono felice di rintracciare i nomi di Paul Celan e di René Char, di J.R.R. Tolkien e di Robert Graves, di Robert Lowell e di Pierre-Jean Jouve, di Marcel Jouhandeau (romanziere verso cui ho un debole), di Friedrich Dürrenmatt e di Inoue Yasushi, scrittore di libri miracolosi (leggete Il fucile da caccia), unico rappresentante della letteratura estremo orientale. Ciò che sorprende – con motto d’accatto da appiccicare sopra: come si fa in fretta a piombare in oblio – sono i nomi di alcuni scrittori pressoché ignoti. Alzi la mano chi conosce Emil Boyson (poeta norvegese), Josep Carner (poeta spagnolo), il francese Jean Cassou, l’altro francese, André Chamson – nella fatal lista i francesi spadroneggiano –, Taha Hussein, Väinö Linna, il canadese Hugh MacLennan, il ginevrino Robert Pinget, il drammaturgo inglese Arnold Wesker (e sono solo alcuni di moltissimi). Scavare tra i nomi insoliti, devo dire, dà più gioia che scoprire le solite magagne, cioè che il Nobel è un premio che premia l’esteticamente corretto. E gli italiani? Rappresentati dai soliti nomi. Alberto Moravia, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti. E dal filosofo mistico Pietro Ubaldi.

Quanto a Beckett, come si sa, diede degna accoglienza al Nobel per la letteratura. Era in Tunisia, si disse malato, mandò avanti Suzanne, la moglie, che dichiarò: “questo premio è una catastrofe”. Il divo Samuel spedì in Svezia, a ritirare il premio, il suo editore. Non si esibì in alcun discorso pubblico. Alla faccia di Österling.

Gruppo MAGOG